di Eugenio Giorgianni
«Perché vuoi filmarmi? Cosa pensi di guadagnarci, e soprattutto: a me che me ne viene? Perché non vai a parlare con la gente per strada, con le signore che fanno la spesa? Dici che vuoi sentire storie: davvero vuoi delle storie? Vai dai ragazzi che stanno agli angoli delle strade, loro ne hanno un sacco di storie. Sono loro che vivono il posto, loro sono il posto. Vai da loro: sono loro Moss Side. È solo un consiglio, poi fai quello che vuoi. Ciao».
Senza aspettare che ricambiassi il saluto, Mike mi volta le spalle e rientra negli studi di Radio Diamond. Resto lì, di fronte a una piccola web radio di quartiere a Moss Side, nel cuore di South Manchester. La consueta pioggia mancuniana non fa altro che aumentare il senso di frustrazione del pomeriggio appena trascorso.
Mike è un produttore musicale. Lavora con musicisti rap, r’n’b, soul, reggae: tutti generi di quella che viene definita Black music. La sua sala di registrazione si trova sul retro dell’appartamento di tre stanze che ospita la sede di Radio Diamond, una community radio ascoltata e gestita principalmente da afro-caraibici residenti nel quartiere, che trasmette online vari programmi di informazione rivolti alla comunità, accanto a una vasta programmazione di Black music.
Avevo chiesto a Mike un’intervista nell’ambito di un progetto video dal titolo Moss Side Stories, mirato a realizzare un documentario in cui le storie di vita di vari personaggi del quartiere vengono collegate da un immaginario programma radiofonico, cercando di ricostruire gli ultimi decenni della storia di Moss Side attraverso molteplici punti di vista.Eravamo in sala di registrazione quando gli ho proposto di intervistarlo. Lui ha preso uno spinello di marijuana lasciato a metà, e in tono neutro mi ha detto di accompagnarlo fuori a fumare. Uscito sul marciapiede, ha acceso con lentezza, ha tirato la prima boccata, e mi ha risposto come sopra.
I ragazzi “con un sacco di storie” di cui parla sono giovani di origine somala, che chiacchierano e fumano all’angolo vicino alla radio. Mentre stiamo parlando, uno di loro si avvicina per salutare Mike, pugno contro pugno; scambia due veloci battute con lui in uno slang strettissimo di cui capisco solo qualche parola, e ritorna dai suoi amici, all’angolo.
Ci sono gruppetti di adolescenti quasi a ogni angolo di Claremont Road, la via principale che attraversa il quartiere in tutta la sua lunghezza. Nel settore dove si trova Radio Diamond sono perlopiù somali, nello spezzone vicino al Curry Mile invece ci stanno mediorientali e nordafricani; da altre parti si vedono ragazzini neri [1]], indiani, e di tutte le sfumature di meticciato del quartiere più cosmopolita del Nord dell’Inghilterra. Varia il colore della pelle, mentre l’abbigliamento è alquanto omogeneo: cappelli a visiera, jeans e tute oversize, scarpe da ginnastica pesanti, orecchini al lobo e catene metalliche al collo; i colori sono scuri, il cappuccio delle felpe e dei giubbotti viene quasi sempre tirato su. È raro che ci siano anche delle ragazze in queste comitive di strada.
Il consiglio di Mike: «Vai dai ragazzi agli angoli delle strade», è una provocazione. Sta dicendo a me, studente universitario caucasico, che quello è un quartiere duro, dove la gente impara a vivere per strada, e che se io non ho il coraggio di affrontare chi è cresciuto in da Moss, allora è meglio che mi levi di torno e non gli faccia perdere tempo. La sua obiezione mi umilia, sbattendomi in faccia la mia totale estraneità dal contesto in cui sto cercando di condurre la mia ricerca; ma allo stesso tempo mi suona banale e forzata, ricalca in pieno il cliché dell’uomo nero che sputa la sua esperienza del ghetto in faccia al bianco borghese. Ero andato da lui a chiedere un’intervista, coerentemente con il mio progetto; che c’entrano i ragazzi per le strade?
