di Marxiano Melotti
Il David a Glasgow: italianità, stereotipi e tourist gaze
Il David di Michelangelo, una delle più famose statue della storia dell’arte, simbolo del Rinascimento italiano, è finita, ancora una volta, al centro di un divertente, ma assurdo dibattito.
Un ristorante italiano di Glasgow aveva pensato di usare l’immagine della celebre statua in una campagna pubblicitaria nella metropolitana della città. Di fatto nulla di nuovo: un classico esempio di tematizzazione commerciale, ossia dell’uso di un “tema”, in questo caso collegato al patrimonio culturale italiano, per rendere più interessante e attrattivo un luogo, una merce o un’esperienza. Questa statua, nello specifico, per la sua notorietà può essere considerata una vera e propria icona, capace di generare e suggerire tutta una serie di immagini, legate all’arte, alla storia, alla bellezza e, più in generale, all’Italia. La tematizzazione, soprattutto quando avviene in un ambito di tipo commerciale o pubblicitario e ha un taglio di tipo storico, artistico e culturale, permette di culturalizzare un’esperienza di consumo. Si tratta naturalmente di marketing, di tipo peraltro non particolarmente sofisticato, cui siamo ormai abituati e assuefatti [1].
Il fatto che una statua possa diventare uno strumento di comunicazione commerciale per promuovere un ristorante non deve quindi stupire né, tanto meno, scandalizzare. È un’operazione, peraltro già presente anche in sistemi culturali precedenti, che, con buona pace dei puristi, manifesta la persistente importanza del patrimonio culturale, che, altrimenti, non sarebbe utilizzato nelle tematizzazioni.
Nel caso del ristorante di Glasgow è però accaduto qualcosa che ci permette di riflettere, da un lato, sull’uso e sul significato del patrimonio culturale nella nostra società e, dall’altro, sui processi culturali in atto. La tematizzazione si è infatti scontrata con un altro fenomeno: la cancellazione. L’ente locale incaricato di vagliare le pubblicità prima della loro esposizione ha negato la sua autorizzazione a causa della nudità della statua [2].
La vicenda seguiva, di pochi mesi, un altro discusso episodio, avvenuto in una scuola della Florida, dove un’insegnante che aveva mostrato ai propri alunni l’immagine del David era stata costretta a dimettersi [3]. Sono due casi diversi ma ugualmente significativi di cancelculture applicata al patrimonio culturale, che hanno al centro la medesima statua e sollecitano alcune riflessioni sul rapporto tra patrimonio culturale, immaginario collettivo e società contemporanea.
Partiamo dal caso di Glasgow. Nella pubblicità del ristorante, il David, nella sua statuaria nudità, teneva in mano una fetta di pizza, sopra la scritta It doesn’t get more Italian (Non c’è niente di più italiano). Si tratta chiaramente di uno stereotipo culturale che associa due icone italiane, il capolavoro di Michelangelo e la pizza: due aspetti molti diversi, e per certi aspetti opposti, della cultura italiana (passato e presente, arte e cibo, alto e basso, patrimonio materiale e patrimonio immateriale), che la cultura “liquida”, propria della fase più matura della postmodernità, tende a connettere e a ibridare [4].
D’altra parte, la pizza, da espressione della cultura e della cucina popolare napoletana e, per estensione, italiana, è diventata un elemento del nuovo patrimonio culturale italiano, espressione dei processi istituzionali di patrimonializzazione della cultura. Il Ministero dei Beni culturali aveva infatti proposto qualche anno fa il suo inserimento nella lista Unesco del patrimonio immateriale dell’umanità, di cui è entrata a far parte nel 2017 [5].
Il ristorante di Glasgow aveva tentato di effettuare una semplice operazione di tematizzazione e culturalizzazione dei consumi, sfruttando la liquidità della cultura contemporanea [6]. Il patrimonio culturale è utilizzato per tematizzare in chiave italiana l’esperienza di consumo e, al tempo stesso, per attribuire un valore culturale a quell’esperienza. Il claim della campagna conferma questa operazione di riduzione e di banalizzazione della cultura italiana. L’italianità è riassunta in due simboli e viene trasformata in una merce da consumare. C’è ovviamente anche un implicito richiamo alla dimensione sessuale: la nudità della statua diventa essa stessa un elemento dell’italianità, secondo quegli stereotipi di carattere turistico che associano all’idea della vacanza in Italia quella del sesso o, per lo meno, dell’avventura romantica. Questa associazione tra sessualità e italianità è talmente radicata che, quando la pubblicità è stata rigettata per la nudità della statua, il ristorante ha proposto di coprire graficamente gli attributi maschili della statua con una piccola bandiera italiana.
La campagna pubblicitaria del ristorante di Glasgow nasce non solo dalla fantasia creativa di un esperto di marketing, ma da una plurisecolare tradizione di rappresentazione turistica dell’Italia, che ha trovato una codificazione proprio nel Regno Unito. Il Grand Tour britannico ha infatti avuto un ruolo chiave nella costruzione, nel tempo, di un’immagine dell’Italia come di una realtà lontana e affascinante, capace non solo di irretire lo sguardo dei suoi visitatori con la bellezza dei suoi monumenti, ma anche di incidere sulla loro rispettabilità sociale con i suoi costumi e i suoi comportamenti irrazionali e primitivi. È lo stereotipo, applicato anche ad altri Paesi mediterranei, di Paesi del sole, dell’amore e della passione. Il romanzo Camera con vista di Edward M. Foster (1908), così come l’omonimo film trattone nel 1985, presenta con chiarezza questa immagine mitica dell’Italia.
L’idea dell’Italia come Paese dell’amore, ma anche come Paese dell’arte e della pizza, rientra nel cosiddetto tourist gaze: lo sguardo turistico, cioè il sistema d’immagini costruito, a livelli diversi, dai visitatori, dalla comunità locale e dagli stakeholders turistici [7]. La realtà culturale di un territorio, dal suo patrimonio materiale a quello immateriale, viene riassunta e sintetizzata in una serie di stereotipi, inventati, ereditati, tramandati o implementati in un processo di co-creazione, che non di rado conduce a forme di auto-cristallizzazione dei luoghi e delle comunità [8].
“Open to Meraviglia”: la Venere di Botticelli tra influencers e stereotipi
D’altra parte, proprio l’esistenza di un tourist gaze consolidato permette a istituzioni e a privati di utilizzare il David o la pizza per richiamare l’Italia e l’italianità. Lo stesso meccanismo è utilizzato da professionisti della comunicazione, come gli influencers e i bloggers, che spesso ricorrono a icone e a stereotipi turistici consolidati per veicolare determinati messaggi o utilizzano il patrimonio culturale per tematizzare e culturalizzare i propri messaggi o, in forma ancora più sofisticata, per culturalizzare la propria immagine.
