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Caleidoscopio periferie

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il centro in periferia

di Elena Bachiddu [*]

Al di là del mare, nell’isola. A sud est di Roma Capitale. A nord di Oslo. Nel nord est degli USA. Queste le posizioni periferiche attraversate nelle loro biografie dai quattro studiosi qui convocati in videointervista a riflettere sulla nozione di periferia. Arjun Appadurai, Thomas Hylland Eriksen, Pietro Clemente, Barbara Pizzo. Tre antropologi e un’urbanista con posizionamenti disciplinari e percorsi teorici diversi, ma nel nostro caso concettualmente complementari. Campi di ricerca geograficamente distanti e prospettive politiche convergenti su una nozione osservata a diverse scale.

Cresciuto nella parte socialmente più agiata di una città cosmopolita come Mumbai, Arjun Appadurai racconta come esperienza periferica non già la sua appartenenza di origine, ma la sua collocazione negli USA in un’istituzione universitaria periferica – rispetto all’ Ivy League anglosassone statunitense, nella quale negli anni ’67-’68 il punto di vista sull’essere periferici coincide con la riflessione sulla razza, sul potere, sulla guerra.

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Tomas Hilland Eriksen

Tomas Hilland Eriksen «Sono cresciuto in una piccola città fuori Oslo, periferica rispetto al centro di Oslo. Per un lungo tempo abbiamo sentito che la Norvegia fosse periferica, in antropologia la Scandinavia è in qualche modo periferica, perché ci confrontiamo con grandi centri come la Gran Bretagna, la Francia, gli Stati Uniti. […] Sentivamo questa asimmetria di potere. Ma poi […] dall’inizio degli anni ’90 con la globalizzazione, sono cambiati i mezzi di comunicazione, ci siamo sentiti più connessi con il mondo, […] a Oslo fare la spesa in un negozio asiatico, comprare India Today, comprare il curry […] sentirti integrato nel mondo in un modo prima impossibile. La globalizzazione ci ha avvicinato gli uni agli altri».

Pietro Clemente «Per me l’esperienza della perifericità è stato essere nato in un’isola, la Sardegna. Dunque con il tratto della distanza dai possibili centri. […] Poi da piccolo durante la guerra, lo sfollamento in un piccolo paese dell’interno, a 100 km da Cagliari, nel flusso collettivo dalle città alle campagne – che è stato una prima esperienza di massa della perifericità, […] con 8 ore di treno, un lungo viaggio con l’uovo sodo e il pane, e poi con il carro a buoi per 4 chilometri […]. Era questo un mondo di distanze che poi quando sono cresciuto è diventato che stando in un’isola dovevo attraversare il mare. Poi la mia seconda periferia è stata l’Università di Siena, […] dove vivo da 40 anni, è una città storica ma è una delle città più marginali della Toscana, rispetto a Firenze o Arezzo. […] E poi le periferie sono state le esperienze di lavoro di ricerca che hanno sempre riguardato i piccoli paesi».

Barbara Pizzo

Barbara Pizzo

Barbara Pizzo «[…] Ho sempre vissuto nella periferia romana, ma ho sofferto parzialmente una condizione di marginalizzazione. Abito in periferia ma la mia vita sociale e lavorativa è connessa con un centro, a esempio con l’università. E questo mi permette di avere un punto di vista privilegiato, di sperimentare le mille contraddizioni della città di Roma, che emergono in me e attraverso di me».

Il rimbalzo tra le biografie personali e quelle intellettuali nei discorsi di questi quattro studiosi potrebbe essere ricompreso in una cornice comune nella quale periferia è, come concetto relazionale per definizione, visioni situate nelle quali si producono ribaltamenti multipli e rispecchiamenti tra i molteplici centri e le relative periferie.

Perché poi, per estensione dal suo stretto senso etimologico (peripherīa, circonferenza) le periferie, appunto, non sono riducibili agli spazi geografici ‘attorno’ ai centri, non ne costituiscono necessariamente e solo il bordo che li racchiude, ma sempre più assumono la connotazione di luoghi distanti, anche molto distanti e separati dagli innumerevoli centri con i quali si determinano relazioni di potere e conflitti. Luoghi dotati di una propria anima, tali per cui il moto di pensiero, le rappresentazioni e il movimento spaziale verso il quale ci sentiamo sospinti è riassumibile nell’immagine il centro in periferia. Siano essi le jungles, le montagne o i mari attraversati dai migranti ai confini degli Stati occidentali, le spopolate aree interne italiane, i quartieri popolari romani più grandi del centro storico, le comunità linguistico- religiose straniere in minoranza, l’antropocene stesso. Con il loro correlato di contese identitarie, economiche e culturali, di riappropriazioni spaziali, ritorni e valorizzazioni.

