«Fa più vittime l’imbecillità umana del terremoto di Messina»
(Daniele Ciprì e Franco Maresco, ne Il ritorno di Cagliostro)
Naufraghi in Terra Madre
Da un corpus in cui è impossibile distinguere i luoghi dalle persone e dalle loro storie, corpus costituito dai corti, dai film, dai frammenti di Ciprì e Maresco, emerge una Palermo altra – sommersa ed esplosa, rappresentata da intrecci viscerali e deliranti.
Se le fonti “non convenzionali”, tra cui letteratura e cinema, contengono in sé un grande portato di senso e offrono una chiave di lettura che le analisi ortodosse, proprie delle discipline territoriali, non consentono, può affermarsi che cercare le immagini del territorio siciliano e palermitano, percorrendo la strada tortuosa del cinema di Maresco e Ciprì, non è agevole. Prevede infatti uno sforzo emozionale. Sia per il dover guardare un racconto complesso e derubricante, a volte dichiaratamente criptico e soggettivo, che contiene un “sotto testo”, tale da irretire e confondere, sia per l’utilizzo inquietante della “comicità” e della satira spietata.
Nel cinema di Ciprì e Maresco, dove si negano le categorie consuete che spiegano e definiscono, si traccia in un modo diverso la mappa degli errori (sociali, politici, esistenziali), delle dispersioni, delle “distrazioni”, dei mondi smarriti e delle occasioni perdute, si elaborano pensieri sui luoghi, sulle politiche, sulle “pratiche sociali”, ricostruendo una micro-storia paradossale, ma altamente rappresentativa di una porzione significativa del reale.
Si dà, inoltre, uno scossone al “sonno dogmatico” della descrizione urbana e territoriale [1], non progettando una cartografia o un racconto di spazi “attraversati”, ma componendo un universo contraddittorio che “costringe” a guardare ciò che è abitualmente celato e a suggerire interpretazioni originali. Negando, con sottile e apparente “crudeltà”, non i valori, ma alcuni tra gli stereotipi retorici (storici), abituali fulcri descrittivi e identificativi della Regione, delle città mediterranee e di Palermo, attraverso un traslato immaginativo indiretto, spesso “ipertrofico”, sempre straniante.
L’intera opera dei due cineasti istituisce e utilizza, allora, un “codice di trasgressione” delle figure tradizionali di città, di paesaggio e delle “pratiche sociali”, mettendo a fuoco l’imago urbis e l’imago gentis, con un intreccio che restituisce indirettamente la complessità raccontata.
La produzione di corti e film (non gli unici generi con cui Ciprì e Maresco si sono misurati) abbraccia un tempo lungo, compreso tra il 1986 circa e il 2007, anno segnato dalla loro separazione. I due registi, pur nel forte scambio reciproco, ebbero un ruolo complementare: Ciprì fu soprattutto “autore” della luce (della presa, dell’inquadratura, della fotografia), della grana del bianco e nero netto e cristallino, cupo e denso; mentre Maresco fu più riconosciuto “artefice” dell’universo teorico, sulla scorta sia di un’istintiva “genialità”, sia dell’amore per certi riferimenti letterari e musicali, oltre che cinematografici, spesso esplicitamente citati, tra essi: Ford, Kubrick, Scorsese, Coppola, Hawks, Walsh, Wellman, Keaton, Mann, i Marx, Martone, De Sica [2].
In questo universo complesso anche l’uso intenzionale del bianco e nero [3], che contraddistingue i corti e numerosi lungometraggi – e definito «bruciato» da Maresco (Ciprì e Maresco, 1995) – esprime quella «rarefazione che cercavamo nel raccontare una Palermo diversa da quella della cronaca» (ibidem). Per comprenderne questa “poetica” sono significative, oltre alla visione diretta dei film, gli apparati critici elaborati sull’intero corpus (vd. Fofi, 2008) e le interviste ai due Autori, lucide “confessioni” utili per capire il rapporto tra l’immagine filmica e il concetto di città che essi esprimono. Maresco (cit. in Morreale, 2003), afferma:
«Palermo è una città molto cambiata (…) che non ha più fascino proprio dal punto di vista fisico. E poi è una città che non ti dà più stimoli, l’umanità che a noi interessa è sempre più in via di estinzione, assimilata, contaminata. Se tu vai in giro vedi una città che sta cambiando in peggio, con una serie di opere di restauro che hanno completamente cancellato dai muri la memoria, sembra una specie di Cinecittà di compensato. Il mio amore per questa città è solo nella memoria».
Testimonianza dai contenuti lugubri da cui emerge il rapporto con il cambiamento e con il senso attribuito ai luoghi, parole che evidenziano il legame tensivo tra memoria e innovazione, tra permanenza e modificazione, mettendo in diretta relazione la città e gli abitanti scelti come protagonisti, un’umanità plurale, spesso marginale. Oltre il respiro generale, la notazione di Maresco sugli esiti del “restauro” (e soprattutto della ricerca sui metodi e sul sistema di regole e procedure da seguire), poco praticato per decenni (tranne che per una specifica parentesi orlandiana), e poi orientato a semplificare o cancellare i caratteri ibridi e complessi delle architetture palermitane [4], consente di specificare come sia espresso, nell’intera opera, il tempo urbano e sociale.