Vale la pena di ricordare il caso dell’influencer Chiara Ferragni, che con i suoi oltre 30 milioni di followers, aveva raggiunto (prima dei suoi recenti errori di percorso) una grande popolarità anche fuori dei confini nazionali. Nel 2020, al termine della prima ondata pandemica, la Ferragni aveva visitato la Galleria degli Uffizi per promuovere la ripresa del turismo in Italia, in una fase particolarmente difficile, e per realizzare, in una logica molto “liquida” che univa il marketing all’impegno sociale, una campagna pubblicitaria per «Vogue Hong Kong» [9]. La Ferragni si era fatta fotografare all’interno del museo, davanti ad alcuni capolavori, tra cui la Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli. La somiglianza dell’influencer con la Venere di Botticelli (di cui probabilmente si era resa conto lei stessa, che aveva scelto di utilizzare proprio gli Uffizi per quel servizio) aveva spinto il direttore del museo, felice della pubblicità arrecatagli dalla sua presenza, ad associare in un post la Venere e la celebre visitatrice, presentata come una Venere moderna [10].
Ciò ha suscitato un vivace dibattito, che, lungi dall’aprire una seria discussione sul rapporto tra musei e marketing, si è esaurito in uno sterile scontro tra conservatori e innovatori [11].
In realtà l’operazione della Ferragni era piuttosto sofisticata: in alcuni scatti compare infatti davanti alla Venere con gli stessi vestiti (calzoncini blue jeans e top bianco) con cui la dea compare su un celebre murale di Venice (ora una zona di Los Angeles), dipinto nel 1989 e intitolato Venice reconstitued e restaurato nel 2010 e reintitolato Venice kinesis, che ricrea la Venere di Botticelli in un gioioso pastiche di icone turistiche italiane, fra cui una gondola veneziana. Del resto, Venice era stata costruita nel 1905 come un sobborgo del turismo e del divertimento tematizzato sulla città di Venezia: un interessante spazio postmoderno, realizzato ben prima della postmodernità. L’influencer italiana ha quindi colto e sfruttato tanto l’iconicità del quadro rinascimentale quanto il richiamo del recente murale di Venice, istituendo un sottile ponte tra epoche e culture che innesta il Rinascimento italiano nell’attuale cultura globale. Del resto, come intelligentemente dice il claim di quel murale, history is a myth (la storia è un mito).
È probabilmente sulla base dell’operazione di Chiara Ferragni che nel 2023 il Ministero del Turismo italiano ha lanciato la sua campagna di promozione turistica del Paese intitolata “Open to Meraviglia”: una campagna in cui la Venere di Botticelli compare vestita come una ragazza di oggi, che si fa fotografare davanti a paesaggi emblematici [12]. Come si legge nel sito web del ministero, «questa nuova Venere, riconoscibile da tutti per il suo sguardo e i suoi inconfondibili capelli, viaggerà, in veste di virtual influencer, lungo tutto lo Stivale, presentando al mondo la ‘meraviglia’ dell’italianità, raccontandone i paesaggi, le mete iconiche delle città d’arte così come i piccoli borghi, le tipicità enogastronomiche e le tante declinazioni dell’offerta turistica ricca e variopinta che rendono così unico il patrimonio dell’Italia” [13].
Il concetto di “italianità”, difficile da definire fuori degli stereotipi culturali e turistici, viene così ridotto a un insieme di luoghi e di situazioni. Il patrimonio culturale italiano, secondo quel ministero, è talmente “unico” da raccontarlo con gli stereotipi del tourist gaze. Ed è proprio per il comune riferimento a sedimentati stereotipi culturali che la Venere del Ministero, il David della pubblicità del ristorante di Glasgow e la Ferragni stessa nei suoi post compaiono con una fetta di pizza in mano.
L’idea di trasformare la Venere di Botticelli in un’influencer è in teoria interessante, dato che mostra un’attenzione per la contemporaneità da parte di istituzioni troppo spesso disancorate dalla realtà. È evidentemente un modo per cercare di entrare in sintonia con le generazioni più giovani e la cultura dei social media e, più in particolare, con quella degli influencers. In qualche modo il ministero riconosce che questi ultimi svolgono ormai un ruolo sociale importante e sono in grado di incidere sulla società più che i musei e le istituzioni pubbliche. Il termine influencer è stato evidentemente utilizzato dal ministero con l’intenzione di modernizzare e attualizzare il capolavoro rinascimentale, filtrandolo con i nuovi modelli culturali della contemporaneità e della cosiddetta GenZ, quel mondo indistinto di “giovani” che musei ed esperti di marketing tentano di conquistare inquadrandolo in confuse categorie sociologiche. Tuttavia, la trasformazione della Venere di Botticelli in un’influencer costituisce anche una forma di cancellazione culturale, dato che appiattisce la profondità e la complessità storica sulla dimensione della contemporaneità e del consumismo, in cui gli influencers rientrano.
L’attenzione alla contemporaneità da parte delle istituzioni non costituisce naturalmente un problema ed è anzi encomiabile. Risulta però inquietante che, almeno in Italia, certe istituzioni (come nei casi citati il Ministero del Turismo e la Galleria degli Uffizi) inseguano goffamente la contemporaneità, finendo così per dimostrare di essere “indietro” e non al passo con i tempi e tanto meno in anticipo.
“Open to Meraviglia” di fatto copia l’influencer Ferragni, cercando di applicare a livello istituzionale quel che lei aveva fatto a livello privato e in una logica imprenditoriale e autopromozionale. Non è un caso che, in una delle immagini della campagna, la Venere del Ministero compaia con una pizza in mano, in una posa che riprende proprio un post della Ferragni.
Se si può dubitare dell’efficacia e della novità dell’operazione del ministero che trasforma Venere in influencer sulle orme di Chiara Ferragni, si può essere invece certi dell’efficacia dell’uso del patrimonio culturale effettuato da quest’ultima. La campagna pubblicitaria da lei realizzata all’interno della Galleria degli Uffizi comprende alcuni scatti estremamente significativi: l’influencer si fa fotografare sopra un piedistallo, come una statua, e dentro una cornice, come un dipinto. Queste immagini raccontano in modo chiaro un processo culturale: la trasformazione dell’influencer in opera d’arte della contemporaneità. Poco importa che si tratti di autorappresentazioni, con cui lei stessa sembra suggerire questa interpretazione: in una società dell’immagine, la realtà è quasi sempre staged, cioè rappresentata [14]. La differenza tra realtà e fiction è sempre più labile e, soprattutto, l’autorevolezza viene sempre più a dipendere dalla rappresentazione.
