di Flavia Schiavo
I giardini a New York, e soprattutto a Manhattan, tra le città più compatte del pianeta, mostrano come gli spazi aperti abbiano una specifica densità, rispetto al costruito e siano un “fronte di resistenza” rispetto ai processi di trasformazione immobiliare, ai Piani, agli interventi pubblici e a quelli privati, cui a volte si oppongono efficacemente le azioni civiche e partecipative degli abitanti. La trama del verde va letta, dunque, in base alla relazione tensiva tra fenomeni molto diversi che contribuiscono a configurare una morfologia “porosa” [1], costituita anche da spazi aperti differenti. Da quelli di grandi dimensioni concepiti a metà Ottocento come Central Park e Prospect Park a Brooklyn (entrambi di F. L. Olmsted e C. Vaux), a quelli più minuti e diffusi che nel corso di circa due secoli sono sorti in una città in cui la rendita urbana e il suolo edificabile hanno avuto e hanno un enorme peso.
I giardini a NYC, sempre frutto di azioni confluenti, sono figli di una specifica compagine culturale oltre che della Comunità che a New York ha un ruolo attivo, proponendo progetti, realizzandoli e soprattutto gestendo le attività collegate alla manutenzione e alla interconnessione con la “vita” urbana nel suo complesso.
La grande quantità di giardini comprende, oltre agli ampi parchi urbani, peraltro non previsti nel Piano del 1811 (che disegnava a terra una maglia ortogonale, più affine a una lottizzazione), un enorme patrimonio costituito da: alcuni waterfront, come il Riverside Park (del 1875, di F. L. Olmsted); numerosi giardini storici che oltre a essere “memoria” hanno un ruolo morfologico, come Washington Square Park [2], o come Union Square Park (del 1839 e ridisegnato da F. L. Olmsted e C. Vaux nel 1872), o Tompkins Square Park e Gramercy Park, entrambi della metà del XIX secolo; piccoli giardini, anche recenti, nati tra edifici o in aree di bordo; strade alberate. A questo patrimonio in perenne evoluzione, raramente di disegno formale, ma sovente dotato di un ruolo sociale assai forte, va aggiunto un insieme di spazi e di elementi che comprende: estesi progetti di riqualificazione (es. una grande discarica a Staten Island); la rete dei Giardini comunitari frutto dell’azione combattiva delle Community Garden (presenti nei 5 Distretti, voluti e gestiti spesso da comunità tra cui spiccano i latinos); alcuni elementi singoli o minuti, come i ciliegi, che contraddistinguono il cityscape e che, talvolta, rivestono un valore sistemico e identitario.
Quello dei giardini è, dunque, uno spazio capillare e in movimento, costituito da azioni diversificate, da elementi puntuali e da aree di dimensioni dissimili, morfologicamente e socialmente differenziate presenti anche nelle zone più compatte di Manhattan, dove i giardini si trovano a volte all’interno di edifici, come nel caso della Ford Foundation, o tra spazi aperti interclusi, come vicino al MoMA dove è possibile sostare “dentro” un “minuscolo” frammento in una compatta Midtown, a Paley Park, nella 53rd Street, nato nel 1967 per una donazione.
La speculazione immobiliare, tra i focus della economia cittadina, tende a saturare, non solo Manhattan, ma l’intera New York City: Five Boroughs disomogenei per densità, peso e consistenza (Manhattan, Bronx, Brooklyn, Queens, Staten Island) che sono, ovviamente con significative differenze, luoghi dove il Real estate ha una importanza sostanziale.
Il verde e i relativi processi d’implementazione hanno grande rilievo nella trasformazione di Manhattan (87 kmq di superficie complessiva; 59 kmq di terra; 28 kmq di acque interne) in cui la densità edilizia e abitativa è altissima. In tale sovraccarico fisico e simbolico il sistema dei giardini manifesta imponenti contraddizioni, da un lato subisce le pressioni dell’edificazione e le spinte speculative, dall’altro interpreta, secondo un diverso criterio, l’interrelazione, quasi sempre tutt’altro che monumentale, tra persone e luoghi e tra edifici e open spaces:
- avviando processi di appropriazione e di resilienza alle trasformazioni dei soggetti economicamente e socialmente forti che dirigono abitualmente le trasformazioni urbane;
- orientando alcuni progetti, con interventi in aree di bordo, tra cui i waterfront, come per esempio sta accadendo a Brooklyn;
- attivando tutela e progettazione ecologica, linfa e connettore degli spazi sociali;
- incrementando il valore collettivo: l’implementazione delle aree verdi nel suo complesso riveste valore sociale, rafforzando e innescando coscienza associativa e percorsi attuativi in partenariato, in cui i cittadini non sono né del tutto subalterni, né del tutto controparte dei “poteri forti”;
- innescando e favorendo processi di riqualificazione, gentrification e trasformazione del mercato immobiliare, modificazione rapida dell’assetto urbano con la costruzione di edifici di uso pubblico, come i Musei, tra questi il Whitney Museum of American Art, parte del sistema connesso all’High Line, a Manhattan, nel West Side.
La questione “giardini” va letta in un quadro complesso in cui contano non solo le quantità, ma il “tempo” veloce (accelerato), il ruolo dei poteri e la costruzione democratica dei diritti come “bene collettivo”, in un ambiente in cui il Capitale ha un ruolo di assoluto protagonismo e in cui la Comunità (termine generico che definisce un corpus variegato di “soggetti”) ha un ruolo concreto e potente.
La città si è rapidamente sviluppata generando un “paesaggio tensivo”, economicamente efficiente e sperequativo, ma non del tutto statico, in cui l’assenza del Welfare è affrontata tramite l’auto sostegno dei gruppi e delle moltissime etnie che, in un clima tra il rapace e il collaborativo, ma culturalmente tollerante, hanno (chi più, chi molto meno) sviluppato forme associative e coordinate di azione, gestione, opposizione. La Città non è un “organismo” semplice, ma un corpo pulsante di forze in cui, è banale dirlo, i gruppi economicamente poderosi esibiscono la propria potenza muscolare con esiti evidenti, agendo per costruire “lusso” protetto, per limitare gli accessi, per preservare i propri privilegi, pur essendo presenti alcune strutture decentrate che rappresentano – con Consigli e Commissioni, Distretti e forme autonome di aggregazione della comunità coesa intorno a obiettivi, “diritti”, progetti e gestione – la propria presenza.
Giardini a NYC, allora, vuol dire: network, sistema dei trasporti, eterogeneità dei 5 Distretti e delle persone, inter-scambio ecologico tra luoghi molto differenti (per natura, topologia e dimensione), “porosità” della trama (sociale e morfologica) a dispetto della sua apparente compattezza, gentrification, flussi umani, finanza, Insurances, Real estate, housing, densificazione, cura e gestione auto organizzata, resistenza civica, conflitti urbani, tempo veloce e allo stesso tempo discontinuo delle trasformazioni al di fuori di una predeterminazione netta degli obiettivi.