Cos’è la memoria? Cos’è il tempo? Rappresentato quasi in termini bergsoniani esso è inteso come una sostanza meticcia e mutevole in cui immergersi. Un tempo sincronico e non lineare, statico solo in apparenza, oscuramente caotico che investe e corrompe uomini e luoghi inserendoli in una solidità fluente: il passato, che fa corpo unico con il presente e con il futuro in arrivo.
Non si manifesta una “semplice” nostalgia, riferita a un tempo perduto o a un momento cronologicamente definito. Non si auspica un estetico mantenimento della rovina, evocando il fascino segreto del ruinismo di matrice settecentesca o celebrando la seduzione del disfacimento o del délabré, altro bizzarro e urtante luogo comune della mediterraneità e di una certa rozza borghesia locale. Quanto piuttosto si intende segnare uno dei nodi insiti al rapporto tra persone e luoghi, attraverso il disfacimento come metafora: le incisioni visibili e invisibili della storia, il conflitto tra le cose e tra le categorie sociali, le sospensioni delle esistenze per mancanza di governo e di consapevolezza da parte della popolazione, che vive, in parte costretta, in parte adattata, in un mondo di “scarti”, di “detriti” e di “retri”. Essi con la loro consistenza slabbrata restituiscono la qualità degli eventi accaduti, suggerendo un’idea tragica della trasformazione urbana e del mondo. Non vengono fornite o indicate soluzioni, come nell’opera di Pasolini, ma viene tracciato un palinsesto che esprime rabbia, turbamento e una contraddittoria disillusione.
Sono, molto spesso, evidenziati due “corpi” visibili dell’urbano palermitano: il centro storico e la “periferia”. Scelti in quanto luoghi in cui si colgono e agglutinano gli umori foschi e i liquami del paesaggio urbano contemporaneo palermitano. Luoghi poco esposti, quasi appartenessero a patologiche porzioni del “ventre” cavo di Palermo. Viceversa è assente la città ottocentesca e novecentesca, se non per le aree dismesse, trattate come relitto sociale, teatro dei guasti economici perpetrati, che in Sicilia hanno proposto – soprattutto a partire dagli anni ’50 – uno sviluppo distruttivo, lontano dai luoghi e dalle persone.
Tra questi “avanzi” urbani, l’ex Fabbrica di mattoni alla Bandita, l’ex deposito dell’Aeronautica militare in via Oreto, l’ex Deposito locomotive a Sant’Erasmo (oggi recuperato). L’archeologia industriale, topos della retorica della riqualificazione, dunque è presente soprattutto per “residui” morti che a volte possiedono una sorta di affinità storica con i fossili di animali estinti, come il “gasometro” vicino all’Orto botanico (nei “corti” di Cinico TV, in Incertamente, o nel film, Lo zio di Brooklyn). Tra le “aree dismesse” una – atipica – è l’area dell’Oreto. Fiume negato e rimosso, in una città fondata tra due fiumi (poi ipogei), irreggimentato e ridotto a canale di scolo, pozzanghera, acqua morta. Presente in numerosi corti, medi e lungo metraggi e onnipresente in Totò che visse due volte, film del 1998.
I frammenti e i quadri visuali che rimandano talvolta ad alcuni pittori della prima metà del Novecento, denunciano comunque un distacco dalla città edificata tra ‘800 e ‘900, la città borghese omologata a un modello globalizzato. A questo proposito Maresco afferma (cit. in Morreale, 2003):
«Palermo non ha più nemmeno le rovine. Esteticamente è un orrore. Una volta c’erano da un lato quartieri e rovine, e una Palermo borghese schifosa dall’altro. Ora è una Milano 3 in cui dilaga una mentalità manageriale, nel senso dell’arraffare i soldi dalla Comunità Europea».
Antropologi “per caso”, Ciprì e Maresco, parlano del legame tra il ricordo e l’oblio, un bipolo inscindibile (cfr. Freud, 1984), tra l’appartenenza e la fuga, parlano di persone, ma soprattutto di città corrose da catastrofi lentissime. Rievocano il disastro della colonizzazione, i poveri, la loro condizione descritta come surreale e “onirica”. Mostrano le decadenze, l’alienazione e la dignità di luoghi e abitanti.
Le “pietre” così raffigurate rivelano più delle denunce esplicite del cinema sociale. Come suggerisce Maresco (cit. in Morreale, 2003), «si avvertiva una forza, una forza nelle pietre, nei minerali, nella città». Muri scrostati, aree dismesse, sfabbricidi, superfici di mattoni spezzati, cumuli di terra che divengono colli artificiali (i “mammelloni” della Palermo sud, location di molti “corti”, scelti anche per via del mare remotamente presente, rifratto nelle nuvole), brandelli irrisolti e dissoluzione del confine, dicono di una contemporaneità rarefatta, sottrattiva, astrattamente raccontata, quasi senza durata, eterna: uno stridente contraltare alle visioni estetizzanti, una fosca “Wunderkammer” locale.
