«Nuddu si pigghia si nun si rassumigghia» recita un antico detto siciliano. Veritiero, come non sempre sono i proverbi. Tra Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro e Lorenza Feliciani tante furono le affinità: l’assenza di remore morali, la predisposizione alla mistificazione, la capacità di arrangiarsi ricorrendo ad artifici d’ogni genere. L’attrazione fatale, che fa percorrere assieme e condividere lunghi tratti della propria esistenza, non colpisce soltanto le anime elette, gli spiriti elevati, ché tali non furono il misterioso genio dell’imbroglio palermitano e l’avvenente e spregiudicata donna romana.
Su Cagliostro si è scritto tantissimo, di tutto e di più. Alchimista, ciarlatano, guaritore, veggente, impostore, avventuriero, precursore della medicina alternativa, inimitabile talento della truffa? Chi fu il conte Cagliostro? E davvero si chiamò Cagliostro e fu conte? Ancora oggi, dopo che per secoli fiumi d’inchiostro ne hanno alimentato il mito, permangono tanti enigmi sulla sua figura e sulla sua vita. Su una cosa Cagliostro ebbe ragione, e in ciò si rivelò un autentico indovino: ‹‹La verità su di me non sarà mai scritta, perché nessuno la conosce››. Profezia azzeccata.
Primo dilemma l’identità: conte Alessandro Cagliostro o Giuseppe Balsamo? Furono la stessa persona o due uomini diversi intrecciati dal fato nel cammino delle loro esistenze?
Che Giuseppe Balsamo e Cagliostro avessero la stessa pelle, gli stessi occhi, la stessa anima (non certo candida) oggi è quasi certo. E però nel passato la convinzione secondo la quale dietro quei due nomi si celassero due soggetti differenti, separati da una distanza abissale per ceto, spessore umano e culturale, fu radicata in tanti, e persino continua a esserla in uno scrittore del nostro tempo, Pier Carpi: Giuseppe Balsamo, un palermitano di umili origini, truffaldino e dall’aspetto sgradevole; Alessandro Cagliostro, un nobile in giro per le corti di tutto il mondo, poliglotta, colto, grande conoscitore delle arti mediche, benefattore. Come mai le loro esistenze si incrociarono e l’una si sovrappose all’altra? Vi è una spiegazione assai romanzesca. Il padre di Alessandro Cagliostro, un nobile portoghese, avrebbe consegnato il figlio, e con lui un lauto compenso, al mercante palermitano Pietro Balsamo, per evitargli, in epoca di persecuzioni per la cacciata dei Gesuiti, la probabile morte. Pietro Balsamo avrebbe tenuto con sé il piccolo Alessandro che, stando a questa versione, sarebbe cresciuto, almeno nell’infanzia, accanto al figlio naturale, Giuseppe, sino a quando i due non fossero stati divisi da strade diverse: la pratica dell’alchimia per Alessandro, l’arte della truffa per Giuseppe.
Singolare e poco credibile la tesi della diversa identità di Cagliostro e Balsamo, ma rivelatrice della pluralità di anime del personaggio (“uno, nessuno, centomila”), o, meglio, della sua capacità di sapersi sdoppiare, indossando le vesti di uomini completamente diversi e opposti. Se davvero è stato un imbroglione, Cagliostro in ciò ha comunque rivelato un talento straordinario, tanto che, a diversi secoli dalla sua esistenza, ancora oggi riesce a sparigliare le carte a chi tenta di afferrarne l’identità.
Era il 2 giugno 1743 quando in un vicolo del chiassoso quartiere palermitano dell’Albergheria nacque Giuseppe Balsamo. Precisamente in quella che allora si chiamava «via del Perciato», dopo ironicamente battezzata «vicolo del Pisciato» alludendosi al fatto che era divenuta un lurido vespasiano, e solo dopo l’Unità d’Italia, nel 1869, denominata in suo onore «vicolo Conte Cagliostro». Fu il secondogenito di Pietro Balsamo, venditore ambulante di stoffe, e di Felicia Bracconieri. Sei giorni dopo la nascita venne battezzato in cattedrale con una sfilza di nomi: Giuseppe, Giovan Battista, Vincenzo, Pietro, Antonio, Matteo. Madrina per procura fu Vincenza Cagliostro, una parente di Novara di Sicilia. Di quel cognome il Balsamo si sarebbe ricordato per adottarlo quando, nell’aprile del 1776, fu iniziato a Londra ai riti massonici. Con quel cognome e col titolo usurpato di conte sarebbe diventato noto in tutto il mondo.