Queste immagini certificano lo status dell’influencer come opera d’arte, da guardare e ammirare come un capolavoro che rappresenta il sistema valoriale di una società basata sui consumi, sulle immagini e sul consumo d’immagini. D’altra parte, certificano anche la sconfitta del museo come spazio di costruzione dell’identità collettiva. Certo, la Ferragni utilizza proprio un museo (e l’autorevolezza di un museo molto speciale come gli Uffizi) per culturalizzare la propria immagine e presentarsi come opera d’arte. Ma con questa operazione finisce per “cancellare” il patrimonio culturale, sostituendosi ad esso. Di fatto la sua operazione costituisce una sofisticata forma di cancel culture.
Naturalmente ciò non significa che le opere d’arte scompaiano. Gli influencers passano e le opere d’arte restano e, per fortuna, approderanno anche senza di noi ad altri sistemi culturali, con nuovi sistemi valoriali.
«It is art but it is still nudity»: cancel culture e sessualizzazione del patrimonio culturale
Il caso della pubblicità con il David di Michelangelo a Glasgow ci porta in un particolare contesto di cancel culture. Siamo evidentemente lontani dalle sue forme più mediatizzate e dibattute, caratterizzate, ad esempio, dalla rimozione fisica di statue o da forme di lotta politica e di negoziazione identitaria, come accade da alcuni anni negli Stati Uniti e nel Regno Unito. La stessa Glasgow è stata recentemente teatro di un acceso dibattito sull’opportunità di rimuovere statue di personaggi riconducibili alla schiavitù, che ha portato alla “cancellazione” di otto statue.[15]
Qui ci troviamo in un contesto diverso, di uso commerciale del patrimonio culturale, in cui la cancel culture assume la forma di una difficoltà d’interagire con la complessità storica del patrimonio culturale. La richiesta di cancellare la pubblicità con il David nudo, e quindi la nudità della statua, non va però letta come una forma di difesa del patrimonio culturale da pratiche di mercificazione. Va invece messa in relazione con la sua dimensione sessuale e, in senso più generale, con un processo di tendenziale sessualizzazione dell’arte.
Come già detto, la dimensione sessuale non è estranea all’uso e alla ricezione del David di Michelangelo e s’inserisce in un preciso tourist gaze dell’Italia. È stata proprio questa dimensione che ha bloccato a Glasgow la campagna pubblicitaria con il David. L’utilizzazione di un’opera d’arte per un fine commerciale non aveva suscitato critiche: nel Regno Unito, del resto, si è adusi a questo impiego dell’arte e, per di più, l’utilizzazione commerciale del David, un’opera straniera, non poteva apparire offensiva per il sistema culturale locale. Il problema è stato la sua nudità, perché il David, come quasi tutte le statue dell’antichità e del Rinascimento, è nudo e mostra ciò che gli inglesi chiamano elegantemente modesty. L’ente preposto ad autorizzare le campagne pubblicitarie ha giudicato inappropriata la sua scelta proprio per questo: «It is art but it is still nudity» (È arte, ma è pur sempre nudità) [16].
Che il David sia nudo è incontestabile, ma che la sua nudità possa essere considerata inappropriata è un fatto culturale, che varia nel tempo e nei luoghi. La cultura cattolica ha coperto per secoli le statue nude e quella protestante, soprattutto in America, ha concorso ad alimentare forme di cancel culture dovute alla nudità delle opere d’arte. La sessualizzazione del patrimonio culturale ha però anche altre radici, rintracciabili in alcune caratteristiche della cultura postmoderna, fra cui la de-intellettualizzazione della società e la correlata semplificazione e spesso banalizzazione dei contenuti.
La complessa dimensione storico-culturale di un’opera d’arte (la cui comprensione richiede una base di conoscenze) viene insomma appiattita sul più semplice (e, secondo gli orientamenti, giocoso o fastidioso) suo livello di nudità. A sua volta si può ricondurre questo fatto a quel processo di perdita di conoscenza (e di coscienza) storica che caratterizza da alcuni decenni la cultura occidentale. La mancanza di profondità storica porta a “contemporaneizzare” ogni discorso e quindi anche a inserirlo nel dibattito politico e nei processi di negoziazione identitaria. La cancel culture (ma non solo essa) si nutre di questo appiattimento storico. La cultura contemporanea è, in realtà, caratterizzata da forme di “memoria breve”, implementate dall’ideologia della velocità, uno degli elementi che stanno alla base della società dei consumi. La specifica “temporalità moderna” comporta una “riduzione della storia” e la dimenticanza culturale che ne consegue accelera il processo [17].
La cultura dei social media, con la produzione e il consumo continuo e veloce di nuovi contenuti, non ha fatto che acuire questa tendenza alla memoria breve. È evidente che questo specifico aspetto esercita un impatto particolarmente traumatico sulla storia e sul patrimonio culturale, costitutivamente legato al passato, e sulle sue forme di fruizione. Ciò comporta anche degli effetti sull’educazione: la banalizzazione dei contenuti e la loro sessualizzazione rendono complicano l’uso del patrimonio culturale come strumento educativo.
In una classica logica “liquida”, espressione di quella società post-moderna da cui stiamo uscendo, una statua (o la sua riproduzione) in una metropolitana avrebbe rappresentato un’interessante culturalizzazione di un non-luogo e un’efficace ibridazione di dimensioni diverse (museo e metropolitana). In questa logica diverse metropolitane del mondo, da Atene a Napoli, sono diventate anche dei musei. Richard Demarco, patron del prestigioso Edinburgh Festival, con riferimento alla vicenda di Glasgow, ha dichiarato che «sarebbe fantastico che nella metropolitana di Glasgow comparisse l’immagine di quel capolavoro» e che «i suoi cittadini avessero la fortuna di esserne educati» [18].
Ma, in un contesto di superamento della post-modernità e di consolidamento della cancel culture, questa ibridazione è diventata un’operazione complicata. Ecco così che il David, da capolavoro del Rinascimento, viene ridotto a un nudo da cancellare.
Si può riprendere, in proposito, anche l’altro caso sopra accennato. Come si è detto, negli Stati Uniti, e più precisamente nella sempre più retriva Florida, nei primi mesi del 2023 l’insegnante (e preside) di una scuola è stata costretta a dimettersi per aver mostrato, durante una lezione sul Rinascimento, il povero David, sempre reo di non indossare le mutandine.