A New York la pianificazione ha un’articolazione “orizzontale” e diramata, fondata su un pensiero poco strategico, mobile e pragmatico, costituito da “nodi”, azioni (pubbliche, comunitarie, private) e strumenti pubblici (a volte interconnessi, spesso diretti dalle iniziative private). Questi ultimi sono attivati da differenti Dipartimenti in parziale inter-congiunzione, come il Department of City Planning of New York City o il New York City Department of Parks & Recreation, che attivano tutela, elaborano Piani e Scenari “aperti” sia a una successiva definizione, sia a un feedback in cui iniziative e obiettivi privati “istruiscano” la progettazione pubblica, e soprattutto siano aperti a una gestione in cui pubblico, privato s’intreccino (almeno in teoria) sinergicamente, in connessione ad altri “nodi”, percorsi attuativi e strumenti di matrice privata individuale o collettiva. Tra essi i movimenti civici, le scuole, i cittadini, gli operatori economici in una dimensione realmente bottom-up in cui le scelte non si configurino “per”, ma “con” e “dalla” comunità che definisce linee di azione e gestione, non appoggiandosi solo ad associazioni esistenti, ma fondando gruppi deputati; una comunità che attiva e/o recepisce azioni e pratiche in coerenza con regole e indicazioni (poche e chiare), ma pure con modalità autonome (dando spazio a creatività e immaginazione che spesso innovano e modificano i sistemi di regole).
NYC è, infatti, anche una capitale informale dove alcuni gruppi svantaggiati o a basso reddito possono far sentire la propria influenza, in una città dove i processi di revisione di uso del suolo tendono a essere governati dallo Zoning, dai portatori di interesse, e ad avere ricadute a breve termine attraverso pratiche spesso focalizzate su singoli progetti.
Pianificazione e coinvolgimento delle persone nel processo decisionale a NYC sono determinanti attivi, non solo per scelta governativa, ma in quanto connessi con la protesta civica autonomamente organizzata e storicamente fondata, in atto dalla fine del XIX secolo, quando erano pressoché assenti i Sindacati; fortissima durante gli anni ’30 del Novecento, contro la diseguaglianza sociale durante le crisi economiche; imponente nella fase immediatamente successiva alla II Guerra Mondiale, quando Robert Moses agiva per trasformare interi ambiti, come il Village o il Bronx, o negli anni ’50 a Harlem, o durante i critici anni ’70 in aree come Lower East Side a Manhattan, dove molti cittadini a basso reddito abbandonavano o davano alle fiamme le abitazioni per percepire i soldi dell’assicurazione e altri recuperavano aree dismesse per costruire “giardini”.
Il quadro degli strumenti, mai del tutto gerarchico, fortemente tensivo – privo di un Master Plan generale, con esclusione del recente PlaNYC2030 voluto dal Sindaco Bloomberg, in carica sino al 2014 – produce alcuni Master Plans [3] che insistono su ciascuno dei Five Boroughs o riguardano trasversalmente l’intera città. Tralasciando la critica al PlaNYC2030 di cui andrebbero rilevate le innumerevoli incongruenze, il quadro delle azioni relative al “verde”, tra interventi pubblici e spinte private, dà vita a un ambiente fecondo e contraddittorio in cui agiscono, da un lato i portatori d’interesse, dall’altro l’immaginazione civica, che origina dal substrato culturale, dalla resistenza e dalle sperequazioni esistenti tra i differenti soggetti sociali, e si attiva portando la trasformazione verso esiti non del tutto precostituiti.
Emerge in tal senso una “contemporaneità” in cui i risultati sono legati alla sfera dei comportamenti plastici e imprevisti e alle moltissime battaglie condotte come quelle tra Robert Moses e Jane Jacobs (e altri uomini e donne che fecero parte delle “resistenza” newyorchese, tra cui M. Berman) a proposito del Greenwich Village, del Bronx e di Washington Square Park, che Moses, dal 1934, intendeva trasformare radicalmente.
Se la Community-based planning, cioè la pianificazione comunitaria e la gestione bottom-up sono riconosciute e auspicate, va ribadito che esse sono connesse alla storia delle comunità insediate e alla forma “prima” della società urbana newyorchese, formatasi nella confluenza tra differenti culture. La coabitazione, non sempre pacifica, ma tendenzialmente tollerante ha condotto da un lato all’autogestione di alcuni processi, dall’altro alla formazione di un sistema in cui i gruppi sociali, anche a partire da nuclei esigui, si propongono come autori del progetto, sia si tratti di giardini o parchi, sia in relazione ad altre pratiche di trasformazione urbana.
Alcuni esempi emblematici possono restituire il quadro complesso, tra essi: l’esperienza delle Green Bombs; la recente realizzazione dell’High Line; i due grandi Parchi pubblici – Central Park e Prospect Park – a Manhattan e Brooklyn, che hanno ridisegnato lo spazio e l’identità urbana nell’Ottocento. Tali esempi, realizzati in tempi e modalità differenti, hanno un elemento comune: la presenza attiva delle persone, “autori primi” del progetto, ribalta il modello storicamente radicato in Europa in cui il Piano o le Istituzioni erano quasi sempre al vertice della piramide decisionale.
Le Green Bombs e le Urban Farms
Dalla crisi degli anni ’70 e dalla deindustrializzazione emersero, nei 5 Distretti (in misura differenziata), nu- merose aree dismesse, gravate da nodi irrisolti non affrontati dalla Pubblica Amministrazione (inquinamento; rifiuti), in una fase dura per la città, economicamente e socialmente. In tale assetto contraddittorio presero corpo alcune azioni di protesta che diedero vita al movimento delle Community Gardens, oggi numerosissime a NYC. L’azione di recupero, inizialmente non coordinata, cominciò soprattutto a Manhattan nell’East Village ad Alphabet City e a Harlem: un gruppo di ambientalisti prese a lanciare, oltre le transenne dei lotti abbandonatie interclusi, dei sacchetti di terra e semi che attecchendo diedero vita a piante e arbusti.
Il primo gruppo coordinato dei Green Guerrillas scaturì da questa azione autogestita, durante i primi anni ’70. Essi, dopo aver promosso la “rinascita”di un giardino (tra Houston Street, la Bowery e la 2nd Avenue), ne domandarono e ne ottennero la gestione alla Municipalità. Da tale best practice nacque l’implementazione e il mantenimento di spazi verdi bonificati e gestiti da volontari. La ripresa economica degli anni ’80 rafforzò tali azioni spesso in opposizione alla speculazione edilizia e al consumo di suolo e si formò un’associazione, la Green Thumb, di cui è possibile consultare on line la mappa che mostra la distribuzione dei giardini comunitari nei 5 Distretti (moltissimi sono a Brooklyn).
Oggi, vicino ad Alphabet City e nei dintorni di Tompkins Square Park, in Lower East Side (una parte di Downtown, Manhattan, abitata storicamente dai migranti) si trovano alcuni giardini gestiti dalle Community Gardens. I nomi: El Sol Brillante, La Plaza Cultural, 9C Garden, Parque de Tranquilidad, dotati di un’estetica a volte originale e raffinata (utilizzando, spesso, materiali riciclati), riflettono l’identità del quartiere, popolato da portoricani e immigrati del Centro America, che resistono alla gentrification.
La presenza dei latinos nel giardinaggio comunitario risale alla fase della Great Depression del ’29, quando si iniziarono a coltivare lotti liberi, dati dall’Amministrazione per ottenere cibo a basso costo. Attualmente la gestione dei giardini coincide anche con una diminuzione della criminalità, dell’alcolismo e dell’uso di droghe e con una maggiore connessione con le identità culturali di origine; anche per tali ragioni alla coltivazione degli orti è connessa una serie di attività finalizzate al coinvolgimento dei teenager, di solito poco presenti (solo l’8% dei gardeners). È in tal senso che i giardini sono luoghi elettivi di socializzazione e di vita comunitaria, di grande valore in un’isola ipersatura come Manhattan e sono, in alcuni casi, considerati estensione dello spazio domestico.