L’indomani, una volta sbollita la rabbia e messo da parte l’orgoglio, le parole del producer mi risuonano in un altro modo. Il commento è di certo antipatico, ma fa luce su un problema metodologico al fondo della mia ricerca. Sto cercando le voci del quartiere, i testi del luogo, l’espressione creativa del paesaggio: di conseguenza il metodo deve seguire l’epidermide urbana. L’approccio comodo, la preferenza per i luoghi chiusi, la selezione dei contatti secondo uno schema prefigurato, si sono rivelati dei cul-de-sac. La ricerca deve essere un’esplorazione psicogeografica: bisogna andare alla deriva, seguendo la conformazione del territorio.
Ripenso a Mike, che mi ha portato sulla strada per darmi la sua risposta. Che sia stata una scelta ponderata, o che semplicemente abbia preso tempo per farmi stare sulle spine, non ha alcuna importanza. È un indizio da seguire: il quartiere esprime per strada una parte consistente della sua socialità, del suo discorso pubblico. È dura ammetterlo, ma Mike ha ragione: devo parlare con la gente per strada. Devo adottare un metodo paesaggistico, girare per il quartiere, esplorare la mia insicurezza sul terreno, annusare le ipotesi, scegliere man mano il percorso non in base a ciò che so, ma in base a ciò che vedo intorno (Debord, 1994). Ed è vero che quei ragazzi agli angoli delle strade sono pieni di storie da raccontare: la loro presenza sul territorio, l’estetica del loro abbigliamento, i termini delle loro conversazioni condensano decenni di politica urbanistica, di flussi migratori transoceanici, di strategie economiche globali.
Moss Side, con i suoi 17.500 abitanti, è il quartiere con il più alto tasso di crescita demografica in tutta Manchester, e una delle aree più densamente popolate del Regno Unito. Sin da quando, alla metà dell’Ottocento, pestilenze e carestie provocarono una forte ondata migratoria dall’Irlanda verso l’Inghilterra, Moss Side è sempre stato il luogo di insediamento privilegiato per la forza lavoro migrante in arrivo a Manchester. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il quartiere è stato intensamente popolato da lavoratori provenienti dalle West Indies, le colonie inglesi nei Caraibi. Negli anni ’70, mentre cresceva la prima generazione di Black Britishes, la zona viveva praticamente isolata dal resto della città, cementando il senso di comunità degli abitanti e producendo una vivida scena musicale spinta dagli stili afrocaraibici. La condizione di marginalità urbana e sociale, l’insorgere di tensioni a sfondo razzista nella società britannica, e il perenne conflitto tra le forze dell’ordine e i giovani maschi di pelle nera portarono nel 1981 all’esplosione dei Riots, fenomeni di guerriglia urbana che misero a ferro e fuoco Moss Side e gli altri ghetti neri del Paese.
Negli anni successivi ai Riots, la diffusione delle droghe pesanti scatenò violente lotte tra bande per il controllo del territorio e dello spaccio, stabilendo un endemico clima di tensione che ha fortemente diviso la comunità, limitandone la vita collettiva. Dagli anni ’90, a seguito dei massicci arrivi dalla Somalia e dal Somaliland, alla violenza per strada tra gangs somale e giamaicane si aggiunse la divisione del quartiere in settori etnici e la diffidenza reciproca tra le comunità. È questo il periodo di ‘Gunchester’: la città era diventata l’emblema della depressione britannica postindustriale, della violenza di strada e dello spaccio di droga, e Moss Side era l’epicentro di ognuno dei fenomeni suddetti. Lo stigma sociale del quartiere nel resto dell’area urbana era assoluto: scrivere nel proprio CV un indirizzo con il codice postale di Moss Side (M14, che per coincidenza è il nome di un fucile da guerra) significava essere scartati a priori.
A partire dal 2000, l’amministrazione locale ha dato il via alla Urban Regeneration di Moss Side e degli altri quartieri popolari ad alta densità migrante nell’area di South Manchester. Le gang sono state decimate da continue retate, e molti residenti delle council estates trasferiti nelle nuove periferie, per far posto a studenti e professionisti. Il fenomeno continua, trasformando il paesaggio urbano con grande rapidità: il quartiere è uno spazio denso e conteso, sul quale si accavallano narrative contrastanti. Così come in tante altre città del mondo, – Palermo in testa – il fenomeno della gentrification non instaura un dialogo col tessuto sociourbano, non si rivolge agli abitanti dei luoghi, non propone un miglioramento delle condizioni residenziali. Per riqualificare uno spazio di degrado, l’unica strategia che l’urbanistica ufficiale conosce è l’azzeramento, lo spopolamento, la riduzione da luogo abitato a buco nero: solo allora entra in campo la speculazione e il conseguente – rapido tanto quanto lo è la voracità del mercato che lo impone – recupero dello spazio alle funzioni urbane.