L’insegnante è stata costretta a lasciare il suo lavoro dopo le proteste suscitate dalla lezione in cui aveva utilizzato l’immagine della statua, «ritenuta ‘pornografica’ da un indignato genitore» [19]. Ciò può indurre al sorriso, ma è un problema serio, che mostra la crescente difficoltà di proporre nelle scuole (ma anche nelle Università e nei mezzi di comunicazione di massa) dei contenuti complessi, che richiedono la capacità di contestualizzare storicamente i fenomeni e di decodificarli con categorie che comprendano un certo relativismo culturale.
Ma questo relativismo è un altro tema sensibile, che, già prima della diffusione della cancel culture, aveva richiamato l’attenzione di un papa, Joseph Ratzinger, espressosi in un modo che ha contribuito non poco a ridurre l’orizzonte culturale europeo. Secondo lui, stava affermandosi «una dittatura del relativismo» che non riconosceva nulla come definitivo e che considerava «misura ultima di tutte le cose il proprio io e le proprie voglie» [20]. Il relativismo era visto, insomma, non come uno strumento ermeneutico utile a comprendere dei fenomeni complessi, ma come un nemico da combattere. Questa chiusura alla diversità, con la cancellazione di ogni spazio intermedio fra le opposte posizioni, ha contribuito alla semplificazione e alla banalizzazione di contenuti e dibattiti. Un processo paradossalmente coerente con la semplificazione del discorso pubblico secondo le modalità comunicative dei social media: tendenzialmente assoluti, dicotomici, oppositivi e raramente relativisti.
Cancel culture, paure e società postmoderna
Quanto è accaduto a Glasgow e in Florida nasconde un fenomeno (e un problema) sempre più centrale nella nostra società: la cultura della cancellazione, non più confinata in altri Paesi, che sta trasformando il nostro rapporto con la storia e con il patrimonio culturale.
La giornalista e saggista Costanza Rizzacasa D’Orsogna, laureata alla Columbia University, ha ripercorso lo sviluppo della cancel culture negli Stati Uniti e ha analizzato le guerre culturali che ormai da anni dilaniano quel Paese, dalla politica alla scuola [21]. La politologa Pippa Norris, dell’Università di Harvard, ha mostrato chiaramente la progressiva estensione internazionale della cancel culture, la cui diversa percezione nelle diverse aree del pianeta «è probabilmente influenzata dal grado di corrispondenza dei valori individuali alla cultura del gruppo dominante» [22]. È un fenomeno presente non solo nei Paesi autoritari e conservatori, ma anche in quelli democratici e progressisti.
Da un punto di vista teorico, l’aspetto forse più interessante della cancel culture è il suo rapporto con la globalizzazione. La velocità con cui si è diffusa è espressione di un mondo globalizzato con modelli culturali sempre più omogenei e, al tempo stesso, della crisi della globalizzazione e del processo di riorganizzazione degli assetti geo-politici planetari [23].
La cancel culture si alimenta delle paure generate da un sistema in crisi e dalla perdita di fiducia nel futuro che caratterizza gran parte del mondo occidentale. Il ritorno dei confini e delle barriere, il riemergere dei nazionalismi, la contestazione sempre più diffusa di organizzazioni e pratiche sovranazionali, la rivalorizzazione delle culture locali e la chiusura crescente a pratiche interculturali e transculturali sono tutti elementi che costituiscono l’humus che alimenta la cancel culture. L’“America first” di Donald Trump ha aperto la strada a una serie di chiusure nazionali in molti Paesi europei, di cui la Brexit è l’esempio più eclatante. Questo secolo si è aperto con un clamoroso e violento episodio di cancel culture: la distruzione delle Torri Gemelle di New York (2001), viste come icone della globalizzazione e dell’economia finanziaria a traino americano. Il terrorismo islamico in Europa, concentrato negli anni 2015-2017, ha portato questa cultura della cancellazione violenta nel cuore del continente. Sono seguite una crescente chiusura al diverso e una voglia di cancellazione dell’altro. L’instabilità economica e l’impoverimento del mondo occidentale hanno acuito il fenomeno, sollecitando da un lato una cancellazione delle classi politiche dominanti e dei loro modelli politici e dell’altro una cancellazione delle pratiche culturali e dei modelli politici legati a una globalizzazione ritenuta responsabile della crisi ed essa stessa in crisi.
Il patrimonio culturale (a cominciare dai monumenti pubblici) è divenuto in tale contesto uno spazio di negoziazione delle nuove identità, delle nuove domande politiche e delle nuove paure. L’attacco e la rimozione dei simboli assunti dalle comunità per definire la propria identità e il proprio sistema di valori sono diventati insomma degli strumenti semplici (ma mediaticamente efficaci) per affermare l’emergere di nuovi sistemi valoriali o la volontà di una parte dei consociati di rinegoziare il proprio spazio politico e identitario.
La cancel culture si è così diretta (principalmente negli Stati Uniti e nel Regno Unito e soprattutto tra il 2017 e il 2020) contro le statue e le strutture pubbliche che celebravano, ad esempio, generali o mecenati sino ad allora considerati dei personaggi autorevoli o addirittura dei padri della patria. In un processo di rinegoziazione identitaria e di ridefinizione degli spazi politici delle comunità (e delle loro interne minoranze) tali opere sono state rilette come monumenti al razzismo e alle disuguaglianze esistenti.
Guido Bosticco, docente del master “Cancel culture” dell’Unicusano, ha ripercorso le contestazioni delle statue negli Stati Uniti, mostrando come la cancel culture sia «diventata campo di battaglia politico e geopolitico attraverso una stabilizzazione delle posizioni in entrambi gli schieramenti» che ostacola ogni approfondimento critico e favorisce la diffusione di concetti elementari e di slogan immediatamente comprensibili [24].
Proprio questo aspetto rivela il rapporto profondo della cancel culture contemporanea con la cultura liquida post-moderna e, al contempo, con il suo superamento. La post-modernità, a livello politico, è stata in effetti caratterizzata dalla diffusione di pratiche post-politiche, in gran parte basate su un approccio de-intellettualizzato, semplificato e banalizzato alla storia. La diffusione dei social media come strumenti, da un lato, di comunicazione politica e di creazione del consenso e, dall’altro, di definizione delle identità individuali e collettive ha ulteriormente implementato il processo.
Statue “italiane” tra cancel culture, narrative politiche e sessualizzazione identitaria
La cancel culture applicata al patrimonio culturale non è un problema solo americano ed è presente da tempo anche in Italia. Ricordate gli scatoloni in cui nel 2016 vennero nascoste le antiche statue dei Musei Capitolini durante la visita del presidente iraniano Hassan Rouhani? Erano gli anni del governo Renzi. Quella era una forma di cancel culture, che esprimeva l’incapacità del Paese di rapportarsi in modo equilibrato con la storia e il patrimonio culturale.