Ai giardini comunitari sono connesse le Greenstreets, le Sustainable streets (iniziative pubbliche, programmi per la mobilità “dolce”, riforestazione, microclima) e le urban rooftop farms, spazi riqualificati dove si coltivano ortaggi e piante sui tetti o in fabbriche dismesse, spesso aperti per il mercatino e per reclutare volontari (su tale azione si fonda, molto spesso, la gestione attiva dei luoghi, finanziati da attività produttive autogestite e da “donazioni” di sostegno). Oltre a tali siti distribuiti nell’intera Brooklyn, un progetto, che pur non avendo la medesima radice comunitaria, prevede una vasta rete di giardini, farms e piste ciclabili, si alimenta del ruolo delle Associazioni e degli abitanti, riguarda il recupero dell’estesissimo waterfront di Brooklyn (nel complesso 44 km). Tale progetto contempla, tra l’altro, la riqualificazione dei Brooklyn Navy Yard, i Cantieri Navali fondati nel 1801 e chiusi a metà degli anni ’60 del Novecento.
Pur essendo esterna ai 5 Distretti va citata una significativa operazione che riguarda un’ampia porzione di Long Island che è, da alcuni anni, fulcro di produzione di frutta e verdura, di ortaggi (es. zucche) ma soprattutto di vino. Nelle contee di Nassau e Suffolk, infatti, sono sorte numerose aree di produzione viti-vinicola che hanno dato l’avvio a un importantissimo indotto, a un incremento del comparto turistico, alla nascita di numerose realtà produttive, spesso a conduzione familiare, e a prestigiosi eventi e mostre d’arte.
L’agricoltura urbana esiste anche a Manhattan e riveste uno specifico interesse non solo per la conversione dei tetti o per il riutilizzo delle aree dismesse, che divengono luoghi dotati di valore ecologico, ma per il potenziale d’induzione di economie come i mercatini o i ristoranti Zero Mile Menu, Zero food-miles o ZERO-KM products (km 0), mostrando il passaggio di una porzione dell’economia newyorkese da industriale a postindustriale. Tra le Urban farm, una fondata nel 2011, è a Manhattan, a Battery Park, sede di attività sociali, di educazione all’ambiente.
Le Community Gardens, utili per comprendere la potenzialità rivoluzionaria e la consistenza di alcuni spazi verdi, mostrano come ci sia un’interazione tensiva tra le scelte del governo urbano, in continuità con le scelte del Capitale da un lato e, dall’altro con l’opposizione, la resistenza e l’autorganizzazione degli abitanti che – certamente favoriti da un Planning che orienta l’azione comunitaria verso la gestione e la redazione di progetti – contrastano sia la pressione speculativa, sia la rapidità soverchiante delle trasformazioni, attuando alternative anche in dissonanza con quanto previsto dalle figure istituzionali di governo e dai portatori di interesse che nelle città americane sono spessissimo e in modo esplicito promoters delle scelte urbanistiche. In tal caso i giardini o le farms hanno una funzione ecologica, economica, sociale, innescando una domanda/risposta, secondo un feedback tra input e output economici e sociali.
La partecipazione autoprodotta e storicizzata, almeno in alcuni quartieri, rappresenta un elemento chiave del sistema di “governo” urbano complessivo. In tal senso possono essere osservate le Community Gardens; esse attuano una progettualità che, se e quando recepita dalle autorità locali, attiva un feedback “civico-politico” (tra istituzioni e popolazione), rigenerando luoghi, creando farms e giardini, costruendo network, occasioni di lavoro, spazi focali dell’interazione sociale, che cementano la microcomunità, gli scambi, rafforzano la capacità di autorganizzarsi, di reagire, di produrre democrazia urbana, di realizzare “alternative” sostenibili anche ponendo in discussione la retorica di alcuni processi decisionali. Non è un caso che il fenomeno a Manhattan sia macroscopico in enclave come Lower East Side [4] e non solo per la presenza di latinos, come l’East Village (“casa” di liberal, progressisti e artisti) o Harlem, sede di risposta e di autorganizzazione comunitaria strutturata, quella nera, cui si aggiunge quella latinoamericana.
L’High Line
Nell’assetto degli spazi verdi è rilevante l’eterogeneità delle funzioni e delle tipologie edilizie, è considerevole il ruolo dei “movimenti” civici che hanno mosso reazioni e posto in discussione scelte politiche, a volte ripensate, ma sono rilevanti la trasformazione e la “porosità” che a NYC si esprime attraverso una mutazione continua delle funzioni (anche al di fuori del planning), degli spazi fisici, delle pratiche e delle azioni umane sul territorio.
Il progressivo e imprevedibile ridisegno della storia diviene più chiaro se si esplora la recente formazione del parco lineare – nato per iniziativa dei Friends of High Line (inizialmente due abitanti) [5], su una linea ferroviaria in disuso della West Side Line – l’High Line, tra le 11th e 34th Streets, sulla Lower West Side nei quartieri di Chelsea e Meatpacking, in prossimità del waterfront sull’Hudson River tra gli attuali focus della pianificazione ambientale dello Stato di NY.
Il Meatpacking District, ampio quartiere nella West Side di Manhattan, si affaccia sull’Hudson River, è prossimo a Gansevoort Street, a Chelsea caratterizzato dalla presenza di gallerie d’arte e da organizzazioni culturali e al West Village, ricco di case ottocentesche. In origine area di “scambio” dei nativi americani, un hub ante litteram localizzato sulla riva del fiume in prossimità dell’attuale Gansevoort Street (antica sede di stabilimenti per la lavorazione e stoccaggio della carne), il Meatpacking District iniziò a svilupparsi dal XIX secolo, con un modello viario irregolare, analogo a quello del Greenwich Village, e nettamente difforme da quello previsto dal Piano del 1811. Caratterizzato da continui ripensamenti, dall’insediamento di nuclei di Row houses intorno al 1840, da demolizioni di strutture difensive, come il Fort Gansevoort (edificato sul bordo del fiume, tra il 1808 e il 1812), l’area del riverfront, bordo del Meatpacking, fu qualificata dalla presenza di scali merci dell’Hudson River Railroad. Tale nodo, strategico per l’interconnessione con l’interno del Paese, influenzò fortemente lo sviluppo del quartiere in cui iniziarono a sorgere edifici destinati all’industria pesante e leggera, numerose distillerie, insieme a nuclei residenziali che, soprattutto post Civil War, furono abitati da un’ampia compagine di workers, impegnati negli stabilimenti siti in prossimità.
Nel 1880 furono impiantati due nuovi mercati sui vecchi scali merci dismessi che, insieme ad alcuni edifici in mattoni, utilizzati per lo stoccaggio della carne, pollame e per le transazioni di prodotti caseari, divennero il tessuto connettivo e produttivo del quartiere che ha ospitato circa 250 tra macelli e impianti di stoccaggio della carne (oggi in gran parte demoliti), testimonianza di un processo economico rafforzatosi durante gli anni ’20 del Novecento. Il Meatpacking, infatti, prima caratterizzato da mercati, centrò la propria attività produttiva sull’industria della carne e sull’indotto connesso, giungendo a un declino della componente produttiva ed economica solo tra il 1960 e il 1970, anni critici per NYC in cui iniziarono a manifestarsi degrado e decadimento.