Nel cinema di Ciprì e Maresco gli “scarti umani e urbani”, non sono solo semplici reietti, quanto frammenti di memoria. Una reminiscenza in cui coesistono sincronicamente presente, passato e futuro. Un tempo torbido in cui le disperazioni personali si incrociano con le disperazioni dei luoghi, senza risoluzione. Disperazioni sospese quasi decontestualizzate dal racconto che, spesso, elude qualunque trama. Sia nei corti che nei film, infatti, sovente manca la storia intesa in senso classico, la conclusione, la catarsi, mentre tramite il grottesco, l’ironia, la comicità “ingannatrice”, si svicola dal labirinto e si permane, prigionieri, nello stesso, come se nulla possa cambiare, con un “linguaggio” rude, ma che ha il ritmo e la “grazia” di alcune auliche scritture letterarie e cinematografiche.
Va sottolineato che il metodo narrativo di Ciprì e Maresco è differente a seconda che si tratti di corti, medio o lungo metraggi. I “corti” sono fortemente sintetici, in certi casi lapidari, mentre i film, come dice limpidamente Fofi (2008), «sono proditoriamente dispersivi, intrecciano suggestioni tra le più disparate, citano e negano». In quest’ondeggiante magma, che sempre Fofi definisce caratterizzato da una impronta metafisica, forse “metaforica”, la città e il territorio (uomini e luoghi) emergono descritti con una coerenza e una logicità che, insieme, urta e intellettualmente commuove.
Cinico TV, un programma andato in onda su Rai Tre [5] dall’aprile del ’92 sino al ’96, rappresentò in un certo senso l’incipit della larga diffusione dei “corti”, poi messi in onda da Fuori orario, Avanzi e Blob. Impossibili da descrivere in termini esaustivi, tali “corti” hanno non solo rappresentato alcune “questioni” e alcuni contenuti, ma hanno sintetizzato uno stato e una contingenza difficilissimi da raccontare in termini tradizionali: come attestano alcuni dei protagonisti dei film: «oltre non c’è nulla», «Palermo è una città che ha il maggior numero di topi», affermazioni apodittiche e paradossali, che restituiscono, come fosse uno schiaffo, un mondo reale e surreale, problematico e inverosimile.
Di questo composito “testo” così “obliquo”, brutale e allegorico, la critica cerca di definire le linee di forza e i vettori espressivi tramite afferenze e associazioni, individuando paradigmi interpretativi, autori o testi che possano dirimerne la complessità. Per esempio Sanguineti e Fofi – o Longo (il critico che tratta in termini più espliciti il modo in cui viene rappresentata Palermo) – rintracciano alcuni riferimenti. Tra essi: Luis Buñuel, Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini e, in letteratura, Angelo Fiore o Luigi Pirandello. Oltre a delineare tali afferenze con altri registi o scrittori, la stessa critica punta a evidenziare la qualità «anarchica» del cinema di Ciprì e Maresco (vd. l’intervista di Sanguineti negli extra del DVD di Totò che visse due volte). Anarchia non come assenza di regole, ma in quanto portatrice di ciò che può essere assimilato al concetto foucaultiano di frattura col pregresso: l’anarchia delle avanguardie che “scrivono” a prescindere dalla “scuola” che li precede.
Le letture critiche, dunque, propongono interpretazioni che necessariamente vadano oltre l’immagine superficiale (il degrado; il disgusto; il “volgare”), configurando una rete di concordanze, di legami funzionali e dimostrando come sussistano “parentele” e dissidi, persino con autori lontani geograficamente, tra cui il dublinese Francis Bacon, come afferma Fofi, in Incertamente. Vengono, inoltre, affiancati alla coppia dei registi siciliani alcuni espressionisti tedeschi, o pittori come Bosch, Bruegel il Vecchio o Caravaggio per il sovvertimento narrativo, per lo sprezzo nei confronti della bellezza classica del/della “modello/a” rinascimentale, per la luce radente. Per quel bagliore interno, che esplode anche nella più cupa ombra, e per il ruolo dato a quanto sia davanti alla macchina da presa, illuminato non da una luce ideale e chiara, ma da un riverbero drammatico che esalti l’oscurità del quotidiano, pur quando sia rischiarata dal sole più netto.
