Il pomeriggio del 21 gennaio, ultimo giorno del suo stage, Lorenzo, un ragazzo di 18 anni di Udine, è rimasto vittima di un incidente sul lavoro. Lo studente, iscritto ad un Centro di formazione professionale è stato colpito al capo da una putrella d’acciaio ed è morto all’istante [1].
A febbraio Giuseppe, studente della provincia di Fermo, 16 anni, è morto in un incidente stradale durante uno stage scolastico. Il ragazzo era passeggero in un autocarro, che si è schiantato contro un albero. Frequentava l’ultimo anno di un centro di formazione professionale, a giugno avrebbe conseguito il diploma di operaio specializzato in termoidraulica [2].
Il 21 maggio scorso uno studente di 17 anni è rimasto gravemente ustionato a causa di un ritorno di fiamma all’interno di un’officina di Merano, in provincia di Bolzano, dove il ragazzo era in regime di Percorso per le competenze trasversali (Pcto) [3].
Negli ultimi mesi abbiamo sentito molto parlare degli avvenimenti riguardanti alcuni studenti che hanno perso la vita durante il percorso per le competenze trasversali e l’orientamento previsto per la scuola secondaria di secondo grado. Per i non addetti ai lavori (insegnanti, aziende) è difficile capire di cosa stiamo parlando quando ci riferiamo al Pcto. Credo sia quindi necessario fare chiarezza su questo tema, facendo un passo indietro e facendo riferimento alla normativa a riguardo. Principalmente il Pcto è normato dalla legge 145 del 30 dicembre 2018. Secondo l’aggiornamento della Legge 145 del 30 dicembre 2018, i Pcto, che le istituzioni scolastiche promuovono per sviluppare le competenze trasversali, contribuiscono ad esaltare la valenza formativa dell’orientamento in itinere, in una logica centrata anche sull’auto-orientamento.
I Pcto sono attuati per una durata complessiva non inferiore a 210 ore negli istituti professionali, a 150 ore negli istituti tecnici, a 90 ore nei licei (Legge di Bilancio 2019, che ha modificato in parte la legge 107/2015). Le successive Linee guida del 4/9/2019 hanno definito gli aspetti didattici, organizzativi e valutativi, evidenziando le finalità orientative dei percorsi e l’obiettivo di far acquisire ai giovani le competenze trasversali utili al loro futuro impiego, nella prospettiva dell’apprendimento permanente. I percorsi vengono inquadrati nel contesto dell’intera progettazione didattica e non possono infatti essere considerati come un’esperienza occasionale in contesti esterni, ma costituiscono un aspetto fondamentale del piano di studio. Nella progettazione devono essere definiti anche i criteri di valutazione delle competenze acquisite. Il MIUR ha inoltre emanato delle Linee Guida (ai sensi dell’articolo 1, comma 785, legge 30 dicembre 2018, n. 145) che tracciano un quadro normativo e disciplinare di tali percorsi in coerenza con quelli affrontati dai nostri colleghi europei. Si riporta infatti nelle Linee guida:
«In chiave europea gli obiettivi, o meglio i risultati di apprendimento, si collegano, quindi, al mondo reale attraverso attività orientate all’azione, per mezzo di esperienze maturate durante il corso degli studi, acquisite attraverso progetti orientati al fare e a compiti di realtà» (MIUR, 2018: 3).
«I Pcto, che le istituzioni scolastiche promuovono per sviluppare le competenze trasversali, contribuiscono ad esaltare la valenza formativa dell’orientamento in itinere, laddove pongono gli studenti nella condizione di maturare un atteggiamento di graduale e sempre maggiore consapevolezza delle proprie vocazioni, in funzione del contesto di riferimento e della realizzazione del proprio progetto personale e sociale, in una logica centrata sull’auto-orientamento» (MIUR, 2018: 8).
Questi percorsi hanno quindi il duplice obiettivo, da un lato di permettere ai ragazzi e alle ragazze di affacciarsi al mondo del lavoro, dall’altro di sviluppare competenze pragmatiche spendibili alla fine del percorso di studi. Le famiglie dei ragazzi deceduti/infortunati sicuramente si chiederanno se vale la pena rischiare la vita per acquisire queste competenze, il punto è che come riportato nelle Linee guida:
«Al fine di assicurare il successo dell’esperienza formativa è opportuno che l’istituzione scolastica verifichi preliminarmente che la struttura ospitante eventualmente individuata offra un contesto adatto ad ospitare gli studenti e presenti idonee capacità strutturali, tecnologiche e organizzative, tali da garantire soprattutto la salvaguardia della salute e della sicurezza degli studenti partecipanti alle iniziative in programma» (MIUR, 2018: 18)
Ciò che è successo non sarebbe quindi dovuto succedere se le normative sulla sicurezza fossero state applicate in maniera corretta. La reazione degli studenti di tutta Italia è stata quella di manifestare non tanto per l’abolizione dei Pcto ma per una riforma di questi stessi percorsi.