La nascita del giardino dell’High Line, 2.3 km di lunghezza (375 HA), oggi tanto importante a NYC e noto in tutto il mondo, iniziò con un lungo processo, fino a diventare un modello virtuoso di attuazione e gestione. Icona urbana (lo era anche prima del recupero: Woody Allen ne mostra un frammento abbandonato nell’opening di Manhattan, uno dei suoi capolavori, del 1979), in una città dove le “icone” traboccano, l’High Line è un luogo aperto dove si coglie visivamente una sequenza storica della città, dove si respira e percepisce la presenza dell’Hudson River e dei suoi paesaggi da una prospettiva inusuale, protetta e aperta anche sul frontaliero New Jersey.
Il processo mirato al riuso iniziò intorno al 1990 e fu caratterizzato da una lenta rifunzionalizzazione che, culminando nella realizzazione e nell’apertura al pubblico (per steps successivi), mostra non solo la metamorfosi di un intero contesto, ma il ruolo attivo della Comunità nella trasformazione. Come spesso accade a NYC il congiunto luogo/spazio, fisico e sociale, si compone e ricompone alla confluenza di fatti, azioni (politiche, sociali, economiche) e processi non del tutto annunciati o previsti. Molte le vicende connesse, dal 1999 al 2006, eventi di differente natura entro cui si spese, pensò, agì un enorme numero di persone, movimenti, associazioni, istituzioni pubbliche e private che, convergendo verso una direzione, pur nella dissonanza di alcune intenzioni, portarono a compimento l’iniziale desiderio. Una molteplicità di azioni, relative alla mobilitazione comunitaria, alla tutela, come quelle portate avanti nel 2003 quando, dopo numerose battaglie condotte dai residenti, la Historic Preservation (GVSHP) con la New York City Landmarks Preservation Commission (LPC) incluse il quartiere nell’elenco degli Historic Districts.
L’High Line, dunque, viadotto sopraelevato co- struito in città durante gli anni ’30 – per il trasporto della carne [6] e per evitare che gli abitanti che transitavano a livello della strada fossero investiti – rende chiaro come a NYC la trasformazione fluida e non governata da strumenti rigidi di matrice pubblica, offra opportunità, inneschi trasformazioni fortissime, dinamiche di gentrification (usuali in città), non coattivamente controllate da interventi pubblici e fornisca, dunque, nel contempo, straordinarie occasioni di rivitalizzazione ed enormi rischi che in alcuni casi (in altri meno) sono arginati dalla capacità di resistenza della Comunità stessa che molto opportunamente considera parchi, waterfront, giardini urbani, spazi pubblici, così come alcuni servizi, un valore primario e soprattutto un diritto. La trasformazione urbana manifesta, così, elementi controversi e in forte contraddizione in un clima eccitante di battaglie e conflitti urbani.
Nel 1999 Rudy Giuliani (Sindaco dal 1° gennaio dal 1994 al 31 dicembre del 2001, suo successore sarà Michael Bloomberg) firmò un ordine di demolizione del viadotto (inizialmente la scelta fu sostenuta dalla comunità che temeva che la ferrovia abbandonata potesse attrarre microcriminalità), ma per comprendere la trasformazione della “linea” occorre pur sinteticamente osservare la struttura storica del contesto e le sue trasformazioni nel tempo.
In funzione dal 1934 al 1980, l’High Line fu un viadotto sopraelevato che consentiva il trasporto di carne, derrate alimentari, prodotti agricoli, dentro i magazzini, elementi e funzioni costitutivi del tessuto edilizio produttivo del quartiere. L’esigenza di costruire l’infrastruttura si manifestò intorno agli anni ’30 e fu realizzata grazie a un intervento misto, pubblico/privato, al fine di abolire il traffico dei treni e delle merci a livello del suolo. Tra il 1850 e il 1929, prima del viadotto, infatti, si intensificarono così tanto gli incidenti che la strada fu battezzata come Death Avenue e venne istituito una sorta di servizio di sicurezza, chiamato West Side Cowboys: uomini a cavallo che precedevano i treni e sventolavano bandiere rosse.
Nel 1929 dopo una lunga discussione pubblica la City e lo Stato di NY insieme alla New York Central Railroad elaborarono il progetto del viadotto, migliorando l’assetto della West Side, eliminando parecchi attraversamenti a livello della ferrovia e ampliando il Riverside Park (intero intervento per il quale furono investiti circa 150 mln di dollari, equivalenti a circa 2 miliardi di dollari attuali). La realizzazione fu imponente e impegnativa e solo nel 1934 si aprì la linea il cui tracciato sopraelevato, sfalsato – parallelo – rispetto alla strada, la 10th Avenue, attraversava l’interno degli edifici. Il viadotto era in diretta connessione con le fabbriche e i magazzini, per ragioni funzionali; ancor oggi il percorso del giardino lineare s’insinua all’interno di alcune costruzioni e attraversare l’High Line equivale a tuffarsi indietro nel tempo, osservando, come fosse una sorta di carotaggio storico, tra luce, cityscapes, sottili silos di mattoni rossi stretti tra edifici, gli interni intimi della città e il paesaggio, mentre sul background, o tra gli interstizi, appare New York, tortuosamente offerta, tra i varchi la luce morbida riflessa dall’acqua dell’Hudson River, alti edifici tra cui l’Empire State Building, alto sulla linea dell’orizzonte urbano.
Mentre la carne e i prodotti venivano scaricati senza causare danni a livello stradale, la città cresceva e il viadotto era una delle strutture produttive più forti dell’economia di New York; solo intorno al 1950 il traffico iniziò a subire una flessione e ciò condusse alla demolizione della sezione meridionale della High Line (l’interruzione si legge ancora adesso). La storia si concluse nel 1980 con un’ultima corsa, che decretò la chiusura della prima stagione produttiva: tre vagoni che trasportavano tacchini surgelati.
Negli anni successivi alcuni interventi, non troppo organizzati a livello comunitario, cercarono di salvaguardare l’intera struttura. Ma il punto di svolta avvenne nel 1999 quando Joshua David e Robert Hammond, residenti nel quartiere, fondarono un’Associazione, i Friends of the High Line, che intendeva trasformare il viadotto in uno spazio pubblico. Superando l’ordinanza di demolizione di Rudy Giuliani, il cambiamento del sindaco (dal 2001 diviene Mayor M. Bloomberg) e l’intensificarsi del dibattito sulla pianificazione urbana a NYC – in coincidenza con il 9/11 – iniziò a muoversi progettualità intorno al viadotto dismesso. Tra il 2001 e il 2002 fu condotta una ricerca per la promozione e divulgazione (Reclaming the High Line) e contestualmente si elaborò uno studio mirato al planning del riuso e della conservazione. Tra il 2002 e il 2003 l’Associazione dei Friends of the High Line guadagnò l’appoggio del City Council, anche elaborando un progetto finalizzato a comprovare la convenienza del recupero. Nel dicembre del 2002 e l’inizio del 2003, mentre le politiche urbane pubbliche erano oramai orientate verso il mantenimento, fu bandito il Concorso di idee: Designing the High Line, al quale partecipano 720 gruppi, da 36 paesi. Vinse il team di James Corner – un landscape architect – insieme a Diller Scofidio + Renfro, importante firm di architettura con specifica competenza in orticultura, ingegneria e manutenzione delle aree pubbliche. Nel 2005 un’esibizione al Museum of Modern Art (MoMA) mostrò al pubblico la progettazione preliminare, mentre le istituzioni (private e pubbliche) si adoperarono per negoziare il railbancking commerciale.