Così avviene a Moss Side: il ghetto si apre rapidamente alla città, i prezzi aumentano, le facce cambiano; ma permane lo stigma sociale, insieme a migliaia di vecchi residenti, che beneficiano poco o niente della Regeneration. Mentre l’edilizia e le istituzioni rosicchiano il tessuto tradizionale per far posto al mercato e a una nuova idea abitativa, il nucleo residenziale originario si riproduce e si rinnova, anche grazie al continuo arrivo di migranti. Il quartiere mantiene la vocazione di luogo di passaggio, di migrazioni, di rottura. E continua a raccontare se stesso ai giovani che crescono tra i suoi vicoli, tra la scacchiera di case in mattoni rossi, tutte uguali; solo che le voci si sono diversificate, parlano tante lingue, e tirano la rete urbana verso direzioni divergenti. In questo contributo cercherò di visualizzare come alcune di queste voci collassino in un preciso punto, in coincidenza dell’incontro tra me, un gruppo di giovani residenti, e la videocamera.
Le varie narrative dello spazio agiscono su di esso, modellano la città, stabiliscono nuovi percorsi; e allo stesso tempo, è lo spazio a plasmare la narrazione di sé e a veicolare ogni discorso sul reale. Il presupposto teorico della mia ricerca è costituito dalla proposta di Meschiari (2008) verso un’antropologia del paesaggio scritto, alla ricerca delle potenzialità creative date dalla trasformazione del paesaggio in struttura narrativa. Il paesaggio, ambiente di cui gli esseri umani sono da sempre parte integrante e costitutiva, è un processo mentale di comprensione del reale, e si riflette in ogni produzione umana. Elaborare un modello paesaggistico per lo studio dei processi cognitivi umani significa oltrepassare le dicotomie che intrappolano il pensiero occidentale. Il corpo esprime i propri pensieri, la mente si muove attraverso lo spazio: in quanto parte dell’ambiente, l’essere umano incorpora il dramma dell’esistenza, affronta la lotta per la sopravvivenza con tutte le sue energie. Il paesaggio è un rizoma: può captare nuclei di senso in ogni direzione, orientando spontaneamente le sue radici verso fonti di nutrimento e di significato.
La scelta di ricercare il paesaggio attraverso delle storie, dei testi, dipende dalla predilezione per la valenza comunicativa, quindi performativa, del testo, amplificata dalla presenza della camera, che moltiplica i piani di comunicabilità. Una performance, osservata da un punto di vista paesaggistico, mostra l’aspetto pubblico (politico) del paesaggio rivelando i suoi conflitti e le sue strutture. L’obiettivo della ricerca è l’esito che uno spazio di contestazione come il quartiere di Moss Side produce nella creatività linguistica di chi lo abita.
Ritorno sulle strade di Moss Side, accompagnato dalla regista Stefania Villa, amica e collega universitaria. Passeggiando, arriviamo al Moss Side Park, nel cuore del quartiere. Sono le 13:00, alcuni bambini giocano sull’altalena, altri girano sulle biciclette. Un gruppo di adolescenti si è radunato attorno a una panchina, ascoltando musica sui cellulari e fumando erba. I suoni sono quelli della musica urbana britannica: grime, garage, hardcore rap, dubstep – ritmiche elettroniche, toni cupi, rime rapide nello slang multietnico delle periferie inglesi. I tratti somatici e il colore della pelle di questi ragazzi variano dall’ebano al mulatto, ma fra di loro si chiamano niggah, senza distinzione. Il termine rimanda inequivocabilmente questo gruppo di giovani al mondo dell’hip hop, un linguaggio culturale straordinariamente propenso all’intertestualità (Charry, 2012): probabilmente questi ragazzi hanno vissuto tutta la loro vita in un contatto simbiotico con il loro quartiere, e il loro atteggiamento lo conferma. Rappresentano (termine amato dai militanti hip hop) una realtà locale, fortemente attaccata al territorio; eppure anche a un’occhiata superficiale i vestiti e la terminologia rimandano subito alla cultura afroamericana. È curioso come almeno due generazioni di rapper a South Manchester siano cresciute con Tupac Shakur e Notorius BIG come idoli, sognando le strade di New York e ispirandosi a questi modelli nei propri brani. Forse il potere di MTV, o forse la volontà di rompere con la Black music caraibica della generazione precedente, che aveva poco da dire a loro, non più migranti ma non completamente inglesi, costretti a vivere sulla propria pelle l’ossimoro di ‘immigrati di terza e quarta generazione’ – quasi fosse una damnatio memoriae inestinguibile.