Durante questo dibattito io mi trovavo alla mia prima esperienza come insegnante di Scienze Umane in un Liceo delle scienze umane fiorentino e come referente per una delle mie classi a gestire le varie problematiche relative proprio al Pcto che si stava svolgendo presso le scuole primarie del territorio. Ho quindi potuto approfittare della sorveglianza della classe a me assegnata per poter compiere riflessioni ed osservazioni su questo tema nonché cogliere luci e ombre di questa esperienza.
Il Liceo delle scienze umane nasce dall’eredità dell’Istituto magistrale, poi divenuto Liceo delle scienze sociali nel 1998, e dalle sperimentazioni socio-psico-pedagogico e pedagogico-sociale che si sono sviluppate nel tempo. Nel 1991 vennero soppressi i licei autonomi e attivati i licei (progetto Brocca) di 5 anni dalla Circolare Ministeriale 11 febbraio 1991, n. 27, tra cui il Liceo socio-psico-pedagogico (1992-2010) e il Liceo delle scienze sociali (1998-2010). Qui non essendoci ancora una normativa specifica si accenna alla possibilità di effettuare un tirocinio che solitamente veniva svolto presso istituzioni scolastiche di grado inferiore al Liceo.
Ancora oggi al Liceo delle scienze umane, di solito, il percorso per le competenze trasversali viene per lo più svolto facendo esercitare osservazione, quindi non lavoro diretto, agli studenti e alle studentesse presso scuole primarie o dell’infanzia. Questo avviene probabilmente in un’ottica, del tutto discutibile oggi, che vede lo studente a decidere di voler fare l’insegnante alla fine del Liceo, iscrivendosi quindi alla Laurea a ciclo unico quinquennale (LM-85bis Scienze della formazione primaria) previo superamento del test d’ingresso.
I ragazzi dovrebbero teoricamente essere formati a scuola prima di iniziare il Pcto su cosa possono e non possono fare, sugli orari, la modulistica da completare e le norme da rispettare. Nel mio caso, avendo una formazione prettamente antropologica, ai ragazzi ho espressamente chiesto anche di realizzare un diario di campo delle due settimane passate alla scuola primaria. I ragazzi avrebbero dovuto mettere in pratica uno dei capisaldi del metodo antropologico ovvero l’osservazione partecipante. All’interno del diario i ragazzi avrebbero dovuto cercare di rispondere a queste domande:
- Quali attività ho osservato? Spiega nei dettagli (tempi, metodologie, strategie, feedback)
- Che età (classe) hanno i bambini che ho osservato?
- Ho osservato un gruppo misto (bambini e bambine) o solo maschile/femminile?
- Sono stato/a ben accolto/a dagli/le insegnanti?
- Sono stato/a ben accolto/a dagli/le studenti?
- Ho percepito l’influenza della mia presenza sul comportamento degli/delle alunne?
- Ho percepito l’influenza della mia presenza sul comportamento degli/delle insegnanti?
- Considero la mia esperienza positiva/negativa, perché?
Dopo aver letto in classe brani di Tristi tropici di Claude Levi-Strauss e altri classici, l’idea era di formarli ad una attenta osservazione dei vari aspetti che riguardano la vita scolastica dei bambini: dal linguaggio alla concezione del genere, dalle modalità di inclusione dei bambini disabili all’utilizzo di metodologie volte all’integrazione di ragazzini stranieri; d’altra parte anche la relazione educativa e il rapporto con l’insegnante sono stati punti fondamentali di interesse da parte dei ragazzi che hanno notato la differenza di comportamento da parte dei bambini nei confronti di un’ insegnante piuttosto di un’altra.
Riporta infatti uno studente:
«La maestra di matematica ad esempio ci faceva sempre notare come il lavoro di gruppo fosse importante e funzionale per gli alunni, favorendo questo suo comportamento. Invece la maestra di Italiano, oltre agli esercizi di grammatica e di scrittura, proponeva sempre la lettura di poesie e testi, con una morale implicita, da comprendere e in seguito da raffigurare con disegni. In questi giorni ho compreso che l’arte è un metodo fondamentale, se non quello per eccellenza, per esprimere concetti più o meno complessi e dimostrare di averli compresi e di padroneggiarli» (studente anonimo).