Nel novembre del 2005 la Municipalità acquisì a costo zero la proprietà dell’High Line dal CSX Transportation Incorporation, che donò la struttura. Con il progetto definito, e un accordo economico che prevedeva uno stanziamento da parte del Comune di 112 mln di dollari contro i 153 previsti (21 giunsero da fondi statali e federali; 20 furono reperiti dal Comitato dei Friends), iniziò la costruzione della prima sezione del giardino: con la rimozione dei detriti, la mappatura e la rimozione dei binari, in alcuni casi reinseriti nei percorsi. Operazioni seguite dal drenaggio, dalla sabbiatura degli elementi in acciaio e dall’edificazione dei punti di sosta, dalla realizzazione dell’impianto idrico e dell’illuminazione. Un processo che culminò nella progressiva apertura al pubblico dell’High Line (la prima parte nel 2009; la seconda nel 2011; la terza nel 2014), il giardino che utilizza un linguaggio minimale, valorizza le specie presenti (mantenendo anche, nel sistema della flora, quelle selezionate e che hanno specifiche caratteristiche di resistenza alla siccità e al freddo: alberi robusti come il sommacco e arbusti spontaneamente cresciuti) integrandole sino a comporre un sistema botanico che conta circa 210 specie diverse, apre lo sguardo a un orizzonte visivo e socialmente comunitario, invita all’attraversamento e alla sosta in uno dei giardini più seducenti di NYC.
La scelta del mantenimento delle specie presenti, alcune definite “infestanti”, ha alcune radici comunicabili, altre forse un po’ meno, più complesse e profonde, in relazione intima con la natura fortemente antropica di NYC. Durante uno degli innumerevoli dibattiti pubblici, Josh David pronunciando una semplice frase: «the landscape existed because nobody could go up there», rese manifesta una delle questioni più interessanti che ruotano intorno alla “seconda natura” (locuzione con cui viene, nella cultura classica, definito il Giardino). Cos’è il paesaggio? Esiste a prescindere o è frutto antropico? Sappiamo bene che il paesaggio contemporaneo, pur riconoscendone la condizione naturale, è nell’occhio, nella percezione – così ci ha insegnato A. von Humboldt – di chi lo guardi e lo abiti. Lo sguardo lo esplora, lo possiede. Se il giardino è la quintessenza del paesaggio urbano vissuto in cui persiste la Natura, come non mantenere, all’interno dell’High Line, ciò che la natura stessa aveva prodotto e conservato in anni di abbandono? L’High Line, dunque, luogo contemporaneo che chiude il proprio percorso con un teatro, un grande occhio aperto alla città, antropica, visibile, materica, contiene un ecosistema semi-naturale che per certi versi potrebbe fare a meno dell’intervento umano: la Natura resiste e pre-esiste, se così possiamo dire, a ogni brutale azione urbana. W. Emerson, forse, il più antiurbano tra i Trascendentalisti, ne sarebbe stato entusiasta, pur criticando gli effetti immobiliari indotti. Attualmente il Comitato, fondato da Joshua David e Robert Hammond, Friends of the High Line, gestisce il Parco, si occupa della manutenzione e continua a raccogliere soldi, con donazioni che hanno raggiunto, con un andamento incrementale, livelli cospicui (85 mln di dollari nel 2011).
Terminali del giardino sono: a sud il New Whitney Museum, la nuova sede del Whitney Museum of American Art, uno tra i più interessanti musei d’arte moderna newyorchesi, fondato nel 1931 dalla scultrice Gertrude Vanderbilt Whitney, dedicato alle opere di artisti americani, tra cui Edward Hopper e Alexander Calder. Prima a Midtown oggi occupa un grande edificio progettato da Renzo Piano, compatto e stereometrico, ma aperto al luminoso paesaggio della città, grazie alle sue terrazze che consentono di abbracciare lo skyline urbano; a nord, il grandissimo complesso di Hudson Yards, tra la 10th Avenue e la 12th e tra la 30th Street e la 34th Street, un insediamento in costruzione costituito da torri residenziali, uffici, negozi, spazi aperti, che sarà accessibile da un prolungamento della linea 7 della subway. Il più ampio investimento immobiliare negli States dal tempo del Rockefeller Center, un’enorme superficie edificata che sposterà l’asse urbano verso la West Side, modificando lo skyline percepibile e non solo dal New Jersey, cambiando i caratteri di un’area in questo momento ancora sgranata, porosa e ricca di spazi, sottoutilizzata secondo la logica speculativa. Tale progetto, casa di una rapace upper class, che saturerà aree che avrebbero potuto avere altra destinazione, consente di riflettere su quanto giardini e Real estate siano in diretta connessione.
L’High Line ha indotto e favorito modificazioni in tutta l’area, dalla riqualificazione di alcuni alloggi all’apertura di negozi e ristoranti, una discutibile gentrification (pro upper class, commuters, turisti), con un beneficio per l’economia urbana e soprattutto per una classe privilegiata, ma ha dotato la città di un luogo identitario riqualificando uno spazio dismesso e per anni dimenticato e celebrando l’attraversamento tra luoghi storicamente differenti.
La Storia: Central Park
Se il sistema dei giardini è in rapporto con il Piano del 1811 [7] per Manhattan che, non prevedendo nessun grande parco, fu ripensato quando fu realizzato il Central Park e quando iniziò a comparire il tessuto edificato, duro e potente degli skyscrapers, negli altri 4 Distretti si relaziona con l’intera morfologia urbana che contiene al proprio interno “pianeti” fisicamente e “politicamente” diversificati per etnia, cultura, identità, articolazione, azione sociale e racchiude aree non edificate, differenti per date di costruzione e per funzione. Uno per tutti il Prospect Park [8] a Brooklyn, disegnato da Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux dopo il completamento del progetto di Central Park.
In tal senso è interessante esplorare, anche se in sintesi, la “nascita” e l’evoluzione degli spazi verdi a NYC – intesi come i più eminenti “spazi pubblici” – in termini cronologici (a partire dalla totale cancellazione compiuta dai coloni olandesi sulla trama dei nativi americani), fino all’uso e la fruizione, privata a Manhattan solo a Gramercy Park [9], mettendo in relazione il governo urbano locale con gli esiti, fino a mostrare come le politiche urbane recenti promuovano farm, Greenstreets, roofgardens, più legate a una vision ecosostenibile e connessa al “clima” e al riciclo e alle azioni della Comunità.
La trasformazione delle aree verdi va messa in rapporto con le “regole” storiche dell’edificazione di Manhattan (pressoché integralmente eretta) che mostra come in origine il Grid del 1811 non presentasse né spazi pubblici, né spazi verdi se non minimi, su un tessuto omogeneo, indifferenziato, speculativo, neutro e senza centri. Un mood in cui la crescita urbana era ed è gestita o governata dai differenti gruppi (gruppi di potere, etnie come i latinos o gli afro-americani, etnie economiche, come i cinesi o gli ebrei o gli italiani). Soprattutto dai soggetti forti da sempre attori della pianificazione nelle città americane, si pensi a La Salle Street a Chicago.
Dopo il 1811, data del Plan dei Commissioners, la storia di NYC prosegue coerentemente, con la densificazione di un tessuto edilizio che in alcuni ambiti, come Midtown, già nel primo trentennio del Novecento divenne “città” di skyscrapers che, per le funzioni allocate (imprese, finanza, Holdings, Companies, Insurances) non ospitavano, se non riguardo alla upper class, alcuna funzione residenziale Qui, con esclusione del Central Park (il cui bordo sud coincide con la 59th Street), le aree verdi hanno un ruolo decorativo, spartitraffico come nella più larga Park Avenue (copertura del tunnel), o si presentano successivamente in altra forma, come le terrazze giardino, di Lever House Building, figlia dello Zoning della fine degli anni ’50.