In quell’occasione l’Italia ha “cancellato” il proprio patrimonio culturale, confermando tanto l’avvenuta sessualizzazione dell’arte quanto la difficoltà culturale di gestire la sessualità: quella statua, proprio come il David nella metropolitana di Glasgow o nella scuola in Florida, veniva trattata come un nudo e non come un’importante testimonianza del passato. Tra l’altro, come è stato osservato, la copertura di simili statue, negli anni più bui del terrorismo islamico e degli attacchi dell’Isis, può essere considerata come un intervento che, negando le espressioni artistiche della civiltà occidentale, legittimava involontariamente gli attacchi di coloro che volevano distruggerle [25].
Del resto, l’Italia è il Paese che, con una forma ancora più sofisticata di cancellazione culturale, a richiesta dell’allora presidente del Consiglio (indovinate voi chi fosse), aveva ricostruito il “membro virile” di una statua romana di Marte, utilizzata come sfondo per le sue conferenze-stampa. Come poteva quel presidente mostrarsi al mondo davanti a una statua senza gli attributi maschili? Certo, in quel caso c’erano forse dei rispettabilissimi problemi di carattere psicologico, ma c’erano anche l’incapacità di accettare gli effetti del corso del tempo e quel processo di sessualizzazione identitaria dell’arte, che induce a utilizzare il patrimonio culturale come uno strumento di autorappresentazione identitaria e sessuale.
L’uso a fine identitario e politico del patrimonio culturale non è un fenomeno nuovo, dato che questo patrimonio è un elemento chiave dell’idea stessa di heritage, inteso come selezione del passato basata su scelte che riflettono il variabile contesto culturale e politico, e del processo di costruzione delle identità nazionali avviato nell’Ottocento. L’aspetto nuovo è la metabolizzazione di questo uso da parte della società postmoderna e il suo impiego anche in pratiche ludiche e post-politiche in un generale contesto di “mascheramento” del patrimonio culturale [26] e di “carnevalizzazione della società” [27]. L’approccio giocoso e désengagé di Berlusconi alla sessualità, alla politica e al patrimonio culturale può essere inquadrato in tale contesto. Non dissimile è il caso di un successivo presidente del Consiglio, il già citato Matteo Renzi, che, negli anni del suo mandato, ha fortemente implementato delle politiche di utilizzazione commerciale del patrimonio culturale, accelerando in Italia un processo altrove già avanzato. La difesa e la valorizzazione del made in Italy è diventata in quegli anni un claim capace di incrociare aspetti pluri-generazionali politici e post-politici, come il sempre riemergente nazionalismo della destra e il nuovo glocalismo della sinistra.
Tra i numerosi interventi di Renzi relativi al patrimonio culturale, si può ricordare un episodio che riguarda Firenze (la città di cui era stato sindaco) e il David di Michelangelo. Da presidente del Consiglio, nel 2015, Renzi volle accogliere la cancelliera tedesca Angela Merkel a Firenze, per ammaliarla, come hanno scritto i giornali del tempo, con la ricchezza del suo patrimonio culturale. Erano gli anni del “nuovo Rinascimento italiano”, quando, consapevoli della crescente marginalità industriale del Paese, si volle puntare sull’arte come strumento identitario, politico ed economico. Renzi organizzò una conferenza-stampa (guarda un po’) davanti al David di Michelangelo. In rete si trovano ancora le immagini dell’abbraccio tra i due, in cui la cancelliera sembra guardare il giovane Renzi con rapimento estatico. Sopra le loro teste campeggiano i marmorei attributi del David. È un’operazione simile a quella di Berlusconi. L’Italia affermava la propria mascolinità (e il proprio maschilismo politico) utilizzando un capolavoro del passato. In questo modo però mostrava anche la propria incapacità d’individuare una nuova narrativa per raccontare e rappresentare il Paese.
Il Paese della bellezza. Narrative politiche e patrimonio culturale
L’Italia di Renzi, come quella di Berlusconi, ma anche dei vari ministri della Cultura e del Turismo che si sono succeduti negli anni, è sempre quella del Grand Tour: il “Paese della bellezza”. Si tratta però di una narrativa allogena, debole e vecchia e, in una prospettiva italiana, anche offensiva. I benestanti viaggiatori nordici del Grand Tour hanno infatti costruito nel corso dei secoli un’immagine dell’Italia funzionale al loro sguardo (e non al nostro): un Paese povero e marginale, la cui bellezza non era nel presente, ma nel passato. Un mondo altro, pre-culturale, se non a-culturale, da visitare come esperienza di alterità.
Quando si è formato il Regno d’Italia, il nuovo Stato, nella necessità di costruire un’identità nazionale che potesse raccontare un Paese ancora privo di una sua narrativa politica unitaria, si è rivolto all’unica narrativa disponibile, quella del Grand Tour. Ecco allora che Firenze (capitale d’Italia per sei anni, prima dell’annessione di Roma), nell’ambito di un importante rinnovamento urbano, si dota di uno spazio (il piazzale Michelangelo) da cui si può ammirare la città come in un acquarello del Grand Tour e vi colloca una copia del David, assunta a icona del nuovo Stato. Con quell’operazione l’Italia accettava che una narrativa nata con una logica sostanzialmente turistica diventasse uno strumento istituzionale di autorappresentazione [28]. È in quel contesto che il David comincia a diventare una metafora dell’Italia quale “Paese dell’amore e della bellezza”, che per i visitatori stranieri (specialmente inglesi e tedeschi) implicava anche il turismo sessuale, non raramente pedofilo. Gli italiani intanto accoglievano la stessa metafora come esaltazione del maschio italiano. I selfies dei turisti sotto gli attributi del David e i tanti souvenir dedicati agli stessi mostrano il successo di questa utilizzazione e la sua longue durée.
Non ci deve quindi stupire se ancor oggi, per raccontare il Paese o attirare i turisti, si finisca per utilizzare la Venere di Botticelli o il David di Michelangelo. Il problema è l’incapacità del Paese (e della politica) d’individuare, dopo oltre un secolo e mezzo, un’altra narrativa.
Un caso interessante che conferma questa sostanziale difficoltà a individuare nuovi elementi che possano raccontare l’Italia di oggi, pur nel rispetto della tradizione, è rappresentato dall’allestimento del Padiglione Italia all’Expo di Dubai del 2020 [29].
Le esposizioni universali sono spazi strani, che coniugano costitutivamente elementi di carattere “moderno” (nel senso di pre-postmoderno), tendenzialmente nazionalistici e autocelebrativi, ed elementi, legati all’industria del divertimento e del turismo, che fungono da ponte tra modernità e post-modernità [30]. In un contesto generale di graduale recupero della modernità, il nazionalismo è diventato un loro aspetto sempre meno celato, anche perché si tratta di mega-eventi globali cui partecipano Stati con impostazioni culturali e politiche molto differenti e quindi anche con un rapporto diverso con modernità e post-modernità. La Cina, per fare un esempio, per la sua particolare organizzazione politica, sociale ed economica, presenta un’impostazione, anche culturale, in cui gli elementi più solidi della “modernità” prevalgono su quelli “liquidi” in senso baumaniano. Un aspetto molto evidente nei suoi padiglioni.