L’osservazione e l’affiancamento del lavoro diretto delle insegnanti (definito “job shadowing” dalle agenzie come Indire rispetto a progetti europei come l’Erasmus Plus) da parte degli studenti ha creato negli studenti grandi aspettative, tanto da rendere il primo giorno un momento emotivamente importante per i ragazzi. Uscire da scuola per imparare a fare ciò che forse faranno dopo il diploma è stato considerato dagli studenti delle attuali classi quinte, un privilegio del quale non hanno potuto usufruire a causa del COVID gli anni scorsi. I due anni precedenti al 2021-22 non hanno infatti permesso alle scuole di portare avanti questa prassi ormai consolidata, lasciando che anche questa attività fosse attuata tramite la didattica a distanza. Si sono moltiplicati webinar e seminari offerti dall’Ufficio scolastico regionale e da vari enti formativi seppur sempre a distanza. Quanto sia stata poco efficace e quali siano ancora oggi le conseguenze della DAD è stato molto dibattuto sia in rete che nella letteratura, ma ancora più arduo è stato il compito di cercare di sostituire qualcosa di pratico come il Pcto con pratiche virtuali. A volte noi insegnanti ci dimentichiamo di considerare le emozioni dei ragazzi oltre alle loro valutazioni.
Così descrive uno studente l’impatto del primo giorno di Pcto:
«Svariati disegni sulle pareti colorate, i banchini bassi, le sedie minuscole e tanti piccoli esseri che ci fissavano intensamente mentre due cordiali maestre ci davano un caloroso benvenuto. Così ho vissuto i primi istanti in quell’aula che dopo due settimane mi ha lasciato tanto sia nel cuore che nella mente, per arricchire la mia formazione. Appena entrate io e la mia compagna abbiamo notato subito l’immensa curiosità dei bambini che si erano distratti subito e la prima domanda che ci siamo fatte è stata in quale stadio li avrebbe collocati Piaget. Cercando di avvalorare o meno la teoria, ormai superata secondo molti, del pedagogo abbiamo compreso che i bambini si trovavano nello stadio preoperatorio, caratterizzato dalla formazione delle strutture cognitive simboliche e da fenomeni come l’egocentrismo o l’irreversibilità. Il primo giorno i bambini sembravano un po’ diffidenti nei nostri confronti, dunque iniziarono a farci tantissime domande, la più gettonata era sempre “quanti anni hai?”, la loro curiosità era tantissima e noi eravamo sempre più felici di questa nuova esperienza. Inoltre ripensando alla pedagogia e alla psicologia studiata, abbiamo anche constatato che i bambini si trovavano in quella che era per Freud la fase di latenza (in cui le pulsioni sessuali venivano nascoste in attività socialmente incoraggiate come la scuola), ma non sono sicura che fosse per tutti così; dal momento che essendo la fase successiva a quella fallica (caratterizzata dalla gratificazione trovata negli organi genitali), alcuni bambini potrebbero essere ancora in una fase transitoria. Ma dato che ho avuto la possibilità di vedere i bambini unicamente in ambiente scolastico erano tutti concentrati sugli stimoli dati dalle attività proposte da istituzioni come la scuola e di sport».
Come riporta lo studente l’esperienza del percorso trasversale permette anche di osservare alcune teorie affrontate durante il percorso di studi, attraverso l’osservazione della vita quotidiana in classe. Calarsi nella realtà del mondo fuori dalla scuola, anche se nel caso del Liceo delle Scienze Umane talvolta l’esperienza avviene in scuole di grado inferiore, mette in discussione l’identità dei ragazzi, li riporta a esperienze vissute; nel caso dello studente che riporto di seguito ci si riferisce all’infanzia e alla letteratura che accompagna la crescita del bambino in questo periodo. Questa la sua testimonianza alla conclusione del percorso:
«Mi sono sempre immaginata una piccola Wendy, alla finestra, in attesa del mio Peter Pan. Più crescevo però, più la seconda stella a destra si affievoliva. L’ho vista lampeggiare, poi spegnersi e lasciarmi al buio “Peter dove sei?” mi chiedevo. Adesso che la luce si è spenta non troverà mai la strada per arrivare da me. Ma Peter mi ha trovata, Peter era negli occhi di tutti quei bambini, nei loro sorrisi, nelle loro carezze goffe e abbracci irruenti. Loro sono stati il mio Peter Pan, mi hanno indicato una nuova luce. Forse non mi porterà all’isola che non c’è; ma d’altronde credo di essere un po’ cresciuta per i bimbi sperduti. Mi hanno chiesto di non dimenticarli mai, come potrei? Mi hanno re-insegnato a sognare, a sperare e perché no pure a vivere. Sono andata lì per fare lezione, sono tornata e la lezione l’ho appresa io. Quella di amare, in modo incondizionato e genuino. Grazie miei piccoli Peter Pan, vostra Wendy, per sempre».