Arjun Appadurai

Arjun Appadurai

Arjun Appadurai «Per me periferia oggi è il centro di molte delle nostre crisi, per cui è periferia ma in un certo senso è il nostro centro». Per Appadurai periferia è innanzi tutto marginalità sociale. Il suo sguardo si focalizza sui confini della fortezza Europa e su quelli interni ad essa, a cavallo dei quali con i flussi migratori si giocano sfide e contrapposizioni che coinvolgono i destini di tutti «[…] nel senso che i confini definiscono sovranità, identità, sorveglianza» assumendo dunque ‘centralità’ e condizionando le politiche che si producono nei centri del potere politico ed economico.

Nell’era del capitalismo finanziario, la moltiplicazione dei centri e la loro frammentazione spaziale e dematerializzata rende oggi più labile una loro identificazione geografica stabile e certa. Con analogo riflesso sul costituirsi delle periferie; tanto da far apparire inadeguate le teorie economiciste di Wallerstein relative al sistema-mondo e alla fase del capitalismo moderno dei mezzi di produzione che ha prodotto la macro-divisione tra nord e sud del mondo. Per Appadurai il nostro tempo vede una moltiplicazione delle crisi che, a prescindere dalla loro specifica collocazione spaziale, assumono centralità per l’intero pianeta.

Uno sguardo che si espande fino alla dimensione planetaria dunque, per cui l’antropocene stesso, oltre l’era della globalizzazione, può essere pensato come periferico all’interno di altri grandi processi di cambiamento cosmologico e delle condizioni di difficoltà della specie.

«Forse l’umanità stessa e il nostro pianeta stanno diventando periferici rispetto ad altri grandi processi di distruzione o di cambiamento cosmologico […] forse noi stessi stiamo diventando una sorta di piccola realtà periferica, in un ampio mondo fatto di più agentività».

Tra le difficoltà per noi inedite, la pandemia da covid19. Con gli esiti contraddittori che iniziamo a vedere. A un tempo livellamento e dislivelli di potere. Per cui da un lato le restrizioni sanitarie riattivano nuove morfologie di classe: «Si stanno delineando delle distinzioni soprattutto nelle grandi città come Roma e New York, dove non tutti hanno le stesse opportunità nel fronteggiare il virus, nel prendere la malattia, curarsi […]. Quindi il privilegio di classe e il potere fanno una grande differenza su come viene esperita questa crisi».  Dall’altro la dimensione globale della pandemia minaccia l’umanità tutta, nessuno escluso.

Inoltre, con il “boomzoom”, per chi ha accesso al digitale, vediamo un altro grande processo di livellamento e di democratizzazione dell’accesso, ovvero di esclusione. Una sorta di democratizzazione world wide, su scala mondiale. E questo crea la possibilità per le periferie di essere ospitate.

Per Eriksen questo processo di centralizzazione delle periferie geografiche produce d’altro canto un’ulteriore accelerazione digitale e un aumento della comunicazione deterritorializzata. Nelle nuove dinamiche tra il mondo fisico e quello digitale, la ritrovata lentezza e la distanza fisica convivono con una crescente iperaccelerazione digitale.

Queste trasformazioni sociali per entrambi i nostri antropologi si combinano in qualche modo con altre trasformazioni, per cui nasce una riflessione su come «la natura della dimensione sociale si stia in qualche modo trasformando [...] perché la natura del sociale, con la digitalizzazione e l’isolamento e il distanziamento sociale – che sono la nostra attuale realtà di base – dunque la fisica e la chimica dell’essere umano, sono cambiate. Questa è la grande domanda, e forse occorre riscrivere le leggi basilari della vita sociale» (Appadurai).

Fenomeni che ridisegnano processi sociali e che richiedono di affinare gli strumenti di analisi.

riqualificazione-periferie-campi-da-calcio-oggetto-editoriale-800x600-1525809741Per Eriksen la questione della democratizzazione dei media implica da parte dei soggetti sociali spinte identitarie che arrivano al centro delle politiche nazionali e che nascono da impulsi imprescindibili, «[…] il diritto di definire chi sei alle tue condizioni e non di essere definito dall’esterno, di non essere invisibile, il diritto di essere visto e ascoltato, sempre privilegio del centro». Il diritto di avere voce da parte delle minoranze di ogni genere ha guadagnato centralità nella rappresentazione culturale.