Proprio per questo è estremamente istruttivo indagare gli allestimenti che i diversi Paesi hanno scelto per auto-rappresentarsi nel peculiare contesto delle esposizioni universali. Expo Dubai costituiva inoltre un’occasione molto particolare: il primo evento di questo tipo non solo in un Paese arabo, ma anche nella vasta area del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale e dell’Asia meridionale. Il tutto in un contesto geopolitico internazionale di riorganizzazione della globalizzazione e degli equilibri politici ed economici su scala planetaria. In questo scenario, il modo in cui ciascun Paese sceglie di allestire il proprio padiglione presenta un valore particolare.
Quando l’Italia ha dovuto scegliere un simbolo che la rappresentasse all’Expo Dubai 2020, che cosa ha scelto? Il David di Michelangelo [31]. Ma anche questa operazione ha finito per dimostrare l’incapacità del Paese di raccontare la propria contemporaneità e, cosa ancora più grave, d’immaginare il proprio futuro. Mentre gli altri Paesi sfruttavano l’occasione per manifestare la loro voglia di aprirsi al mondo e al turismo (Arabia Saudita in primis), presentare scenari sorprendenti di città del futuro tecnologiche e sostenibili (Singapore) o, un po’ boriosamente, ostentare la loro partecipazione alla corsa spaziale, con missioni sulla Luna o su Marte (Usa, Cina, India ed Emirati Arabi), il padiglione italiano, goffo e confuso, di fatto non mostrava alcunché: un tortuoso percorso in spazi semivuoti, culminante nella più sorprendente operazione di cancel culture dovuta a uno Stato: un’enorme copia del David, inserita in una struttura tubolare che impediva al pubblico di guardare la statua nella sua interezza e, ancora una volta, di vedere i suoi “attributi” [32].
Se la nudità poteva costituire un problema in un Paese islamico, perché scegliere proprio quell’opera? Se il David è un’icona della cultura nazionale meritevole di essere orgogliosamente esibita, perché censurarla? Se anche per le nostre istituzioni quella è una statua pornografica da coprire, perché confermarla come icona?
Il David da oltre un secolo, grazie al Grand Tour prima e al turismo di massa poi, è diventato un simbolo del Paese, che le nostre istituzioni hanno continuato a utilizzare, finendo per corroborare quel sistema di segni che associava al David una gioiosa (e stereotipata) rappresentazione del maschio italiano e, più in generale, dell’Italia come Paese dell’amore e della bellezza: un’immagine da cui sembra che si faccia fatica a staccarsi.
La Venere influencer voluta per la curiosa campagna “Open to meraviglia” nasce in questo contesto culturale. Nulla di nuovo. Solo il perpetuarsi di un’immagine turistica affetta da stereotipi, pensata altrove e metabolizzata dalle nostre istituzioni come autorappresentazione identitaria. Possibile che non si riesca a pensare ad altri simboli per raccontare l’Italia o che, all’esaltazione del passato, si sia incapaci di accompagnare un’idea di futuro?
Attivismo ambientale tra cancellazione e risignificazione
La guerra alle statue ha rappresentato forse l’aspetto più pittoresco e mediatizzato della cancel culture degli ultimi anni. L’abbattimento, simbolico e materiale, di statue e di altre icone rappresenta una sorta di costante nella storia delle civiltà, che possiamo ricondurre, almeno in parte, a forme di canalizzazione collettiva di rabbia e frustazioni sociali, avvicinabili, per la loro funzione, ai carnevali pre-postmoderni (in cui la comunità, all’interno di una cornice temporale predefinita e accettata dalle istituzioni, sfogava tensioni represse e metteva in scena, in un modo socialmente accettabile, un ribaltamento dei ruoli e degli equilibri sociali che si concludeva con il ritorno allo status quo ante) [33].
D’altra parte, nel contesto culturale degli ultimi anni, caratterizzato da una sostanziale contrazione delle capacità critiche e da una generale riduzione della complessità, l’abbattimento delle statue ha assunto i tratti di una performance collettiva, che permette non solo di comunicare in modo semplice ed efficace dei contenuti teoricamente complessi, ma anche di farlo in un modo sostanzialmente pre-verbale o a-verbale, visivamente forte e facilmente condivisibile e comunicabile su media e social media.
Lo storico dell’arte Tomaso Montanari, già citato a proposito delle polemiche suscitate dall’incursione agli Uffizi di Chiara Ferragni, si è recentemente occupato del nuovo significato assunto dalle statue e del senso del loro abbattimento. Il suo invito è a “risemantizzare” le statue e i monumenti, evitandone o superandone la cancellazione. Andrebbe insomma recuperata la complessità della storia per costruire, anche attraverso il patrimonio culturale, una visione del presente che marchi la distanza dal passato [34].
Certo, un tal uso del patrimonio culturale non costituisce un atto di rivolta, ma al più una riappropriazione, che porta a un riallineamento tra la comunità e i simboli con cui di volta in volta si rappresenta e comunica il suo sistema di valori. Un uso coerente con ciò che da secoli vien fatto negli spazi pubblici, dove statue e monumenti sono utilizzati per rappresentare i valori della comunità.
Il problema è che stiamo attraversando una fase complessa di riorganizzazione (culturale e politica) del sistema culturale in cui viviamo. L’uscita dalla post-modernità sembrerebbe comportare un ritorno ad alcuni elementi di solidità pre-postmoderna, di cui è espressione, fra l’altro, la fascinazione crescente e diffusa per sovranismi e nazionalismi e per forme di confronto sociale e politico sempre più solide e fisiche (come hanno mostrato, ad esempio, le manifestazioni in Francia dei cosiddetti Gilets Jaunes nel 2018, l’assalto al Campidoglio di Washington il 6 gennaio 2021 e le “rivolte dei trattori” in vari paesi europei nel febbraio 2024) [35].
In tale contesto assistiamo alla diffusione di nuovi movimenti (da alcuni definiti, per la loro valenza politica e polisemica, “più che sociali” [36]), come quelli degli attivisti ambientali, che con le loro azioni si riappropriano del patrimonio culturale e lo utilizzano per rappresentare un proprio sistema di valori. Paradossalmente hanno mostrato più inventiva i tanto bistrattati ragazzi di “Ultima generazione”, che, per lanciare il loro messaggio sulla crisi ambientale, si sono incollati alla cornice della Primavera di Botticelli e, in un altro blitz, hanno incollato sul vetro che protegge la Venere di Botticelli alcune fotografie dell’alluvione che aveva da poco colpito i dintorni di Firenze [37].