Su Lorenza Feliciani, a differenza del suo uomo, si è scritto poco, e sempre in relazione ai fatti e ai misfatti di Cagliostro. Nacque a Roma l’8 aprile del 1751. Figlia di un ottonaio, Lorenza da piccola visse nell’angusta via delle Grotte, vicino Piazza Farnese e Campo dei Fiori dove, come tutte le ragazze povere, si recava in ciabatte per rifornirsi d’acqua. Occhi azzurri, capelli dorati, lineamenti delicati, corpo esile e slanciato, Lorenza sin da fanciulla rivelò una straordinaria bellezza pari all’ignoranza: non sapeva né leggere né scrivere, ma in compenso eccelleva nella scaltrezza votata alle conquiste venali, come in molte popolane. Col fascino reso provocante dalla baldanza unita alla grazia non le fu difficile attirare gli sguardi avidi degli uomini. Ai quali assai presto si concesse in cambio di denaro. E pare sia stato proprio un postribolo, dove Lorenza esercitava giovanissima il mestiere più antico, il luogo dove Balsamo Cagliostro la conobbe. Anche in senso biblico.
Decisivo nella vita di Cagliostro fu il suo primo soggiorno a Roma. Ancor oggi a Piazza Colonna, dinanzi il Pantheon, sul prospetto della storica «Locanda del Sole» una targa ricorda che lì ebbe alloggio Cagliostro. Era il 1768 e Balsamo aveva quasi 25 anni. Fu coinvolto in una violenta rissa e, a causa di essa, finì in prigione. Ma, ritornato in libertà, incontrò la donna della sua vita, Lorenza Feliciani, la sua anima gemella, locuzione abusata e retorica, ma in questo caso appropriata. Dopo una breve frequentazione, i due si sposarono col consenso dei genitori di lei. Il matrimonio fu celebrato nella chiesa di San Salvatore in Campo l’8 aprile del 1768.
Ebbe così inizio un’unione travagliata, ricca di complicità, tradimenti e denunce reciproci, passione e ostilità. La donna doveva avere un suo charme particolare se Casanova, uno che del gentile sesso se ne intendeva, quando incontrò per la prima volta Cagliostro in Provenza nel 1769 (il secondo incontro avvenne nove anni dopo a Venezia), mentre rimarcò ‹‹la baldanza, la sfrontatezza, l’impertinenza, la marioleria›› del Balsamo, esaltò l’avvenenza di Lorenza: ‹‹Destava interesse per la sua giovanissima età, per la sua bellezza che la mestizia aumentava››.
Casanova nella Storia della mia vita annotò tra l’altro: «Ella mi disse che era romana, e non aveva bisogno di dirmelo, giacché il suo grazioso linguaggio mi dava certo che così fosse… Disse che suo marito, uomo vigorosissimo, non aveva sofferto, ma che lei aveva patito atroci pene nel dover camminare sempre a piedi e dormire in letti cattivi, quasi sempre vestita per paura di contrarre malattie della pelle, di cui poi sarebbe stato molto difficile guarire. Mi parve verosimile che ella ci parlasse di quella circostanza non per altro per metterci nella curiosità di vedere la pulizia della sua pelle in altre parti oltre le braccia e le mani, delle quali intanto ci lasciava vedere gratis la bianchezza e la perfetta pulizia».
Il ritratto di Casanova, acuto conoscitore dell’anima femminile, mette in risalto da un lato il risentimento che Lorenza, sin dall’inizio, nutre nei confronti del marito che la costringe a vivere nel disagio e dall’altro le sue capacità di seduzione, quell’arte di mostrarsi con naturalezza e apparente ingenuità accendendo il desiderio degli uomini.
Tante vicende rivelano la lussuria e la spregiudicatezza di Lorenza Feliciani. La truffa perpetrata, nel 1771 a Londra, a un quacchero che, indotto dal Balsamo ad amoreggiare con Lorenza, fu fatto sorprendere durante l’amplesso e costretto a versare al palermitano una considerevole somma per evitare lo scandalo. O l’incarico che il ricco sir Edward Hales, circuito da Lorenza, diede al Balsamo di affrescargli il castello, con esiti disastrosi, sia per le maldestre pennellate, sia perché il siciliano ne approfittò per sedurgli la figlia. E non mancarono in ambienti anche altolocati “mènage à trois”.
Lorenza fu spesso complice di Cagliostro: adescava e seduceva gli uomini, li inebriava nei giochi di letto per favorire le mascalzonate del marito. Più che marito e moglie Cagliostro e Lorenza Feliciani furono due soci in affari. La loro associazione a delinquere, però, non sempre funzionò: erano entrambi troppo smaliziati e avidi per rimanere fedeli al copione dei loro ruoli. Erano troppo simili nella smania di protagonismo e di avventura per non tradirsi vicendevolmente.