Palermo ha, infatti, come dicono i due cineasti, una diversa luce, violenta che «sembra cristallizzare tutto (…) questa qualità luminosa, (…) si fonde con la nostra terra, proprio in senso materico (le rocce, le montagne) in una fusione drammatica, tragica e vitale» (cfr. Ciprì e Maresco, in Morreale e Valentini,1999). Possono ancora essere rintracciate alcune matrici, come quelle di Rimbaud, Rabelais e Celine, per la vis rivoluzionaria, per l’uso “mistico”, sacrale e “materico” del grottesco, per la “poesia”, per lo sguardo acuto, per il contrasto visivo tra la luce e l’ombra o per il pessimismo cosmico. O come quelle proprie della letteratura che “narra” la catastrofe o l’orrore del nichilismo, nelle pagine di autori come Dostoevskij, Camus, Mann. Una catastrofe che si discosta da quella del blockbuster hollywoodiano e che invece, aspra e silenziosa, esibisce una cittadinanza tutta palermitana.
Parole chiave ricorrenti nelle interpretazioni dei critici rievocano il mostruoso, l’eccessivo, l’astratto, il sacro [6], il sublime, il metafisico e il larvale. Ciò che appare ottuso, perverso, sotterraneo, caotico, visionario, disgregato, descrive “l’estetica sublime del brutto” dei luoghi e delle persone, una estetica straniante, eversiva e, nel contempo, espressiva. Alcune teorizzazioni di Rosenkranz (2004), discepolo di Hegel, appaiono utili per riflettere sul “brutto” senza misura dei corpi e dei luoghi deformi e spesso menomati presenti nel cinema di Ciprì e Maresco. Esso presenta l’antitesi dell’ideale e propone il brutto (non il grottesco in questo caso), connesso al comico, come dispositivo che dissolve il concetto classico di arte e di bellezza. In questa visione il “brutto” non è antitetico al “bello”, ma assume una propria “armonia” che ha un duplice valore: restituisce lo scarto, interrogandosi su esso, e contempla l’imperfezione che possiede una propria dignità e una vitalità, per quanto “infelice”, anche tramite la negazione delle geometrie, delle simmetrie, dei rapporti aurei dello spazio e della società raccontati secondo una visione ottimistica.
Oltre ad avere valore di denuncia l’“ostentazione” del brutto, in Ciprì e Maresco, “rompe” quell’“ordine cosmico” che associa il bello al bene e il brutto al male. In questo sistema degli orrori – guardando le “esistenze secondarie” e le dissoluzioni delle persone, dei luoghi e del quotidiano vissuto – la tassonomia dell’informe, dello “sfiguramento”, sfidando i misteri dell’irrappresentabile, ai limiti del disgusto, raffigura un altro “ordine” che include in sé la bruttezza come unica possibilità.
Ragionare su essa (estesa ai corpi e ai luoghi, alle “pratiche sociali”, alle relazioni e agli eventi, ai “paesaggi” urbani) vuol dire aver compreso alcune tra le aporie contemporanee (e non solo a Palermo). Per Ciprì e Maresco il “brutto” è, spesso, parte del linguaggio dell’eccesso ed è strumento per superare i luoghi comuni e gli stereotipi. Tramite eccesso, astrazione, iperrealtà, si va oltre l’immagine comune e abituale. In tal senso il loro sguardo attiva un altro linguaggio che vale per i luoghi e per i corpi, in grado di raffigurare i «mostri di una bellezza imprigionata» (Ciprì e Maresco, cit. in Morreale, 2003).
Se si volesse costruire un glossario esplicativo delle descrizioni del paesaggio urbano ed extraurbano, delle “pratiche” e della gente, questo potrebbe aprirsi con un termine, non proposto dalla critica cinematografica: “entropia”. Una condizione di spreco, di disordine profondo e permanente che ha come sotto testo il degrado dell’energia sociale. Tale concetto, pur in termini parziali, mostra come una perdita di energia e di organizzazione conduca a condizioni irreversibili (ciò che si rappresenta, infatti, nel cinema di Ciprì e Maresco, non è solo il processo di disfacimento, ma la condizione ex post, presentata come ineluttabile). Una irreversibilità che vale, come in fisica, solo per i sistemi chiusi: tutto in natura può acquisire energia dall’ambiente, quando gli esseri viventi siano “sani”, e siano in grado di attivare iter costruttivi di rigenerazione, opposti a quelli distruttivi e alle pulsioni di morte (morte per invarianza, sociale e urbana, o per rassegnazione).
Nei luoghi e nelle dinamiche interpersonali rappresentate manca infatti ogni condizione evolutiva: i personaggi e i luoghi sono imprigionati in una sorta di coazione a ripetere, dall’invarianza di quanto viene raccontato, la storia è immobile, le fluttuazioni sono tenui, ed è assente qualunque sommovimento della storia sociale dei singoli o dei gruppi. Viene quindi criticata e depotenziata la “storia” come successione temporale di eventi riferiti e colti nella loro unità e articolazione, la narrazione del progresso che – pare – non riguardi i protagonisti se non come effetto tragico di scelte errate.
Una rappresentazione che potrebbe essere scambiata per nichilista, ma che pone in evidenza come il progresso, di cui i protagonisti sono “vittime”, consuma e dunque in tal senso può essere considerato entropico. Tale idea emerge anche dalla scenografia dei luoghi, del centro storico, dei “bordi”, a sud e nord di Palermo, segnata da una espansione sregolata e violenta, che parte dopo la fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto con Lima e Ciancimino tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60.