Al contempo, nelle relazioni centro-periferia, le minoranze linguistico-religiose vivono la condizione necessaria di doversi misurare e di dover apprendere i discorsi egemonici. A partire dalle lingue. E questa necessità di apprendimento si può configurare come una sorta di potere delle periferie. È così nel campo degli studi in ambito scandinavo, ma anche «nei sobborghi e nelle periferie di Oslo, vere periferie della Norvegia popolate da immigrati […] somali, pakistani, vietnamiti ecc.  Oggi molti vengono dall’Europa dell’est come operai edili, persone in parte integrate nella società norvegese. Dico loro che sì, c’è razzismo strutturale e discriminazione ma anche che loro hanno una risorsa che la maggioranza non ha, quella di conoscere due mondi e di avere l’abilità di passare da un mondo all’altro».

Per tradizione gli antropologi lavorano su mondi marginali, e oggi nei luoghi ‘lontani’ vedono come vive più forte la consapevolezza della condizione di marginalità. Perché da un lato per chi vive in aree periferiche l’accesso a Netflix, Facebook e il turismo rendono evidente la distanza, l’isolamento, la differenza. Ma dall’altro, attraverso la comunicazione si ha accesso ai centri di potere lontani da cui apprendere. In questi mondi locali e marginali, inoltre, per Eriksen, ampliando l’analisi oltre il principio unico del potere economico, si giocano ulteriori e significative relazioni tra centralità/marginalità culturali. L’esempio della cultura Creola dominante a Mauritius, o della capacità di influenza di un leader musulmano nei sobborghi di Oslo costituiscono forme di centralità di minoranze culturali e religiose in contesti locali.

Ma poi, salendo di scala, al livello geopolitico, Eriksen si chiede se l’avanzare della potenza economica della Cina coinciderà con una sua nuova centralità culturale capace di prevalere sulla cultura occidentale nord-atlantica. Lo spostamento verso le economie asiatiche ridefinirà le relazioni centro-periferia disarticolando la teoria del sistema mondo di Wallerstein – fondata sull’analisi delle diseguaglianze economiche e sull’eredità postcoloniale del dominio culturale europeo sul mondo?

Pietro Clemente

Pietro Clemente

Il dibattito sull’antropocene, sulle emergenze ambientali e la crisi del pianeta si connette poi nella riflessione di Pietro Clemente a quei mondi lontani a noi più vicini. Periferia è per l’antropologo italiano la questione del recupero delle aree interne italiane, del tracollo demografico dei piccoli paesi isolati, dello spopolamento dei territori rurali, con la conseguente perdita dei patrimoni culturali locali.  E ancora torna su un’altra scala l’inversione dello sguardo che riconosce centralità ai luoghi finiti ai margini dei grandi processi produttivi e dello sviluppo industriale. La periferia è qui il correlato dei processi di globalizzazione, nei quali «lo sviluppo crea la periferia».

I piccoli paesi, ampie aree rurali e montane della dorsale appenninica e delle alpi detengono ancora oggi la ricchezza delle molteplici varietà locali di tradizioni e saperi pratici del lavoro legati all’ «esperienza di civiltà che l’uomo ha prodotto nel rapporto uomo-natura».  Oggi questi territori, nelle molteplici esperienze di ritorno e recupero, rappresentano preziose risorse per pensare e realizzare processi di riconversione ecologica e delle grandi filiere alimentari con la rivalorizzazione dell’agricoltura non estensiva.

Si tratta di progetti costruiti in dialogo con gli urbanisti, gli architetti, gli economisti e gli studiosi del territorio, ispirati appunto all’idea di reinvestire nelle periferie ridando loro centralità. Attraverso percorsi di recupero della storia produttiva e lavorativa dei territori, guardando alla memoria lunga di cui sono portatori e alla concreta possibilità di ‘riabitarli’. Progetti ai quali si è orientata la ricerca di Clemente che dagli anni ’90 ha più nello specifico dedicato la sua riflessione all’Italia dei paesi, all’Italia come un paese fatto di paesi nel quale il gioco delle molteplici identità locali non è mai sostituito da un senso dell’identità che abbia una marcata forza dello Stato.

Dialoghi e progetti congeniali a pratiche antropologiche di impegno oltreché nel recupero del patrimonio anche in esperienze di comunità e di costruzione di contropoteri culturali nella direzione di un’inversione dei processi produttivi che concentrano gli investimenti principalmente nelle grandi imprese e nei grandi poli economici.