In questo “disegno” di sedimenti, sovrapposizioni, riscritture, fratture, pochi spazi verdi, come Central Park, hanno una grande storia a sé, che sempre “lavora” in tandem con la rendita edilizia e con quella di posizione (si pensi agli edifici sul Park, primo tra tutti il Dakota Building, voluto dal magnate della Singer nel 1880, quando la grande area verde del Central Park era ancora “giovane”).
Quando fu edificato il Dakota (1884), infatti, l’area di Upper West Side era ancora rurale e l’edificio inaugurò un capitolo del Real estate newyorchese che si avvantaggiò della presenza del Parco, ombelico urbano dal ruolo economico e iconico. Intorno a esso, nel tempo, sorsero numerosi edifici, tra cui il San Remo del 1929, mentre alcune porzioni stradali, come il Museum Mile sulla Fifth Avenue, acquisirono una precisa identità; il “Parco del popolo” come fu definito, a volte protetto strenuamente, produsse ricchezza e lusso per l’alta finanza: basti ricordare lo scritto accorato di F. L. Olmsted, The Spoils of the Park, in cui il paesaggista difende la propria creatura mettendo in evidenza, oltre alle questioni economiche, e a quelle connesse all’uso, le tensioni esistenti tra la filosofia del progetto, l’opera di A. H. Green, le pressioni speculative e le azioni di sottogoverno dei bosses.
Il Capitale, cuneo attivo del sistema, è generatore di una spinta che acquisisce forza e vitalità tramite competizione e differenziazione economica che, però, in America non ha il sapore marxista della lotta di classe. La componente sociale e la capacità di “fare” a NYC (come in altre città statunitensi) a differenza di quanto accade in Italia in cui il concetto di Comunità mostra i propri limiti pratici e la propria grandezza teorica, generano di contro una mobile biforcazione tensiva tra il mondo dei portatori di interesse e quello degli abitanti delle middle o working class, “armati” di abilità rivendicative e coscienza sociale. La presenza dei giardini è denotativa: pur non essendo contenuti in alcun Piano (e forse proprio per questo) essi si configurano come rappresentazione, a volte come retorica di potere, altre volte di un contropotere dinamico che, forte di un’organizzazione interna della “base”, attiva certezza del diritto, coesione associativa tra le varie etnie, producendo non solo resistenza, ma pratiche e “oggetti” urbani significanti, un positive real thinking, un disequilibrio vitale opposto alla sperequazione.
Se gli skyscrapers sono di matrice speculativa e capitalista, spesso originati da iniziative individuali, a volte legati a dinamiche “culturali”, il verde, a NYC, è in gran parte “popolare”, “comunitario”; anche Central Park – che come giustamente nota Henry James nel 1907 (in The American Scene) [10], ha una «remarkable little history» – lo è. Pur originando da un movimento di intellettuali e dall’intervento di “attori”, tra cui il Boss Tweed, può affermarsi che il parco nacque da un’iniziativa bottom-up, forte abbastanza per influire sulle dinamiche del Real estate e controbilanciare i processi che favorirono la upper class.
Le ragioni furono e sono innumerevoli, alcune riguardano la “natura” del Piano del 1811; il diverso rapporto con la storia (le preesistenze, infatti, non sono considerate come un reale valore, tranne che in forza della Landmarks Preservation Law del 1965) [11], la tipologia dei giardini newyorchesi che, a differenza del verde delle città italiane, non origina dal mantenimento e dalla trasformazione di un modello spesso ascrivibile al tipo aristocratico privato. In aggiunta si può affermare che il verde a Manhattan non germini dalla trasformazione dei coltivi extramoenia, ma nasca direttamente come input civico o strumentale alla vitalità del sistema, in simultaneità con l’urbanizzazione o per trasformazioni successive.
L’azione individuale e la matrice collettiva come input dei progetti e di alcuni orientamenti culturali, hanno entrambe radici storiche. Andrew Haswell Green (1820-1903) avvocato e legislatore, fu tra le figure chiave nella complessa articolazione della città e nel sistema degli spazi verdi. Tra gli artefici della “fusione” dei 5 Distretti (il “consolidamento” dei “Five Boroughs” uniti nella “The Greater New York”) nel 1898, A. H. Green fu protagonista di numerose iniziative legate all’educazione, da quella legata alla creazione della New York Public Library grazie anche alla donazione di S. Tilden, suo mentore per gli studi legali, a progetti come quello del Bronx Zoo. Dal 1858 al 1871 A. H. Green fece parte del Central Park Board of Commissioners, esautorando più volte F. L. Olmsted (anche al fine di accelerare la costruzione del Central Park), opponendosi, tra l’altro, al clientelismo politico e alle azioni del “sottogoverno” dei bosses. Questione delicata, complessa, che necessita un chiarimento.
Nelle grandi città americane, come Chicago o NYC, alcune organizzazioni di partito (come Tammany Hall, del Partito Democratico, una sorta di leggendaria macchina politica che svolse un ruolo di primo piano dalla metà del XIX secolo al 1960) ebbero un ruolo molto forte anche per quanto attiene l’integrazione degli immigrati, appena giunti, che costituivano il nucleo solido ed esteso dei futuri cittadini e la forza lavoro che consentì alla città di dotarsi di ponti, edifici, infrastrutture e “giardini”. In America, anche prima della Guerra Civile, tra il 1846 e il 1855 ne giunsero milioni. Troppo poveri per muoversi verso l’interno del Paese si fermavano tra New York, Boston e Philadelphia. Alcuni leader politici rappresentarono pienamente la deriva della prassi connessa all’accoglienza, all’integrazione e alla costruzione di un contesto urbano democratico, modellando il proprio intervento e facendolo virare verso una gestione delle masse (gestione del voto; del lavoro, ecc.), una gestione personalistica del potere politico, trasformato in una macchina corrotta dell’illegalità. In tale milieu, sociale ed economico, emerge la figura del Boss [12] che, oltre ad appartenere, spesso, a una compagine partitica, esprimeva il proprio deviato e ovviamente antidemocratico potere anche in altri strati della struttura sociale, ad esempio tra i gruppi etnici (irlandesi; italiani; tedeschi; cinesi; russi; polacchi).
Conosciuto per un management un po’ dittatoriale e una gestione oculata dei fondi, di contro, A. H. Green, che si opponeva alla macchina illegale dei bosses e al controllo altrettanto illegale del mercato del lavoro, pensò a una sorta di pianificazione complessiva della città, la Greater New York che fu concepita anche per tali ragioni. Il suo intervento riguardò alcuni Parchi, visti in una visione transcalare e multisettoriale: la 155th Street sino a Harlem River; il Morningside Park; la Riverside (lungo waterfront scenografico in Upper West Side); il Fort Washington Park. Non solo attivo nell’ambito della pianificazione e del sistema storico del verde, A. H. Green fu promoter nel 1894 del primo gruppo formale di conservazione, emergente in quegli anni – che si oppose alla demolizione dell’edificio di City Hall – The America Scenic and Historic Preservation Society.
Il Central Park – legato anche all’apporto di A. H. Green – è forse l’unico oggetto urbano realmente pianificato a NYC e origina da alcune convergenze ed esigenze: produrre reddito, consentire ai poveri di godere di aria e luce, dotare le classi abbienti di un ulteriore luogo per mostrare la propria opulenza, promuovere interessi commerciali (secondo un complesso sistema di valutazione costi/benefici) [13], rallentare lo sviluppo commerciale, migliorare la salute pubblica, costruire consenso politico, incrementare posti di lavoro. Il Parco, infatti, fu tra i più costosi e competitivi investimenti immobiliari degli Stati Uniti, certamente il più alto investimento della Città, prima della Civil War e il più imponente “oggetto” urbano antropico mai edificato a Manhattan.