Il cinema di Ciprì e Maresco è, dunque, potente anche perché amplifica, tramite il paradosso e la reiterazione, una condizione difficile (politica, urbana e sociale) rendendola visibile. I registi “denunciano”, ma non esplicitano direttamente, l’assenza della gestione politica, la mancanza dell’organizzazione democratica, l’oblio della politica, il sub-potere dominante criminale e mafioso, il ruolo della borghesia megalomane e poi berlusconiana [7], tutto associato, oltre che al dissipare entropico, a un profondo senso di morte per fissità e inazione. Anche per tale ragione, fulcro di questo ragionamento può essere – in un panorama assai esteso – un frammento dotato di elevatissimo peso specifico, tratto da Incertamente: “Giordano sepolto vivo”, reputato, tra i “corti”, anche per la sua sintesi simbolica e per la capacità di evocare alcune afferenze (come a Dostoevskij e Gogol’, o ad Arrabal), una sorta di corposa summa del pensiero di Ciprì e Maresco sui luoghi e sugli uomini prigionieri di questa terra, e da questa terra, che li imprigiona, falsamente tutelati.
Il dialogo tra il protagonista, Pietro Giordano e Franco Maresco (voce over), pur possedendo una propria unicità, rimanda a un brano del ’67 (da Il giuoco dell’oca), di Edoardo Sanguineti: «ci sono io, per intanto. Sto dentro la mia grande bara. Sono al buio, chiuso. Le voci che si sentono di fuori, che arrivano qui, che parlano di me, a me, sono le voci dei visitatori. Con la faccia girata tutta da una parte, con tanta fatica, ne vedo qualcuno, lì dei visitatori, da una fessura del legno, tra un’asse e l’altra della parete, che mi passa davanti, che si ferma», «Ma» prosegue Sanguineti, «ci sono dei personaggi che ci sono per intero, grandi come sono davvero, nudi».
Il “corto” si apre con il protagonista che canticchia «vivere senza malinconia…» e prosegue con la voce fuori campo di Maresco che chiede: «Le dispiace venire fuori?», «non posso», risponde Giordano, «sono stato sepolto vivo», «adesso come va?» chiede Maresco, e Giordano: «meglio, ho un rifugio, mi sento protetto, mangio…»; «soffre?», domanda Maresco, Giordano, risponde: «qualche privazione, ma poteva andare peggio»… mentre prosegue Maresco: «le manca il sesso?», Giordano: «lei capisce, in questa situazione non si può avere tutto», «mangia?», chiede ancora la voce fuori campo, e Giordano risponde: «i vermi», «ma» afferma la voce off: «non dovrebbero essere i vermi a mangiare lei?» e Giordano, lapidario dichiara: «in questo caso è il contrario: sono io che mi mangio i vermi»[8].
Non viene esibita la dignità del provvisorio e del precario, come in Pasolini, letta in relazione alla struttura sociale o ai luoghi, né lo strappo drammatico, la nostalgia per il passato che denota, nel cinema e nelle scritture dell’autore bolognese, un dolente rimpianto per la cultura contadina, di cui si auspica, in una certa misura, l’integrità e la virginale fissità, o il rammarico per le smarrite tracce di una storia perduta, sostituita da una «dopostoria» in cui, egli, non si riconosce più (Schiavo, 2007). In “Giordano sepolto vivo”, Ciprì e Maresco, di contro, pur mostrando affinità con Pasolini (come viene rilevato, peraltro, dalla critica più accorta: cfr. Fofi, Sanguineti, Longo, Morreale), sono maggiormente concentrati a rilevare la perdita di una condizione “identitaria”, apparentemente atemporale: è sempre un ipotetico passato che opera nel presente, ma il rimpianto non è per la condizione contadina perduta, anche perché i due autori siciliani non sono affatto antiurbani. Il rammarico è, forse, per la perdita di un’anima più libera, per un’umanità irridente, autonoma, pagana, a volte immediata, niente affatto asservita, qui invece piagata e piegata dalle convenzioni borghesi. Quella anima, semi-estinta, vessata, viene da Ciprì e Maresco “evocata”, per vizi e virtù, come unità da mantenere. E viene, inoltre, e sempre per via indiretta, marcata l’importanza della differenza individuale che, a Palermo, non è di certo riconosciuta come un valore, predominando l’azione retriva e omologante che espunge originalità ed eccezioni [9].
Una differenza con Pasolini risiede, allora, nel diverso modo di mostrare lo strappo tra condizioni pregresse e quelle presenti, tra città storica e città attuale. Se Pasolini denuncia la struggente incompatibilità – tra le permanenze storiche e le parti urbane emergenti – tramite un filtro dichiaratamente innervato dalla sua formazione – si pensi per esempio a Mamma Roma e allo stridente accostamento del quartiere dell’Ina casa al Quadraro con la campagna e con i resti storici – Ciprì e Maresco descrivono il medesimo rapporto (che a Palermo di manifesta in altro modo) tramite un’immanenza visiva che declina una differente concezione, sia estetica, che concettuale. Se la “ripresa” in Pasolini è ricerca di un tempo perduto, in Ciprì e Maresco non indica una frattura di ordine cronologico.