Ci avviciniamo ai ragazzi, e chiediamo loro se hanno qualcosa da dire alla camera riguardo Moss Side: “Naaaa, non mi riprendere, uomo!” dice uno di loro mentre lecca la cartina. Chiediamo se qualcuno è in grado di fare due rime, e il tono della conversazione cambia improvvisamente. Iniziano a indicarsi tra loro: “Lui è una star! No, lui è il più bravo! Chiedi a quello che sta passando sulla BMX. Chiunque fa rap, qui”. Arriva un altro giovane, saluta con il pugno. Adesso sono tutti d’accordo: “Lui è un vero rapper, credimi.” Gli chiediamo se può farci un freestyle in camera. “Quando siete pronti”, risponde. Si chiama Don Flamez.
Parte il beat da un cellulare, e Don Flamez inizia a rappare. L’esecuzione è in parte improvvisata, per il resto è una miscellanea di rime che vengono da altri suoi brani. I suoi amici lo accompagnano nelle rime, raddoppiando la sua voce per enfatizzare alcuni passaggi – quello che in gergo tecnico si dice back-up. Il gruppo sembra divertirsi di fronte alla camera, ma nel complesso ritengo che l’obiettivo non abbia alterato troppo la performance, che appariva come una consuetudine delle giornate di questi ragazzi e della loro parklife. L’esecuzione finisce quando Don Flamez, dopo qualche minuto di rap, perde per un attimo il tempo, e decide ridendo di chiuderla lì: “Ah, fuck it! Stop it, I’m done”. Chiediamo se ha da aggiungere qualcosa: domanda stupida, perché la risposta è ovviamente negativa. Quello che andava detto è stato detto, il testo importante è la musica rap, per quanto riguarda il messaggio, l’estetica e il valore autorappresentativo. La parola parlata è molto meno importante.
Torno a casa con un brano di cui capisco davvero poco. Il linguaggio è criptico, le parole vengono contratte e storpiate, i riferimenti a luoghi e persone mi suonano sconosciuti. Se non fosse stato per l’aiuto di Dre, un amico rapper del quartiere, le rime di Don Flamez sarebbero rimaste intelligibili e del tutto fuori contesto. Provo qui una traduzione in italiano dallo slang di Moss Side. L’operazione è alquanto licenziosa, visto che non c’è un lessico di riferimento, e molte delle espressioni colloquiali usate dal rapper sono, in verità, intraducibili. Il brano ha vari passaggi in patois giamaicano, la variante dell’inglese più parlata a Moss Side fino a qualche anno fa, che non ho neanche provato a rendere in traduzione. Riporto, di seguito, il testo originale accompagnato dalla traduzione:
Don Flamez, freestyle registrato il 24 aprile 2014 a Moss Side Park, Manchester (UK).