L’esplosione demografica e della città, durante la prima metà dell’Ottocento, rese necessaria la progettazione di uno spazio verde, e tale bisogno fu veicolato dall’Evening Post (un importante Newspaper) e soprattutto da William Cullen Bryant [14], poeta e Direttore del giornale che, dal 1844, insieme al primo giovane architetto paesaggista americano, Andrew Jackson Downing (e al suo giornale, The Horticulturalist, dove si definiva il Parco «People’s Park»), portò avanti una campagna pro parco.
Prescindendo dalle questioni teoriche connesse al giardino e alle sue matrici formali che porterebbero altrove, nel giugno del 1853, lo Stato di New York autorizzò la costruzione di due grandi parchi pubblici, ma nel 1854 annullò la direttiva, affermando che Central Park da solo sarebbe stato il giardino pubblico di New York. Nel 1854, dunque, il Comune – dopo un tentativo abortito di trasformare una storica farm, tra l’East River e la Third Avenue, tra le 66th e 75th Streets, conosciuta come Jones’s Wood – acquistò circa 3 kmq di terra dissestata e paludosa, tra avvallamenti e massi rocciosi (questi ultimi fascinosa parte costitutiva del “disegno” di Olmsted e Vaux), descritta sul Post come dreary wasteland. Quella zona fu destinata a Parco anche perché di minore valore immobiliare, abitata da neri, da poveri e allevatori di maiali che vivevano in baracche.
Difficile sintetizzare in poche battute la storia, fatta di scelte, di decisioni, del Concorso (e del Greensward Plan, il progetto del Parco con cui Olmsted e Vaux lo vinsero), delle modalità di divulgazione del progetto (attraverso l’organizzazione di una mostra aperta al pubblico), dell’attribuzione degli incarichi di supervisione (alla Central Park Commission), degli ostacoli tecnici (il suolo granitico, roccioso, la necessità di far arrivare terra dal New Jersey) e il senso che Central Park (o Prospect Park) abbia avuto e abbia tutt’ora, a NYC. È impossibile, però, per comprenderne, anche solo parzialmente, il valore, prescindere dal modello di Piano che diresse lo sviluppo della città. Il Plan del 1811, infatti, non ha alcuna velleità riformista, non contiene un’idea, non è uno strumento urbanistico, non ha una filosofia che non sia quella pragmatica dell’espansione organizzata. Il Commissioners’ Plan è una partizione matematica a terra, una suddivisione geometrica del suolo. Nulla a che vedere con i modelli ideali di altre città europee, come Barcellona, o con gli intenti monumentali di città alcune americane, come Washington D.C..
Il tessuto del Piano del 1811 non controlla, ma contraddistingue lotti regolari disegnandoli, con una ridefinizione, in corso d’opera, attraverso la successiva divisione in parti che segmentano ulte- riormente il lotto e determinano, in alzato, esiti non prefigurati, secondo un andamento che si va sviluppando in base al mercato immobiliare, alle scelte economiche, alle opportunità offerte dalle tecniche costruttive, ai movimenti civici, alle iniziative individuali e alle scelte politiche quasi sempre e comunque connesse all’economia urbana e in base alla crescita esponenziale della città, che già tra il 1821 e il 1855 aveva quadruplicato la propria popolazione [15].
Quando la New York Legislature, nel 1807, nomina i tre Commissioners – e non si tratta di urbanisti – che hanno l’incarico di elaborare un “piano” che determini un sistema attivo a scala urbana, che definisce da Downtown a nord l’assetto dell’intero territorio dell’Isola di Manhattan, non esiste alcuna intenzione di dotare la città di un Parco pubblico. Ribaltando il legame stretto che sosteneva la pianificazione in Europa, dove il logos era anteposto all’azione, New York cassa il logos o qualunque filosofica argomentazione, celebrando l’azione che è quella di garantire la rapidità dell’espansione urbana.
Se Edith Wharton e Henry James criticano il Piano del 1811, definendolo come «deadly uniformity of mean ugliness», «primal topographic curse», mentre Walt Whitman, ne denuncia apertamente la struttura, affermando che «streets cutting each other at right angles (…) are certainly the last thing in the world consistent with beauty of situation»[16], Olmsted e Vaux mirano a riequilibrare la relazione interrotta tra uomo e natura, non secondo la visione antiurbana di alcuni Trascendentalisti, ma con intenti più vicini agli Utopisti europei, dotando la città di un’altra intenzione e di un’altra idea. Il disegno di entrambi i Parchi (Central e Prospect, a Brooklyn), sebbene con esiti figurativi e impatti diversi, intende restituire un’immagine sostanziale alla città: scenari pastorali, tappeti erbosi, rapporto intimo tra la mente e il paesaggio, gruppi di alberi; tali affermazioni – che trovano la sintesi in un entusiasmante concetto: «Landscape into Cityscape» – tratte dagli scritti di Olmsted, mostrano come la vis riformista passi anche attraverso la ricostituzione della veduta esplorata dallo sguardo – il paesaggio così come Humboldt lo aveva concepito – “prima” della città, aggiungendo a quella veduta la sostanza politica che il paesaggio humboldtiano ancora non possedeva: il Parco è, infatti, un potente strumento della democrazia e dell’eguaglianza che inaugura pienamente a NYC uno spazio d’altra natura, quello sociale.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] Aggettivo che merita una precisazione: a dispetto della compattezza, densità, pregnanza materica, consistenza, New York City è porosa. Si trasforma, cambia, distrugge, riedifica, satura, apre. Inaugura quadridimensionali cityscapes (alla terza dimensione occorre aggiungere la quarta, il Tempo), prospettive aperte, strettoie visive, sorprendenti a dispetto della maglia ortogonale di un’ampia parte di Manhattan, disciplinata a terra dal Grid del 1811. Il tessuto è attraversabile, tortuoso, diagonale. Poroso. Un attributo che, forse ammiccando ad altre storiche porosità europee (W. Benjamin e A. Lacis a Napoli), vuole testimoniare una delle più belle qualità di NYC, che sfugge e si sottrae alla definizione dei parametri dimensionali dello standard.
[2] Ridisegnato nel 1870 da M.A. Kellogg, ingegnere capo del Department of Public Parks, e da I.A. Pilat, Landscape Gardener, seguendo i principi di Olmsted, Washington Park, terminale della Fifth Avenue, è un potente cannocchiale ottico che inquadra l’Empire State Building.
[3] Uno è il Master Plan per Fresh Kills Landfill a Staten Island (2001–2006), partner il Department of Parks & Recreation, redattore del Piano, su materiali consegnati post nomina di un amministratore del Fresh Kills Landfill Park. Il MP riconverte la discarica, voluta in origine da Robert Moses, in un esteso parco attrezzato di 890 ha.
[4] Un’ampia porzione di Lower East Side tra Houston Street e la Bowery (intorno a Delancey Street, un asse importante anche perché in prosecuzione con la “bocca” del Williamsburg Bridge) è abitata anche dalla comunità cinese che ha molte imprese a conduzione familiare (ristoranti, rivendite, negozi, ecc.) anche per la prossimità con Chinatown. la Comunità cinese, coesa e spesso impenetrabile, non spicca, a differenza dei latino-americani e degli afro-americani, per azioni riconducibili alla Community-based planning indirizzata verso risultati comuni, pur esistendo gruppi come il Chinatown Working Group (fondato nel 2008) che include vari stakeholders cinesi.