In uno dei loro tanti peregrinaggi, in Francia, nel settembre del 1772, i due coniugi conobbero l’avvocato Duplessis, amministratore dei beni della marchesa de Prie. Lorenza divenne l’amante di Duplessis col consenso compiaciuto di Cagliostro che mirava a far proprie le ricchezze della marchesa. Ma Lorenza s’immedesimò tanto nella parte da preferire l’agiatezza della vita con Duplessis a quella spericolata con Cagliostro. Fu così che si trasferì in un appartamento dell’avvocato e, con l’approvazione della marchesa, denunciò il marito per sfruttamento della prostituzione. Fu la prima delle denuncie di Lorenza contro il Balsamo. Ma alla denuncia seguì la controdenuncia di Cagliostro che, accusata la moglie di abbandono del letto coniugale, la costrinse a quattro mesi di reclusione nelle carceri di Sainte-Pelagie. In quell’occasione a vincere fu Cagliostro: per sfuggire alla gattabuia Lorenza ritirò la denuncia e tornò col marito. Li attendevano altri viaggi e l’ascesa verso mete importanti.
Londra fu per Balsamo la città della sua iniziazione massonica. Era l’aprile del 1776 e da allora, come si è detto, diventò Alessandro Cagliostro con tanto di titolo nobiliare di conte. Anche la moglie fu iniziata alla massoneria, malgrado all’epoca fosse assai discussa l’“adozione” per le donne: Lorenza Feliciani divenne la contessa Serafina di Cagliostro.
Chi avrebbe mai potuto prevedere un futuro così radioso per l’adorabile e sensualissima Lorenza, scaltra quanto digiuna di qualsiasi istruzione e di famiglia poverissima? Chi avrebbe mai potuto pronosticare per una popolana seppure bellissima l’accesso ai ranghi nobiliari?
Divenuto conte Alessandro Cagliostro e conquistata notorietà di guaritore, Balsamo intensificò i suoi viaggi con accanto la consorte, o meglio socia in affari sinistri. Tante le tappe di quei tour : l’Olanda, Pietroburgo, Strasburgo, Parigi, dove si alternarono fortune e sfortune, guarigioni ritenute prodigiose e scoperte mistificazioni. Al noto filosofo svizzero Laviter, che si partì da Zurigo per raggiungerlo e conoscerlo a Strasburgo, Cagliostro svelò i segreti delle sue cognizioni e dei suoi talenti di alchimista riassunti nella formula latina: ‹‹In herbis, in verbis, in lapidibus››. Cagliostro guariva attraverso infusi di erbe, ma anche con la forza della suggestione delle parole, con capacità ipnotiche e magnetiche, utilizzando le mani anticipava la pranoterapia.
Nel novembre del 1784, Cagliostro e la contessa Serafina furono a Lione, centro francese in cui particolarmente viva e potente era la massoneria. Non si trovava lì a caso Balsamo Cagliostro, ma per fondarvi il Rito egiziano e proclamarsi “Gran Cofto”. Per Lorenza altri titoli: principessa Serafina e Regina di Saba, Grande Maestra del rito d’adozione, cioè della Loggia riservata alle donne. La Loggia fu chiamata “Saggezza trionfante”, e quel rito si propose la rigenerazione morale, la purificazione dalle colpe, il ritorno all’innocenza e, ciò che più colpiva, il perpetuarsi della giovinezza fisica. È questo il momento in cui Cagliostro raggiunse il grado più alto di affermazione e notorietà. Che, però, di lì a poco, per una serie di avvenimenti avversi, cominciarono a scemare.
Il primo fu il suo coinvolgimento, senza che in verità ne fosse responsabile, nello scandalo della collana che travolse la regina Maria Antonietta e che spianò la strada al crollo della monarchia francese e all’avvento della rivoluzione. A causa di tale intrigo, di cui fu ispiratrice la diabolica Jenne de La Motte e che vide protagonista il potente cardinale de Rohan, Cagliostro subì un processo che lo vide assolto e che tuttavia, per volontà regale, lo costrinse a lasciare la Francia. All’espulsione rispose con una predizione temeraria: ‹‹Tornerò in Francia purché la Bastiglia sia diventata una passeggiata pubblica››. Guarda caso, un’autentica profezia.