Money motivated, yeah I’m on a money hype
Everyday I think a lot, always hope in two minds
Don’t know if to get a job or stay on the grind
Everybody knows my side, yeah we’re always right
Chatting out Red Side, some type of flow bees
Throwing up the M sign ‘cause you know the head agrees
Fuck fed coming like dub flees
Callin’ us animals, you know that? I disagree
We are no gang yo, we are just a little team
And we’ve got a money team, and we’ve got a riding team
All of us stick together, all we try to get this cheddar
Seze up in any weather. Murk me? Never ever
In the ghet, Rusholme; what are you? Rusholme
Man a man [2] am whatching you
Yeah you would get shome
Me and you Fallowfield
But you would get domed
Head top head blowen, head top head flown
Yo! you wanna know about Moss Side
Oh my god! I got green, yeah something like Longsight
Do you get it? Longsight, cause I’m repping that green thing
When I’m in that shubs don’t know that I’m drinking
Might start skanking
Man dem [3] smoking
Man dem jumping
Pie is [4] a mad thing
Gyal dem [5] whining [6]
Gyal dem teaming
Team in the weed or the beating, there are no beefing
No fighting can be assed hyping
Yo, can’t be assed with none of that
Chat shit then you get a big boy’s slap in…
But we soon get
Riped in the sife like yo! Who’s that?!?
Running down by the booth and punch up the track
I’ve got a mad tempo, black money hat
I’m a sick motherfucker, you run a black reach, yo!
One day, I was waked by my mum saying
Jessie got shot, please get dressed son
I was half asleep, so I thought she was lying
She was in the shock, but she wasn’t in the crying
Then I heard knock knock at the door now
It was my dad, I have to go to his house so I jumped in the whip
Then the car started moving
I’m seeing flashing lights, I’m hearing bare sirens
Then my daddy told me, got shot in the park
In my head, all I think is: What? Rare
Now I see my other cousin coming straight to the car
But he wasn’t coming over to speak, he rid passed us
Never think he had the heat, he was all blacked out
So he was rolling deep, he was on tag
But he knows so fuck the police
He’s on Broadfield [7] now he’s turning on to Graeme [8]
And yeah that’s the only part I remember, saturday the ninth he got shot in september
He didn’t even get to come my birthday in november
And since then, that’s why I have a temper
But now, you know I calmed down
Smoking on the weed, eyes look Chinatown
Up on stage, why
I just watched this is how we shut it down, yo
As a youth I was riding as a youth
Always reppin’ Moss, never been a new recruit
Never use to smoke the weed, now I always bun the zoot
So when the beef’s on that the only time you see me in the group
The guys who are raw yeah they’re real guys
Groove rading the hood, we got a Moss mind
We will ride in the evening or at night time
Blacked out on the bike you know yeah it’s on sight
So that right don’t hype or your getting left-right
Don’t care if your big, don’t care what height
Don’t care if your skinniny and you know you have to fight
You’ll still get badded up, you’ll still get your head skyed
Madder don’t chat shit, madder don’t tialize
Someone takin’ a pic: throwing up the M sign
‘cause you know me yeah you know it’s Donflamez
Always riding with Moss, I don’t play games
Always riding with Moss, I let the sprayed
Ain’t got one but I soon get it any day
Brown Billy black shades on a sunny day
Moss is coming through, get out of Moss way
Ain’t on about the other side but I’m gonna say
Moss is been on this thing since back in the day
If you’ve got somethig to say, come and say it to my face
Nobody knows… ah, fuck it! (laugh) stop that, finish. I’m done I’m done I’m done!
I soldi mi motivano, faccio un sacco di soldi
Ogni giorno penso tanto, ho due voci nella testa
Non so se trovarmi un lavoro o arrangiarmi per strada
Tutti sanno da che parte sto, abbiamo sempre ragione
Parlando del Red Side [9] siamo animali con il flow
Spariamo il segno della M [10], e sai che la testa dice di sì [11]
Fotti gli sbirri, fanno le imboscate
Ci chiamano animali, sai ce c’è? Non ci sto
Non siamo una gang, yo, siamo una piccola squadra
Una squadra che fa soldi, una squadra figa
Restiamo uniti tra di noi, cerchiamo tutti di fare grana
A posto in ogni situazione. Farmi fuori? Scòrdatelo
Nel ghet [12], Rusholme; Che cosa sei? Rusholme
Ti sto guardando
Posso massacrarti
Io e te a Fallowfield
Ma te lo metto in bocca
Io a testa alta e tu me lo succhi, io a testa alta e tu con un buco in testa
Yo! Volete sapere di Moss Side
Ommioddio quanta erba! Sì, un po’ come Longsight
Capito? Longsight, rappresento quella cosa verde [13]
Se faccio festa nel ghetto, bevo la qualunque
C’è da ballare
Gli amici [14] fumano
Gli amici saltano
Io sono una cosa pazzesca
Le ragazze muovono il sedere
Le ragazze fanno gruppo
Si sta in gruppo se c’è erba o se c’è rissa, ma qui non ci sono problemi
Non può succedere niente
Yo, nessuno ti rompe le scatole
Dici una cazzata e c’è qualcuno che ti prende a sberle
Noi partiamo
In freestyle tipo: Yo! Ma chi è?