Lo sfondo ideale è quello di una specie di utopia concreta che metta al centro la nozione di “coscienza di luogo”: una sorta di aggiornamento della coscienza di classe nell’indicare la possibilità di uno «straordinario cambiamento epocale dei rapporti sociali e produttivi, che sceglie la centralità dei luoghi, la conoscenza minuta, quei tratti che sembravano appartenere alle società passate e che oggi appaiono come una ricchezza e risorse nuove per le nuove generazioni».

Controcampo ideale e spaziale delle aree interne italiane è la prospettiva che apre Barbara Pizzo su Roma capitale e sulle periferie urbane.

«Le periferie non esistono, perché non esistono in natura ma sono il risultato di costruzioni sociali e politiche. Le periferie urbane sono la materializzazione di molteplici forme di marginalizzazione».  

scampia-1026x684Se infatti i flussi di popolazione determinati dallo sviluppo industriale hanno coinciso lungo il ‘900 con l’abbandono dei piccoli paesi, con i processi di urbanizzazione e con il conseguente fenomeno dello spopolamento delle aree interne, negli ultimi decenni con la globalizzazione i processi di gentrificazione hanno a loro volta svuotato i centri storici delle grandi città dalla maggior parte dei loro abitanti, sospinti progressivamente ai margini e all’esterno verso le aree metropolitane.

Ne è un esempio eloquente lo sviluppo urbano di una città come Roma. Che, come ci racconta Pizzo, è avvenuto radialmente lungo le antiche vie consolari della capitale, a partire da un unico centro geografico, che in essa coincide anche con quello storico, simbolico e politico. Caso in cui il divario centro-periferia, che nel corso degli ultimi decenni si è sempre più accentuato, ha coinciso con uno scollamento sociale sempre più difficile da recuperare tra lo spazio del centro storico, abitato dal potere politico ed economico dei decisori, e le diverse aree periferiche a intensa densità demografica cresciute a cavallo del GRA, dove il disagio sociale raggiunge i suoi più alti indicatori.

Le periferie anulari sono divenute così mondi separati, sacrified zone, «terre sconosciute e sorprendenti, oggetto di meraviglia coloniale». A indicare, potremmo dire, la loro radicale alterità socio-culturale.

Sono questi gli esiti di lungo periodo e gli effetti deteriori, ci ricorda Pizzo, delle mancate e fallimentari politiche sullo sviluppo urbano di Roma. Con le quali si è passati dal piccolo e medio abusivismo delle periferie storiche, all’egemonia della grande rendita edilizia che ha costruito le più recenti grandi periferie dell’edilizia popolare, drammaticamente carenti di servizi, collegamenti, manutenzione e infrastrutture.

Viene naturale aggiungere, e per chi lavora su questi territori è da lungo tempo evidente, che è lì che si misurano l’epi-centro dei fallimenti delle politiche locali e più in generale i riflessi della crisi della democrazia.

Di nuovo, è nelle crisi ben visibili delle molte periferie distanti dai centri del potere che si manifestano i segni più evidenti della crisi delle nostre società ‘avanzate’. Fino all’attuale emergenza pandemica, nella quale le già note diseguaglianze socioeconomiche si sono ulteriormente disvelate e acuite (rapporto Oxfam 2022). Nelle grandi città l’emergenza sanitaria si è tradotta nell’impatto diversificato del contagio e nella sua maggiore incidenza nelle periferie urbane più povere, dove minore è la possibilità per le fasce sociali più deboli di farvi fronte nel quotidiano. Innanzi tutto in relazione alla scarsità dello spazio abitativo a disposizione delle famiglie. Questo dicono a esempio i dati relativi ai diversi municipi romani. Più che altrove – come nei piccoli paesi più prossimi a territori scarsamente antropizzati – nelle grandi città e negli agglomerati suburbani rivive quella certa morfologia di classe nel fronteggiare il virus di cui ci parla Appadurai.

Anche il privilegio della ‘riscoperta lentezza’ (Eriksen), il rallentamento collettivo legato ai lock down, da più parti enfatizzato, abbiamo in effetti visto come non abbia riguardato i lavoratori delle fabbriche, dei servizi essenziali e i nuclei familiari numerosi che a Roma vivono in 45 mq nelle torri dell’edilizia popolare a Tor Bella Monaca, con i figli che fanno i turni sui cellulari per la didattica a distanza.