Fatale fu a Cagliostro il suo ritorno a Roma nella primavera del 1789. Questa volta lo scaltro alchimista peccò di ingenuità. Voleva incontrare Pio VI convinto che la Chiesa accettasse il rito egiziano del Gran Cofto. E invece venne arrestato e processato dallo Stato pontificio con l’accusa di eresia e di propagatore di riti massonici. La prima a girargli le spalle, nel momento di avversità, fu la moglie Lorenza, che con lui aveva diviso gioie e dolori, lungo una vita comune movimentata e avventurosa fatta di alti e bassi. Lorenza, anzi la contessa Serafina di Cagliostro, non esitò a denunciarlo come le aveva suggerito il suo confessore per il bene della sua anima. Alla sua denuncia si accompagnarono quelle dei famigliari, il padre e il cognato. Ma Lorenza teneva davvero così tanto alla salvezza della sua anima, oppure, come più si addiceva alla sua indole, tentava di impadronirsi del patrimonio del marito caduto in disgrazia? Ammesso, com’è probabile, che questo fosse il suo piano, non le riuscì. Anche lei, infatti, venne travolta in giudizio: la fortuna le girò le spalle, per chissà quale sortilegio fu costretta a seguire il marito, come stabilito nei legami coniugali, nella buona e nella cattiva sorte. Per la delatrice si aprirono, come per il marito, le porte del carcere. Cagliostro venne rinchiuso in Castel Sant’Angelo, Lorenza nel convento di Sant’Apollonia a Trastevere.
Il processo durò un anno e mezzo, Cagliostro dovette subire ben 43 interrogazioni, e alla fine fu condannato reo di essere eretico, mago e libero muratore. Singolare il fatto che Pio VI, che pure realizzò il prosciugamento delle Paludi Pontine, sia ricordato non tanto per quell’opera pubblica ma per avere processato Cagliostro. La sentenza emessa dallo Stato pontificio fu all’origine la più crudele: la morte al rogo. Ma Pio VI la commutò nel carcere a vita nella fortezza di San Leo, per l’epoca luogo di detenzione di massima sicurezza. Conobbero il rogo tuttavia, in piazza della Minerva, i libri, gli incartamenti, gli emblemi massonici appartenenti a Cagliostro.
Dopo più di quattro anni di dura prigionia Cagliostro si spense: era il 26 agosto del 1795 e aveva 52 anni. Fu seppellito, da eretico, senza cassa e in un luogo sconsacrato. Nell’atto di morte, redatto da un prelato del castello di San Leo, fu espressa pietà cristiana e commiserazione umana nei suoi confronti: ‹‹Nacque infelice, più infelice visse, morì infelicissimo››.
Come sulla sua vita, anche sulla sua morte aleggia il mistero. C’è chi ha sostenuto che Cagliostro sia riuscito a evadere da San Leo strozzando il prete che era venuto a confessarlo e vestendo i suoi abiti. Altra diceria: quando nel 1797 i francesi espugnarono la fortezza di San Leo avrebbero dissotterrato il cadavere e brindato alla libertà con il suo teschio. Secondo una diversa versione, sempre in occasione dell’espugnazione della Rocca, furono invece i polacchi, alleati dei francesi, a impadronirsi del suo cadavere e a dargli una più consona sepoltura. Nella seconda metà dell’Ottocento l’occultista ucraina Elena Petrovna Blavatskij affermò che Cagliostro lasciò il carcere di San Leo grazie a un elisir nascosto nel suo corpo; secondo la veggente l’alchimista, abbandonato il luogo di reclusione, avrebbe continuato a viaggiare per il mondo e il suo fantasma sarebbe apparso in visione anche a lei stessa. Naturalmente non si contano le sedute di spirito che, ancor oggi, invocano la sua anima, un’anima inquieta che attraversò il secolo dei “parrucconi” attratto dalla stregoneria e dall’alchimia mentre maturavano i germi dell’epoca dei Lumi.
E Lorenza? Lorenza Feliciani venne assolta perché la sua testimonianza fu ritenuta determinante per la condanna di Cagliostro. Tuttavia rimase per quindici anni nel convento di Sant’Apollonia. Poi, dal 1806, fece la portinaia del Collegio Germanico di piazza Sant’Apollinare. Fu stroncata da infarto l’11 maggio 1810. Il destino beffardo li ha accomunati anche nella morte. Come il marito, la sua anima travagliata vaga nell’oscurità senza che alcuno conosca la tomba.
Dialoghi Mediterranei, n.8, luglio 2014
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, ha pubblicato, per le edizioni della Regione Siciliana, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (Palermo, 2007) e Mobbing: saperne di più per contrastarlo (Palermo, 2007), con Antonio La Spina Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009), I soliloqui del passista (Zona, 2009), Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013), Il bacio delle formiche (Lietocolle, 2014). Collabora con i quotidiani La Sicilia e saltuariamente con La Repubblica, edizione di Palermo.
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