Giù in studio a colpire sulla traccia
Ho una metrica pazzesca, black money hat [15]
Sono un bastardo tosto, tu non vali niente, yo!
Un giorno, mia madre mi ha svegliato dicendo
“Hanno sparato a Jessie, vèstiti figlio mio”
Ero mezzo addormentato, ho pensato che non era vero.
Lei era scioccata, ma non piangeva
Ho sentito ‘toc toc’ alla porta
Era mio padre, devo andare a casa sua. Sono saltato sulla macchina
L’auto è partita
Sto vedendo luci lampeggianti, sento le sirene a manetta
Mio padre mi ha detto: “Gli hanno sparato nel parco”
Tra me e me, penso solo: “Che? Strano!”
Vedo l’altro mio cugino venire dritto verso l’auto
Ma non veniva a parlare con noi, ci ha sorpassato senza fermarsi
Non sapevo avesse il ferro; era completamente blacked out [16]
Stava con la sua crew, era ai domiciliari
Ma lo sapeva, affanculo la polizia
Cammina lungo Broadfield Road, ora gira in Graeme streeet
E già, è l’unica parte che mi ricordo, Sabato 9, gli hanno sparato a settembre
Non ce l’ha fatta a venire al mio compleanno, a novembre
È da allora che sono incazzato
Ma adesso, sai che mi sono calmato
Fumo l’erba, gli occhi sembrano Chinatown
Sopra il palco,
Questo è il modo in cui spacchiamo, yo
Da piccolo, spaccavo tra i piccoli
Da sempre rappresento Moss, non sono mai stato una recluta
Non avevo mai fumato erba, ora sempre con la bomba accesa
Quando c’è aria di rissa, è solo allora che mi vedi nel gruppo
La gente schietta: quella è gente vera
Cresciuti nel quartiere, abbiamo la testa settata dal Moss
Giriamo di sera o di notte
Blacked out sulla bici, non ci si vede
Allora, non ti allargare o ti arrivano due pugni
Non importa quanto sei grosso, non conta se sei alto
Se hai i muscoli pompati e sai combattere
Sei finito comunque, ti facciamo volare la testa
Meglio non parlare a cazzo, meglio non fare il figo
Qualcuno fa una foto: spara il segno della M
Mi conosci, già sai chi è Don Flamez
Sempre storie di Moss, non faccio scena
Sempre storie di Moss, ho lasciato la pistola
Non ce l’ho, ma posso capitarla in ogni momento
Occhiali scuri Brown Billy in un giorno di sole
Moss sta arrivando, levati di mezzo
Niente contro le altre parti, ma devo dire
Moss sta nella scena da un sacco di tempo
Se hai qualcosa da dire, vieni a dirmela in faccia
Nessuno sa… ah, cazzo!
Il primo argomento è il denaro. L’immagine di avere tanti soldi, di puntare ai soldi, ritorna spesso nel testo, e anche in questo caso rimanda al motto di tanti rapper americani ‘It’s all about money’. Il conflitto viene espresso circa la modalità per ottenere questo denaro: ho due voci nella testa/ Non so se trovarmi un lavoro o arrangiarmi per strada. È lo scontro tra il nuovo modello di legalità che si sta imponendo nel quartiere, e il vecchio fascino dei soldi facili sulla strada. Don Flamez rappresenta la nuova generazione degli abitanti storici di Moss Side, venuti dai Caraibi e tutt’ora marginalizzati nella società britannica. È questo l’ambiente degli affiliati delle gang, e come si evince dal testo, il giovane rapper conosce intimamente il mondo del crimine di strada, pur non facendone parte. A questo universo semantico appartiene l’odio nei confronti della polizia, e la denuncia della discriminazione razziale da parte delle forze dell’ordine nei confronti dei giovani maschi neri (Ci chiamano animali, sai che c’è? Non ci sto). Gli elementi che permettono a Don Flamez di mantenere l’equilibrio e di non lasciarsi andare alla vita violenta sono due: uno è il rap, l’altro è il consumo massiccio di marijuana. È proprio il continuo smoking weed il segno distintivo di fare parte della comunità (Volete sapere di Moss Side/ Ommioddio quanta erba!) e il momento di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta (Non avevo mai fumato erba, ora sempre con la bomba accesa).