Ciò emerge anche dalle parole degli Autori: Maresco (in Ciprì e Maresco, 1995) affronta il tema della continuità e della trasformazione affermando:
«una volta c’erano i quartieri, Borgovecchio, Cruillas, Lo Sperone, quartieri che erano piccole città nelle città, con diverse sfumature di dialetto, con usi, abitudini, tradizioni. Tutto questo sparisce (…). Da un lato la città diventa “europea” (…) le generazioni cambiano attraverso la televisione (…). Tu andavi in quei quartieri (…) e vedevi che c’era una tradizione (…). Adesso questa continuità è finita e tutto si sta perdendo. Non ci sarà più nessuna memoria da tramandare. Questo è il progresso, e in questo senso noi dicevamo prima di essere reazionari».
Non si condivide lo scoramento e la sfiducia. Ma si condivide pienamente l’analisi di quanto sia accaduto: l’immagine di Ciprì e Maresco, in questo caso, è un cuneo di scardinamento del pensiero e del pensare ortodosso. E mostra quanto ciò che si ricerchi non sia l’arcadia agreste, ma l’eterogeneità delle differenze, che eticamente coesistono se rispettate e tutelate, tra continuità e dis-continuità. Le perdite rilevate: i quartieri come luoghi di espressione culturale e di consociativismo relazionale, il centro storico, la campagna (integrata alla città nel suo processo di avanzamento, trasformazione, metamorfosi).
I luoghi, in esterno – rappresentati spesso come quadri fissi, “antivedute” e “contro panorami” [10], abitualmente suddivisi in “alto” e “basso”, in campi fatti di nuvole, un caos luminoso, e di terra, un piano infecondo, incolto e minerale – appaiono, in alcuni film e soprattutto nei “corti”. Tali campi sono spesso in sovrapposizione [11] e ospitano figure sperse, radicate per assuefazione e viltà al suolo – altrettanto vile e assuefatto – portatrici sane di rinuncia irresponsabile e segnate dalla obliterazione della vis politica e dalla estromissione dal contesto dei diritti sociali, ignoti? scansati?
I soggetti potrebbero, in fondo, essere ovunque, in quell’ovunque lacerato. Essi esprimono una distanza che, forse, appare meno forte in alcuni film, tra essi Totò che visse due volte, dove il rapporto tra luoghi, eventi e soggetti, è costitutivo.
Ma in genere, gli interpreti sono uomini senza diritti sociali, per assenteismo politico e per analfabetismo, per ignavia e inerzia. E anche in questo caso si coglie un nodo critico della relazione tra abitanti e Istituzioni in Sicilia, essendo, pressoché assente la certezza del diritto ed essendo debolissima la sua legittima rivendicazione, la “domanda” collettiva. Vige un loop, mancano l’azione partecipativa, la democrazia diretta e la spinta per la richiesta e la costruzione di tali valori civici.
I “raffigurati”, oltre che diseredati legali, sono uomini con famiglie lacunose: senza bambini e senza donne. Anch’esse espunte perché messaggere di ingerenza e di variazione evolutiva ed escluse, per una scelta precisa legata alla tradizione (cfr. Ciprì e Maresco, 1995), al rispetto e all’attribuzione di valore. Uomini che sono, invece, latori di una cancellazione dell’archetipo urbano occidentale, prima e dopo Cristo: la certezza ingenua della fede e la classicità. La polis greca è, infatti, qui, del tutto rinnegata e assente. Assente non per confutazione logica o per una legittima rinuncia che sceglie il caos come mondo deliberato, secondo una rivolta illuminata; ma assente per circostanze, caso, consunzione, dimenticanza, onirica dominanza, casualità, fato, per una in-civile barbarie, per una barbarica “pianificazione” del quotidiano, e in ragione di un sotto testo, i cui elementi impliciti sono l’alterazione metabolica dei rapporti tra cittadini e Istituzioni e l’assenza di democrazia diretta, di partecipazione. Vi si raffigura una “colpa” atavica non rilevata, – in mancanza di riferimenti civici, e legalizzati – né riconosciuta, né denunciata dai protagonisti, la cui mancata individuazione non muove alcuna rivoluzione, né muove una volontà di mutamento, né alcuna pratica di reazione organizzata. Stasi, pre-illuminista, da un lato, ineluttabile e quasi divina dall’altro, come se fosse una piaga mandata da un dio malvagio, totalitario e sventato.