[5] Oggi un nutrito gruppo di soggetti che si autodefinisce: The non-profit caretakers (custodi; guardiani) of the High Line; il team, tra l’altro, reperisce il 98% del budget necessario per la manutenzione del parco.
[6] La carne giungeva da Chicago a NYC via Erie Canal, il lungo canale navigabile aperto nel 1825 che indusse e favorì il cambiamento degli equilibri economici e commerciali potenziando enormemente il ruolo di New York.
[7] Il Piano del 1811, The Commissioners’ Plan, è lo “strumento” urbano – atipico rispetto ai piani europei e comunque diverso anche da alcuni piani americani (es. quello del 1791-92 per Washington D.C – che, agganciandosi al sistema sviluppato precedentemente, tracciò una maglia ortogonale sul suolo di Manhattan.
[8] Progettato e costruito, con alcune interruzioni, in circa un trentennio (dal 1865 al 1895), il Prospect Park origina da un primo input, un Atto del 18 aprile del 1859, della New York State Legislature, che istituisce una Commissione (di 12 membri) per la scelta dei luoghi per l’edificazione di alcuni parchi nella “città” di Brooklyn. Già prima del “consolidamento” del 1898 e prima della costruzione del Brooklyn Bridge (1883) Brooklyn, era diventato il più popoloso e vasto “sobborgo” in cui abitavano un’enorme quantità di pendolari che lavorava soprattutto a Manhattan (Brooklyn, infatti, era la terza città del Paese, dopo New York e Philadelphia). Come accaduto a Manhattan con il Central Park, il Prospect – promosso da James S. T. Stranahan, altro esponente chiave della vita politica e amministrativa di NY e soprattutto di Brooklyn – si pone, nelle intenzioni di alcuni amministratori e dei progettisti, come luogo trasversale, vissuto dall’intera popolazione, pur consapevoli che avrebbe attratto, a Brooklyn, anche una categoria abbiente, influenzando le dinamiche del Real estate. Entro la fine del 1860 il terreno fu acquistato, ma la Civil War rallentò la costruzione del grande parco. Ciò nonostante il Prospect aprì al pubblico il 19 ottobre 1867, quando era ancora in costruzione. In seguito i lavori proseguirono sino al 1873, quando il Parco fu pressoché completato.
[9] Primo Parco a Manhattan (0.81 HA, quadrangolare), di esclusivo uso privato (alcuni tra i residenti), realizzato tra il 1831 e il 1839, su una farm, tra le 20th e 21th Streets, è uno spazio poco permeabile ed è un fulcro morfologico da cui si diparte la Lexington Avenue.
[10] Un “travel writing” scritto da H. James, relativo a un viaggio negli Stati Uniti, condotto tra il 1904 e il 1905. Dieci dei 14 capitoli furono pubblicati in riviste come: North American Review (una rivista letteraria americana); Harper’s (un magazine americano di politica, letteratura e arte) e The Fortnightly Review (un magazine inglese). Il libro fu pubblicato nel 1907 in due versioni, assai differenti, una pubblicata in Inghilterra e una editata negli Stati Uniti.
[11] In seguito alla demolizione della Penn Station un gruppo di attivisti, di intellettuali e di persone promossero un movimento che portò avanti una battaglia che, nel 1965, due anni dopo la distruzione dell’importante stazione storica (dei primi del Novecento), portò all’emanazione della legge. Il suo fine è quello di proteggere monumenti storici (che abbiano più di 30 anni) e quartieri dalla demolizione o da modifiche sostanziali. La legge sancisce anche una Commissione permanente, la New York City Landmarks Preservation Commission che, inoltre, designa i Landmarks, i Landmark site, e gli Historic Districts.
[12] A NYC, William Tweed, noto come Boss Tweed, capo della Tammany Hall, durante il XIX secolo, ebbe un ruolo cardine nella trasformazione della città. Figlio di un fabbricante irlandese di sedie, al culmine della sua carriera politica, prima del tracollo, era il terzo tra i proprietari terrieri a New York, proprietario della Erie Railway, della Tenth National Bank, della New York Printing Company, e titolare del Metropolitan Hotel. Eletto alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti nel 1852 e nel Consiglio Comunale nel 1856, periodo in cui venne varato il progetto del Central Park (riguardo al quale Tweed ebbe ruolo di promoter). Nel 1858 divenne il Grand Sachem (locuzione utilizzata dai nativi americani per indicare il capo, investito di un ruolo sacro e quasi da guru) di Tammany Hall; nel 1867 fu eletto al Senato dello Stato di New York. Il Boss venne condannato per aver rubato tra i 40 e i 200 milioni di dollari (in base al tasso di inflazione o svalutazione dal 1870 del 2,7%, l’importo oscilla tra 1,5 e 8 miliardi di dollari del 2010) dei contribuenti di New York City, e concluse i suoi giorni recluso nel carcere federale di Ludlow Street a New York.
[13] La realizzazione del Central Park, con un’apparente contraddizione (eliminando spazio edificabile in un’Isola in cui il suolo era esiguo e l’incremento demografico inimmaginabile: 341 HA. N.b. Hyde Park a Londra e il Bois de Boulogne a Parigi misurano rispettivamente 253 HA e 846 HA) sottrasse un enorme numero di lotti ai proprietari (espropriati tramite l’Eminent Domain), cancellò un paesaggio urbano abitato da migranti soprattutto irlandesi, tedeschi e afroamericani, cambiò sostanzialmente l’equilibrio del mercato immobiliare, agendo, quindi, come mai prima a NYC, e mai dopo, sulle dinamiche del Real estate, soprattutto a media distanza dall’apertura del Parco, generando esiti che sono ancora permanenti, inaugurati come già detto, dall’edificazione del Dakota Building.
[14] Il ruolo di William Cullen Bryant (1794-1878), capo redattore e Direttore del New York Evening Post sino al 1878 (iniziò a collaborare nel 1826, assumendo poi maggiori responsabilità), fu di primo piano. Non solo per aver promosso il Central Park, ma per aver condotto un’azione riformista che si opponeva con forza allo sviluppo urbano incontrollato e agli effetti sociali di esso. Il suo ruolo va sottolineato non solo per aver promosso Musei pubblici o Biblioteche accessibili a tutti. Ma per aver, massivamente, portato avanti una riflessione sul nodo, fortemente eluso a New York (e prima del consolidamento del 1898), della “pianificazione” urbana.
[15] Alla fine del XVIII secolo gli abitanti erano circa 30.000, nel 1800 erano raddoppiati, nel 1820 si contarono oltre 120.000 abitanti e nel 1850 si oltrepassò la soglia delle 500.000 unità (dati relativi alla fase precedente al consolidamento del 1898, quando il censimento iniziò a essere conteggiato sui 5 Distretti).
[16] «Uniformità mortale di media bruttezza»; «primordiale maledizione topografica»; «strade tagliate ad angolo retto (…) sono sicuramente l’ultima cosa al mondo compatibile con la bellezza di un contesto».
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Flavia Schiavo, docente di Fondamenti di urbanistica e della Pianificazione territoriale presso l’Università di Palermo, ha pubblicato saggi, monografie e articoli su riviste nazionali e internazionali. Conduce attività didattica e di ricerca in Italia, Europa e America del Nord, dove è stata visiting presso la Columbia University. Tra le sue pubblicazioni, Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto (Sellerio 2004); Tutti i nomi di Barcellona. Il linguaggio urbanistico (F. Angeli 2005).
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