Ancora una volta queste due celebri opere di Botticelli sono state al centro di operazioni che ne sfruttavano il valore iconico a livello globale per costruire una comunicazione che potesse avere una ricaduta mediatica significativa, con un impatto anche internazionale. Le opere sono state in qualche modo “cancellate”: in un caso gli attivisti, incollandosi alla cornice, si sono simbolicamente e materialmente aggiunti all’opera; nell’altro l’hanno parzialmente coperta con immagini che sostituivano all’idillico scenario botticelliano il martoriato paesaggio contemporaneo. In altri musei dei giovani attivisti ambientali hanno “cancellato” le opere con zuppe e vernici.
Tuttavia, a differenza delle operazioni di cancellazione istituzionale e di banalizzazione istituzionale già ricordate (dagli interventi di Berlusconi e di Renzi a quelli più recenti del padiglione italiano all’Expo di Dubai o della campagna ministeriale “Open to Meraviglia”), in queste azioni si può rintracciare un’interessante forma di riappropriazione e di risignificazione, anche di tipo generazionale e anti-istituzionale, del patrimonio culturale.
Vi è anche un altro aspetto che merita di essere rilevato: questi interventi ambientalisti nei musei non sessualizzano il patrimonio culturale. Venere, a differenza dell’uso fattone dalla Ferragni o da “Open to Meraviglia”, non è sfruttata nella sua dimensione di figura femminile o di simbolo della bellezza. Il dipinto è infatti riattivato nel suo più ampio e complesso significato di celebrazione della natura e di rappresentazione di un paesaggio culturale plasmato dal mito.
I giovani attivisti, senza recar danno alle opere, hanno utilizzato i musei e il patrimonio culturale non già per perpetuare stereotipi, come il Paese dell’amore e della bellezza, o per attrarre turisti, ma per rappresentare e mettere in scena il proprio sistema valoriale e per invitarci a riflettere sulla fragilità del nostro presente e sulla necessità di costruire un futuro migliore.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Sull’uso della tematizzazione nelle pratiche di marketing e sul suo significato nei processi di costruzione di forme commerciali di autenticità si veda: James H. Gilmore e B. Joseph Pine II, Authenticity. What consumers really want, Boston, MA, Harvard Business School Press, 2007.
[2] E. Sabljak, Glasgow subway adverts with Michelangelo’s David banned over nudity, «The Herald», Glasgow, 17 maggio 2023.
[3] T. Akers, Florida school principal fired for showing students Michelangelo’s ‘pornographic’ David sculpture, «The Art Newspaper», 23 marzo 2023.
[4] Mi riferisco naturalmente al concetto di “liquidità” introdotto da Z. Bauman, Liquid Modernity, Cambridge, Polity, 2000.
[5] Per la precisione, è stata «l’arte tradizionale del pizzaiolo napoletano» a essere riconosciuta dall’Unesco «come parte del patrimonio culturale dell’umanità, trasmesso di generazione in generazione e continuamente ricreato, in grado di fornire alla comunità un senso di identità e continuità e di promuovere il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana, secondo i criteri della Convenzione Unesco del 2003». Si veda https://www.unesco.it/it/iniziative-dellunesco/patrimonio-culturale-immateriale/larte-del-pizzaiuolo-napoletano/
[6] M. Melotti, Beyond Venice. Heritage and Tourism in the New Global World, in E. Marra, M. Melotti (a cura di), Mobilities and Hospitable Cities, Newcastle, Cambridge Scholars Publishing, 2018,: 101-140.
[7] Sul concetto di tourist gaze si veda J. Urry, J. Larsen, The Tourist Gaze 3.0, Thousand Oaks, CA, Sage, 2011.
[8] M. Melotti, Beyond Venice, cit.
[9] Il servizio, Chiara Ferragni. Art in Life, è stato pubblicato con fotografie di Michal Pudelka nell’ottobre 2020 di «Vogue Hong Kong». L’influencer compare in copertina, ritratta mentre stringe tra le mani una cornice vuota.
[10] Vale la pena di riportare un breve passaggio di un post su Instagram della Galleria degli Uffizi, plausibilmente scritto o rivisto da Eike Schmidt, allora suo direttore: «I canoni estetici cambiano nel corso dei secoli. L’ideale femminile della donna con i capelli biondi e la pelle diafana è tipico del Rinascimento (…). Ai giorni nostri l’italiana Chiara Ferragni, nata a Cremona, incarna un mito per milioni di followers, una sorta di divinità contemporanea nell’era dei social» (Uffizigalleries, post, Instagram, 17 luglio 2020). L’attualizzazione del passato è una tentazione ricorrente delle narrative museali e, ancor più, della divulgazione storica. In un contesto culturale di impoverimento crescente delle conoscenze storiche le operazioni di questo tipo sono tendenzialmente destinate ad avere successo e possono quindi apparire come delle facili iniziative a operatori culturali che inseguono il mantra della divulgazione e della popolarità.
[11] Tra i commenti più negativi si può ricordare quello dello storico dell’arte Tomaso Montanari, per il quale «la conoscenza della storia e dell’arte serve a nutrire un pensiero critico che aiuti, specialmente i più giovani, a prendere le distanze dal presente in cui siamo immersi». La sua critica colpisce sia l’influencer, accusata di usare strumentalmente il patrimonio culturale e un’istituzione pubblica, sia il direttore degli Uffizi, autore di un testo «culturalmente miserabile e indegno di un’istituzione culturale pubblica» (T. Montanari, La Venere Chiara riduce Botticelli a tormentone social, «Fatto Quotidiano», 18 luglio 2020).
[12] Questa campagna del Ministero del Turismo è stata accolta con critiche severe da parte dei media e di molti esperti del settore non solo per la banalità dei suoi contenuti, ma anche per il suo costo piuttosto elevato e i molti imbarazzanti errori presenti nella sua versione tedesca (basti dire che, per probabile conseguenza di una traduzione automatica, i nomi di alcune città italiane venivano stravolti con effetti esilaranti: Brindisi diventava Toast e Camerino Garderobe). Si veda, tra gli altri, S. Lucarelli, Open to Meraviglia continua a stupire, «Fatto Quotidiano Magazine», 24 aprile 2023. Il Ministero ha difeso l’operazione e non ha ritirato la campagna, cui però non ha più dato particolare visibilità.