Inutilità dell’azione, assenza di “pratiche sociali”, fatalismo, dunque e, pertanto, negazione – senza coscienza – dei protagonisti e senza esplicita presa di posizione che alcuni autori, pedagoghi e riformisti come Pasolini, si erano invece prefissi di far emergere. Tale notazione non è affatto una critica all’“opera” di Ciprì e Maresco, tutt’altro: intende ribadire la presenza di altre strategie di rivolta critica e di evidenza del “male” arendtiano [12], probabilmente più implicite, meno ortodosse o dichiaratamente ideologiche di quanto non fossero quelle che caratterizzarono la “luccicanza” reattiva, purtroppo senza esito, propria degli anni ’70.
Nel realismo grottesco di Ciprì e Maresco non vi sono, pertanto, dichiarati intenti moralistici; alto e basso (in senso posizionale e metaforico) attengono a una restituzione in primo luogo topografica così come corporale, anche se portatrice di un senso simbolico profondo. Citando Dostoevskij, in Lettere sulla creatività,
«un’unica condizione è stata concessa in sorte all’uomo: l’atmosfera della sua anima è formata da una combinazione del cielo con la terra: quale creatura ribelle ad ogni legge è l’uomo, in lui la legge della natura spirituale è violata… Mi sembra che questo nostro mondo sia un purgatorio di spiriti celesti ottenebrati da un pensiero peccaminoso. Mi sembra che il mondo abbia assunto un senso negativo e che da una nobile e armonica spiritualità sia venuta fuori una specie di pasquinata».
Oltre la metafora, ciò che sta in alto è il cielo, mentre in basso sta la terra che assorbe, inghiotte (un altro riferimento ai russi dell’’800, ancora a Dostoevskij) e nasconde (è intesa anche come tomba) e che, simbolicamente, rappresenta il piano che raccoglie i resti, i rifiuti e i corpi vaganti. Dal punto di vista corporale il grottesco è espresso non solo dai luoghi, ma dal corpo esibito, dal volto, dal ventre enorme (ad esempio di Paviglianiti, in Nessun dorma, un corto del ciclo Cinico TV, dell’inizio degli anni ‘90), dagli organi genitali (Rocco Cane; Paletta, in Totò che visse due volte) non esattamente esposti, ma evocati tramite un erotismo masturbatore e non relazionale, corpi che entrano in rapporto deviato sia con la terra, sia con il cielo, quasi tramite mistiche assunzioni (ancora Paviglianiti, in Incertamente).
La degradazione in chiave grottesca dei luoghi e dei corpi rimanda al valore simbolico “negativo” della terra, ha una attinenza fortissima con la perdita della relazione diretta con la città e con le sue “pratiche”. Dice di un inferiore improduttivo che ha a che fare con la defecazione, con la sessualità inespressa o carnalmente deviata, con la perversione, con lo stupro (in Totò che visse due volte) non denunciato secondo una prospettiva convenzionale. Lo stupro, in effetti, si compie anche sui luoghi, con la sottile violenza dell’abbandono. Lo stupro letto insieme all’assenza delle donne è manifestazione di una cultura classista, sessista, e sessualmente repressiva o sbilanciata nei confronti del femminile (cfr. Ciprì e Maresco, 1995).
Il cinema di Ciprì e Maresco, quindi, è un infinito teatro in cui l’onirico si fa realtà, che non mira, però, al realismo sociale. Per il suo valore diversamente iperreale fa riflettere sulla relazione tra vero e falso. Tra ridondanza e riduzione all’osso del paesaggio, da cui si cancellano le sovrastrutture che inquinano il racconto, dove si costruisce un alternativo sistema di verità con cui misurarsi. Fatto di paradossi, esagerazioni, di tipi umani che ripetono all’infinito azioni, parole, convinzioni, in una grande distanza tra luogo e “governo”, tra luogo e persone che con il luogo non intrattengono rapporti di cura o appartenenza. Tale quadro rende degradati i luoghi e straniate le persone e produce un disorientamento negli spettatori, ma nel contempo rende il cinema di Ciprì e Maresco un documento per leggere, immaginare, ripensare lo stato delle “cose” urbane e di paesaggio, le città vere e distopiche, con responsabilità e con una più forte densità e potenza di contenuti.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
[*] Questo saggio rappresenta uno stralcio tratto da un contributo più esteso e strutturato che sarà pubblicato nei prossimi mesi da Castelvecchi, in un volume in preparazione da chi scrive.
Note
[1]Anche se non è il territorio ad essere in primo piano. Come accade in letteratura ciò che si mostra e si racconta è un tutt’uno, in cui spazio, tempo, soggetti, eventi, è reso come intreccio. A. Longo (2007) nota, però, come Palermo sia deliberatamente presente nel cinema di Ciprì e Maresco. Così come nelle opere di altri autori che pongono al centro la città meridionale, tra essi: Martone, Capuano, Garrone, Piva.
[2] Autori molti diversi. Ciprì e Maresco ne spiegano le ragioni in modo illuminante; cfr. Fofi (2008).
[3] Questa riflessione, per ovvi motivi, non affronta gli aspetti prettamente cinematografici, e non tratta un capitolo fondamentale in quel cinema, cioè quello della musica. Molto si potrebbe scrivere sul rapporto tra immagine e suono, per l’uso straniante di alcuni brani d’opera, per la passionale, amorosa sapienza relativa al jazz, per la relazione con la musica più trash. Questa riflessione si concentra su alcune scelte in funzione della espressività, e al significante liberato, rispetto ai luoghi e alle persone rappresentate.