All’esperienza di PCTO hanno partecipato tutte le classi terze e quarte, anche gli studenti diversamente abili presenti all’interno delle classi, coloro che presentano situazioni problematiche e hanno bisogni educativi speciali per situazioni di disagio socio-economico o chi ha disturbi dell’apprendimento. Quest’esperienza per alcuni è risultata terapeutica e ha permesso loro di lasciare fuori dall’aula le difficoltà e le fragilità che talvolta li accompagnano.
Molti sono gli studi che si occupano di come fare una buona osservazione a scuola (Leoncini, 2011) ma solo compiendo delle osservazioni etnografiche ci si rende conto di quanto esperienze come il Pcto possano essere fondamentali per la maturazione e la crescita di tutti gli studenti e per la socializzazione e l’autonomia di ragazzi e ragazze diversamente abili, plusdotati, che attraversano una situazione permanente o temporanea di disagio. Come sostengono Canevaro e Ianes:
«Una scuola che vuole muoversi verso una sempre maggiore inclusività parte da una base di uguaglianza (siamo tutti uguali davanti alla/nella scuola….), accogliendo nella scuola di tutti ogni alunno, indipendentemente dalle sue condizioni e dal suo “funzionamento” in senso globale. Ma questa è soltanto la base di partenza, perché il punto di arrivo è quello della giustizia come equità, del fare parti disuguali tra disuguali, come ci ricorda don Milani, del fare differenze compensative, del personalizzare didattica e verifiche, del distribuire le risorse secondo i bisogni di ciascuno. Non è facile avvicinarsi a un’idea di giustizia come equità, ma è imprescindibile. Una scuola sempre più inclusiva cerca di comprendere le varie situazioni individuali attraverso un’antropologia complessa, biopsicosociale, non con modelli medici, biostrutturali, delegati ad altre professionalità, e cerca di capire le situazioni personali attribuendo un ruolo fondamentale ai fattori vari di contesto, in un’ottica globale e multidimensionale, come quella che ICF dell’OMS ha portato e diffuso, prevalentemente nella cultura pedagogica, in Italia. Una scuola inclusiva cerca progressivamente di superare una didattica standard, uguale per tutti gli alunni salvo per quei pochi nella situazione di BES. La didattica inclusiva è invece la didattica della differenziazione “strutturale”, del design istituzionale che ha già dentro di sé quella universalità che lo rende accessibile a tutte le varie modalità di apprendimento» (Canevaro, Ianes 2015: 13)
Concludo riflettendo sul fatto che l’esperienza dei percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento sono un’occasione che i ragazzi dovrebbero cogliere. Ovviamente il sistema attuale deve essere riformato tramite una diversificazione dell’offerta e una maggiore collaborazione tra scuole, aziende, imprese, enti di formazione e ricerca. Le leggi che riguardano la sicurezza sui luoghi di lavoro devono essere applicate in tutto e per tutto anche nel caso del Pcto per evitare che ciò che è successo si ripeta di nuovo. Questo filo rosso tra scuola e realtà lavorativa fuori dalla scuola non deve essere spezzato, anche per cercare di ridurre la piaga dei NEET e permettere che il mondo della scuola e quello della formazione collaborino.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1]https://www.ilgazzettino.it/nordest/udine/mattarella_visita_scuola_lorenzo_parelli_studente_morto_stage-6658254.html
[2] https://corriereuniv.it/muore-a-16-anni-durante-uno-stage-a-causa-di-un-incidente-stradale/
[3] https://www.repubblica.it/cronaca/2022/05/21/news/studente_di_17_anni_si_ustiona
_n_carrozzeria_durante_lalternanza_scuola_lacvoro_e_grave-350477438/
Riferimenti bibliografici
Canevaro A., Ianes D., Buone prassi di integrazione e inclusione scolastica, Edizioni Erickson, Trento, 2015.
Leoncini, S., Etnografia in contesti scolastici: prospettiva di ricerca tra antropologia e pedagogia. Focus sulla metodologia, supplemento a “Formazione & Insegnamento” , IX – 3, 2011.
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Sabina Leoncini, antropologa, è Dottore di Ricerca in Scienze della Formazione. Il suo principale ambito di interessi è l’educazione mista in Israele/Palestina; si è occupata anche del significato socio-culturale del muro che separa Israele e Cisgiordania. Attualmente si occupa di inclusione sociale. Ha collaborato con alcune Università straniere tra le quali l’università Ebraica di Gerusalemme (HUJI), l’Istituto Universitario Europeo (EUI) di Fiesole, l’Università Ludwig Maximilian (LMU) di Monaco. Ha usufruito di varie borse di studio (MAE, DAAD) e partecipato a progetti ministeriali tra cui PON e progetti europei, in particolare all’interno del programma Erasmus Plus per i quali è stata referente. Attualmente insegna Scienze umane alla scuola superiore.
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