[13] Ministero del Turismo, Italia: open to meraviglia, 2023, post, https://www.ministeroturismo.gov.it/italia-open-to-meraviglia/
[14] D. MacCannell, Staged authenticity: Arrangements of social space in tourist settings, «American Journal of Sociology», 79, 3, 1973:. 589-603.
[15] D. Walker, Eight Glasgow statues cancelled by woke slavery audit branded ‘hatchet job’ ahed of George Square consultation, «Scottish Daily Express», 21 marzo 2022.
[16] E. Sabljak, Glasgow subway, cit.
[17] P. Connerton, How Modernity Forgets, Cambridge, Cambridge University Press, 2009.
[18] E. Sabljak, Glasgow subway, cit.
[19] T. Akers, Florida school, cit.
[20] J. Ratzinger, Omelia nella ‘Missa pro eligendo Romano Pontefice’, «Acta Apostolicae Sedis», 97, 2005: 685-689.
[21] C. Rizzacasa D’Orsogna, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana, Roma – Bari, Laterza, 2022.
[22] P. Norris, Cancel Culture: Myth or Reality?, «Political Studies», 71, 1, 2023: 145-174.
[23] M. Melotti, Carnevalizzazione e società postmoderna. Maschere, linguaggi, paure, Bari, Progedit, 2019.
[24] G. Bosticco, La cancel culture nel discorso geopolitico contemporaneo, Roma, Edicusano, 2023.
[25] G. Tavan, L’Iran e le statue coperte ai Musei Capitolini, blog «Archeologiavocidalpassato», 31 gennaio 2016.
[26] M. Melotti, Il paese della bellezza. Patrimonio culturale, maschere linguistiche e retorica politica, in P. Sisto, P. Totaro (a cura di), Maschera e linguaggi, Bari, Progedit, 2016: 281-312.
[27] J. Braun, L. Langman, Alienation and the Carnivalization of Society, London – New York, Routledge, 2012, e M. Melotti, Carnevalizzazione, cit.
[28] Sul rapporto tra narrative politiche, sguardo turistico e interventi urbanistici a Firenze si veda M. Melotti, Florence, Tourism, Heritage and Consumption, in M. Kozak, N. Kozak (a cura di), Tourist Behavior: An Experiential Perspective, Berlin, Springer, 2018: 97-109.
[29] Expo 2020 Dubai si è svolta tra il 1° ottobre 2021 e il 31 marzo 2022 (con uno slittamento di un anno rispetto al periodo originariamente previsto, a causa della pandemia). Il tema dell’edizione era Connecting Minds, Creating the Future.
[30] Sulle esposizioni universali intese come mega-eventi si vedano: M. Roche, Mega-Events, Time and Modernity: On Time Structures in Global Society, «Time & Society», 12, 1, 2003: 99-126, e C. Guala, Mega Eventi. Immagini e legacy dalle Olimpiadi alle Expo, Roma, Carocci, 2015.
[31] Come spiegava con orgoglio il sito web del padiglione italiano a Expo Dubai (curiosamente non più raggiungibile), la statua era stata riprodotta con una delle più grandi stampanti 3D allora disponibili, con 40 ore di scansione digitale, per poi essere rifinita con polvere di marmo da artigiani di Firenze.
Lo studio cui era stato affidato il concept design del percorso espositivo (Rampello & Partners) ha spiegato che il tema del padiglione era «la bellezza intesa come elemento che mette in connessione i saperi e le competenze dell’Italia nella sua storia e nella sua contemporaneità; la bellezza che nella tradizione e nell’innovazione italiana unisce e integra stile, sapere culturale e spirituale, capacità progettuali e genio creativo» (https://www.rampelloandpartners.com/progetto/padiglione-italia-expo-dubai-2020/).
[32] Il Padiglione Italia è stato allestito su progetto di Carlo Ratti, Italo Rota, Matteo Gatto e F&M Ingegneria. Un titolo della «Stampa» (6 ottobre 2021) sintetizza bene le perplessità con cui è stato accolto in Italia l’allestimento: Il David “censurato” all’Expo di Dubai, è polemica. Gli organizzatori: “È una prospettiva inedita ed emozionante”. L’articolo riporta anche la sferzante critica dello storico dell’arte Vittorio Sgarbi («L’Italia oscura il David di Michelangelo a Dubai in ossequio alla tradizione islamica: un’umiliazione inaudita, inaccettabile, intollerabile. Ci troviamo di fronte all’umiliazione dell’arte italiana») e la difesa d’ufficio del direttore artistico del padiglione, Davide Rampello («l’obiettivo era quello di fornire una nuova esperienza, consentendo ai visitatori di vedere il David all’altezza degli occhi, mentre gli amanti dell’arte devono guardare la statua originale alla Galleria dell’Accademia di Firenze»).
Per una visita virtuale del padiglione e della replica del David si può vedere anche la mia diretta Facebook da Dubai nel marzo 2022 (https://www.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=657389515536164).
[33] Sul rapporto tra Carnevali pre-moderni, moderni e post-moderni si veda M. Melotti, Carnevalizzazione, cit.
[34] T. Montanari, Le statue giuste, Bari, Laterza, 2024. L’autore, con riferimento all’abbattimento delle statue e alla cancel culture, invita a «non distruggere ma nemmeno accettare passivamente un messaggio che tenderebbe a continuare a inchiodarci a un passato che oggi lucidamente condanniamo». Statue e monumenti non vanno cancellati, ma “commentati” e “integrati”.
[35] Per una riflessione sull’uscita sussultoria dalla post-modernità e i suoi riflessi sul patrimonio culturale si veda M. Melotti, Carnevalizzazione, cit.
[36] D. Papadopoulos, Experimental Practice: Technoscience, Alterontologies, and More-Than-Social Movements, Durham, NC, Duke University Press, 2018.
[37] Mi riferisco alle azioni di “Ultima Generazione” agli Uffizi: la prima nel luglio 2022 e la seconda nel febbraio 2024.
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Marxiano Melotti, si è laureato con lode in lettere classiche all’Università di Milano e ha conseguito un dottorato in Antropologia del mondo antico all’Università di Siena e una specializzazione in Antropologia applicata all’Università di Milano Bicocca. Abilitato in Sociologia dei processi culturali e Sociologia del territorio, ha insegnato all’Università di Milano Bicocca, all’Istituto di Scienze Umane di Firenze (della cui Fondazione è stato anche segretario generale) ed è ora professore associato all’Università Niccolò Cusano di Roma. Fra le sue pubblicazioni, Turismo archeologico (Bruno Mondadori, Milano, 2008); Carnevalizzazione e società postmoderna (Progedit, Bari, 2019); e Le Sirene. Incanto e seduzione (Rizzoli Corriere della Sera, Milano 2020).
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