[4] Durante la “Primavera siciliana”, Sindaco Orlando, l’Amministrazione era, nonostante alcuni irrisolti, impegnata per avviare un recupero del centro storico, recupero supportato dal Ppe, da incentivi finanziari, e da alcuni manuali che potessero guidare, indirizzare e normare le opere di restauro. L’amministrazione del Sindaco Cammarata (successiva), ha derubricato il processo avviato dalla Giunta Orlando (processo non privo di problemi, ma orientato a una rigenerazione). Le parole di Maresco – «Cinecittà di compensato» – restituiscono, per ciò che attiene il c.s., in pieno la perdita della facies, della fisiognomica del palinsesto palermitano, compiuta azzerando – in molte delle opere di “ristrutturazione” in corso, con una “mano di vernice di plastica” – i “fonemi”, gli apparati, i cornicioni, le lesene, gli infissi, i colori, i rapporti tra gli elementi costruttivi, il “linguaggio” polifonico delle architetture di Palermo.
[5] Direttore della rete: Angelo Guglielmi, Capostruttura: Bruno Voglino; Ciprì e Maresco furono “scoperti” e proposti da Enrico Ghezzi.
[6] Si può sostenere che il sacro, laicamente richiamato, la ritualità, anche se trasformata, deformata e trasgredita, sono, nel cinema di Ciprì e Maresco, pure una sorta di argine all’ideologia borghese.
[7] A tal proposito si richiama il concetto di “deculturazione” di Latouche, che coincide con gli imperativi economici, propri del “secolo breve”. Deculturazione affermata quando una società si conforma, si prostituisce e soggiace alle pressioni esterne o quando prevalga l’integralismo che vorrebbe salvaguardare, senza variazione, l’identità della cultura subalterna.
[8] https://www.youtube.com/watch?v=UEUJC1eOg7E
[9] Da questo punto di vista un “corto”, in onda su La7, ne I migliori nani della nostra vita, mostra un mancato esorcismo a un “indemoniato”, metafora di chi possiede una identità non rispondente al canone usuale, “risolta” tramite l’uso di una comicità surreale: http://www.youtube.com/watch?v=5oABHbhNfLc&feature=related.
[10] Un altro stereotipo confutato: la veduta, legata al Grand Tour, ai racconti di viaggio elaborati tra ‘600 e i primi del ‘900.
[11] Uno degli effetti di straniamento relativo al rapporto tra uomini e luoghi (per quanto attiene gli esterni), è la tecnica di ripresa che li connette, l’uno all’altro, in apparenza, ma racconta, invece, di un impossibile intersezione. Tale “effetto” che per certi versi è allegoria di una rimozione del rapporto con la città contemporanea, è ottenuto tramite uno scollamento visivo tra gli attori e lo sfondo, uno scollamento fisico e di luce, anche per l’immobilità degli attori.
[12] Il riferimento ad Hannah Arendt e alle sue riflessioni sul totalitarismo, non è casuale; per la capacità, in certi casi predittiva, del cinema di Ciprì e Maresco: si pensi ad A Silvio, “corto” realizzato nel 1990, per il programma “Isole Comprese”, su Italia Uno, il pezzo non verrà mai mandato in onda. Il link: www.youtube.com/watch?v=X8beb9E_gDM.
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Flavia Schiavo, architetto, architetto del paesaggio e PhD in Pianificazione territoriale e urbana, è prof.ssa Associata presso la Università degli Studi di Palermo, dove insegna Fondamenti dell’Urbanistica e della Pianificazione territoriale (Laurea in Urbanistica e Scienze della Città). Ha al proprio attivo numerose pubblicazioni (saggi e monografie), in italiano e in inglese, che sviluppano articolati temi di ricerca: fonti non convenzionali (letteratura e cinema per interpretare città e territorio); linguaggio urbanistico; partecipazione, conflitti, azioni e pratiche bottom-up in ambito urbano; parchi e giardini; sviluppo e questioni sociali, economiche e antropologiche nel contesto della Rivoluzione Industriale; arte, culture urbane e contaminazioni. Tra i titoli delle monografie: Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004, Sellerio, Palermo; Tutti i Nomi di Barcellona, 2005, FrancoAngeli, Milano; Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City, 2017, Castelvecchi, Roma; Lettere dall’America, 2019, Torri del Vento, Palermo. Fa parte di Comitati scientifici di prestigiose collane editoriali (FrancoAngeli) e di Riviste del settore. È co-direttore della collana Cinema e Città, della Palermo University Press. Ha organizzato Seminari, Simposi, meeting, Convegni nazionali e internazionali e ha condotto lunghi periodi di ricerca in Italia e all’estero, in Europa (UAB, Barcellona) e recentemente negli Stati Uniti (Columbia University, New York City).
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