Passaggio traumatico dell’esecuzione, e dell’infanzia di Don Flamez, è l’omicidio di Jessie James, di cui il rapper (come la maggioranza degli abitanti del quartiere) dice di essere il cugino, e di aver trascorso con lui la serata fino a poche ore dalla sua morte. Curiosamente, il luogo in cui Jessie, appena quindicenne è stato freddato il 9 settembre 2006, è a pochi passi dal luogo dove Don Flamez ha eseguito il suo rap, e dalla panchina dove era seduto si vede il muro del parco che gli amici di Jessie hanno riempito di graffiti in sua memoria. Il freestyle dedicato a Jessie è al presente: Don Flamez riattraversa immagini e sensazioni di quella sera, rinnova la celebrazione dell’amico perso, dell’infanzia interrotta di colpo.
Jessie fu ucciso perché scambiato per un membro di una gang, ossia per un banale equivoco. L’incidente ebbe un grandissimo impatto mediatico, e provocò l’ulteriore accanimento della polizia contro le gang di quartiere. Rahman (2010) fa presente come nel quartiere fosse frequente che vittime innocenti, anche in tenera età come Jessie, venissero uccise da pallottole vaganti o per vendette trasversali, senza che nessuno se ne scandalizzasse, nemmeno i parenti. La mediatizzazione della morte di Jessie corrisponde agli interessi delle nuove agencies, che usano la tragedia come pezza d’appoggio al discorso della Regeneration, per cooptare maggiori energie al progetto speculativo che riguarda l’area. L’eco mediatico scolpisce l’evento nella coscienza delle giovani generazioni, come monito per distoglierli dalla brutalità del crimine. Anche Don Flamez e la sua famiglia si commuovono, ma forse i moventi sono diversi. Don vede suo cugino per strada con la sua crew, armati, che sfida i domiciliari per assistere alla scena, magari con il proposito di vendicarsi dell’assurda ingiustizia subita da Jessie. L’evento proietta Don Flamez in un’adolescenza turbolenta e rabbiosa (since then, that’s why I have the temper) in cui l’unico luogo di serenità sembrano essere i quartieri di South Manchester, da celebrare con il segno della M ogni qual volta c’è da immortalare un’immagine.
Flamez calca l’accento sul termine ‘ghetto’, lo dipinge come una comunità chiusa, in cui chiunque si avventuri senza permesso viene sanzionato e umiliato nei modi più tremendi. Questa immagine di dangerous black gangster sembra ormai datata, non trova riscontri nella quotidianità di Moss Side, ma per Don Flamez e i suoi amici resta un forte serbatoio di senso, li dota di un’identità nello spazio che vivono, estromettendoli dal resto del contesto urbano (sebbene, nelle rime, sia l’avventore a essere estromesso e punito per il suo sconfinare) ma concedendogli un rifugio dove celebrare le proprie ritualità: il rap, le feste, il consumo di erba. Quando parla di Moss Side, il linguaggio di Don Flamez si fa immaginifico, i giochi di parole si sprecano, il quartiere prende vita, modella il suo pensiero (we got a Moss mind), diventa militanza (Always reppin’ Moss). Gli spazi stretti della marginalità urbana si allargano a dismisura nella creazione artistica del giovane, gli forniscono una ragion d’essere. Dre, che pazientemente spiega la matassa concettuale del freestyle, riducendolo a mia comprensione, approfondisce il concetto di ghetto mentality: «Significa andare in giro per il ghetto con gli amici (rollin down), ascoltare Tupac, cose del genere. A 12, 13 anni, i ragazzini iniziano a tirare un po’ di soldi da qualche affare illegale (ride), e per questo girano vestiti di nero sulle bici, per non farsi vedere di notte dalla polizia».