Durante l’emergenza sanitaria il sovraffollamento urbano ha per l’appunto generato la necessità di spazi di socialità all’aperto e verdi fruibili dai cittadini. E il conseguente fenomeno di nuove forme di sfollamento, con una nuova domanda – o il recupero – di seconde case verso le aree rurali, montane o marine. E quindi anche un movimento a riabitare le zone interne, e un ritrovato rapporto con la natura (Clemente).

Tendenze spontanee anche di reti associative ma che hanno bisogno di politiche di intervento pubblico e di investimenti strutturali finalizzati ai luoghi, tanto nelle città quanto nei territori. Per i quali, restando in Italia, il PNRR, se articolato anche in senso spaziale e secondo i temi che l’Europa propone come centrali nel Recovery Fund, rappresenta un’occasione importante (Clemente, Pizzo).

Occasione per la quale coniugando i temi della riconversione ecologica, dell’equità sociale e della necessità di sviluppare infrastrutture e reti digitali che garantiscano l’equità dell’accesso nelle aree italiane più povere e marginali, è necessario un disegno e una visione che riconnetta le azioni ai diversi luoghi.

Forse così, con l’occasione di un significativo impulso in controtendenza, le ‘nostre’ diverse periferie avrebbero l’opportunità di riacquistare una nuova centralità strategica.

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 
[*] Nei giorni 21-22-23 maggio del 2021, per la prima volta si è svolto il Festival delle periferie di Roma, promosso dal RIF – Museo delle Periferie (Azienda Speciale Palaexpo nell’ambito di Roma Culture), curato e diretto da Giorgio De Finis.
Sono stati tre giorni animati da un ricchissimo programma di eventi (incontri, performance artistiche, videoarte, concerti, film, documentari, lezioni e tavole rotonde) dal vivo e/o accessibili su una piattaforma multicanale interattiva. Un’occasione rara di immersione nei temi delle mille periferie urbane e non, che ha dato spazio ad artisti, musicisti, urbanisti, architetti, antropologi, filosofi e registi, ognuno con il suo punto di vista sull’argomento.
Dalla sede nomade di Tor Bella Monaca, il Festival ha lanciato un messaggio al di qua e al di là del GRA (Grande Raccordo Anulare di Roma):
«Il Festival è un modo per far vedere che la periferia non è morta, non è un dormitorio, non è triste, grigia e pericolosa. È come se decidessimo di mandare un segnale luminoso nello spazio accendendo nello stesso istante tutte le realtà che quotidianamente operano nei territori attraversati dal GRA: l’effetto sarà di un grande anello luminoso intorno alla città» (Giorgio de Finis).
 “Caleidoscopio periferie” è una breve introduzione critica alla visione del video che abbiamo prodotto per l’occasione, realizzando quattro interviste con Arjun Appadurai, Thomas Hylland Eriksen, Pietro Clemente, Barbara Pizzo: Periferie. Biografie, teorie e politiche dei mutamenti globali al tempo della pandemia (Progetto: Piero Vereni, interviste realizzate da: Piero Vereni e Elena Bachiddu, Realizzazione video a cura di Elena Bachiddu e Simone Cerulli, https://iperfestival.it/portfolio/arjun-appadurai-periferie-biografie-teorie-e-politiche-dei-mutamenti-globali/).
Questo testo è un’anticipazione di una versione destinata a una prossima pubblicazione a cura di Giorgio de Finis che raccoglierà diversi testi sul Festival delle periferie.
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Elena Bachiddu, Antropologa di formazione (Università “Sapienza” di Roma), lavora presso l’Università di Roma “Tor Vergata” (Dipartimento di Studi Filosofici, Letterari e di Storia dell’Arte) e collabora con l’insegnamento di Antropologia Culturale. Promuove progetti sul territorio nell’ambito della Terza Missione dell’Ateneo, in particolare nell’area di Tor Bella Monaca e all’interno dell’Associazione “LaPE- Laboratorio di Pratiche Etnografiche”. I suoi interessi di ricerca riguardano le storie di vita orali e le scritture autobiografiche; ha svolto ricerche in Sardegna e presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, collaborato con l’Università di Firenze e la “Sapienza” di Roma. Ha pubblicato diversi saggi su riviste e in volumi collettanei. Fa parte della redazione della rivista “Lares”,– quadrimestrale di studi demoetnoantropologici – per la quale ha curato la rubrica dedicata alle fonti orali.
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