Il ghetto, tutt’altro che monotono, viene presentato come un luogo festoso, con un linguaggio colorito. Flamez usa il patois in alcuni intermezzi in cui descrive la vita a Moss Side: «È un modo per mostrare rispetto alle radici, perché le nostre famiglie vengono da lì, dalla Giamaica» mi spiega Dre; «E poi è un modo per cambiare, per aggiungere un suono diverso al flow».
Su questo flow vedo scorrere le giornate di questi ragazzi e del loro quartiere. L’innovazione si basa sulle variazioni di piccoli elementi, il gioco linguistico è pagare un tributo alla tradizione, mantenere il messaggio criptico, comprensibile solo a chi ha dimestichezza con la quotidianità della strada, aggiungendo degli elementi di sorpresa e di creazione personale. Come per l’espressione black money hat: chiestone il significato a Dre, ottengo la sua risposta, un po’ imbarazzata: «Questa è nuova anche per me, credimi!».
Così i giovani di Moss Side dialogano con il loro quartiere, dicono la loro, e reinventano a parole il loro mondo, disegnandolo un po’ più lontano dai quartieri della middle class bianca britannica, e un po’ più vicino a Harlem e Brooklyn.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
[1] Uso tale termine perché ricalca più da vicino l’espressione originale Black Britishes, con cui i cittadini britannici di pelle nera si autodesignano, accomunando così i discendenti di migranti di origine afrocaraibica e subsahariana in un unico raggruppamento sociale che affronta analoghe condizioni esistenziali e spaziali.
[2] Modo per esprimere il pronome singolare di prima persona (‘io’) in patois giamaicano.
[3 “Uomini” in patois giamaicano.
[4] “Io sono”.
[5] “Ragazze” in patois giamaicano.
[6] “Whining” è uno stile di danza caratteristico delle Isole dei Caraibi. Consiste nel muovere ritmicamente bacino e fianchi.
[7] Broadfield Road.
[8] Graeme Street.
[9] Un modo per chiamare Moss Side. Rosso è il colore della Doddington gang, rivale della Gooch (contraddistinta dal colore blu), l’altra famigerata gang di ‘Gunchester’, che si è formata a Moss Side ma poi si è rilocata a Old Trafford, dopo anni di retate e di trasferimento dei residenti meno abbienti. Molti ragazzi, pur senza essere affiliati ad alcuna gang, sfoggiano il colore del proprio quartiere. Questa maniera di distinguere gruppi in lotta fra loro ricorda tanto la guerra tra Crips (blu) e Bloods (rosso), le due principali gang afroamericane di Los Angeles.
[10] Segno prodotto incrociando medio e anulare di una mano, per creare con le dita la ‘M’ iniziale di Manchester.
[11] Gli appassionati di rap annuiscono sul ritmo delle canzoni di loro gradimento.
[12] Ghetto.
[13] Espressione ambigua utilizzata per indicare “soldi” o “marijuana”.
[14] “Man dem” significa ‘uomini’ in patois giamaicano. Viene usato in Inghilterra per indicare giovani maschi.
[15] Intraducibile.
[16] Vestito completamente di nero, per non essere visto negli spazi pubblici durante le ore di oscurità.
Riferimenti bibliografici
Charry, Eric, 2012 (ed.), Hip Hop Africa, Indiana University Press, Bloomington.
Debord, Guy, 1994, Théorie de la dérive, in Internazionale situazionista 1958-69, Nautilus, Torino.
Meschiari, Matteo, 2008, Sistemi selvaggi. Antropologia del paesaggio scritto, Sellerio, Palermo.
2010, Terra Sapiens. Antropologie del paesaggio, Sellerio, Palermo.
Rahman, Tanzima, 2010, True Blues, Blacks and in-between: Urban Regeneration in Moss Side, tesi dottorale, University of Manchester: United Kingdom.
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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha recentemente completato il Master of Arts in Visual Anthropology presso The University of Manchester. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto, con il supporto della Universidad de Granada, una ricerca etnografica presso la comunità dei migranti in transito a Melilla (Spagna africana). Tra i suoi interessi di studio temi e questioni relativi all’antropologia dello spazio. In questa direzione ha condotto una ricerca sul quartiere palermitano di Ballarò.
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