di Fabrizia Vazzana
Il mare è l’unico confine di Cipro. Un mare su cui planano gli aerei poco prima di atterrare a Larnaka, oppure a Pafos. Confonde, e fa sorridere, quel leggero e momentaneo timore che le pesanti e lunghe ali si tuffino a picco sul blu. Fino all’attimo prima in cui le hostess danno il benvenuto in lingua greca e inglese, annunciano l’ora e la temperatura locali, il torpore dato dal viaggio è interrotto da un lievissimo brivido, dal piacevole e rassicurante equivoco di essere arrivati in Sicilia.
A Nicosia il mare non c’è, e dell’aeroporto non rimane che uno scheletro. Nella capitale di Cipro, un aereo mai più decollato è ancora in pista, immobile, pietrificato dal terrore, gli oblò come occhi sgranati, le ali irrigidite dal fragore delle bombe: un fantasma di alluminio racconta i bombardamenti turchi del 1974, gli attacchi che amputarono prima di tutto lo spazio aereo tra la città e il resto del cielo.
Dopo quegli eventi non esistono più voli da Nicosia per nessun posto nel mondo, ma se è di Mediterraneo che si vuole parlare, e di dialoghi, né la geografia, né un dislocato eurocentrismo, né la distruzione sociale e territoriale sottraggono la posizione centrale della terza isola del Mediterraneo, nella realtà odierna e nel ruolo estremamente rappresentativo di questioni quali divisioni, diversità, conflitti, scontri.
È una rappresentazione, in 111 chilometri quadri, del mondo intero, e diviso, in cui tutti viviamo. Ai bombardamenti seguì l’invasione e poi l’occupazione di un terzo dell’isola, proclamato Repubblica turca di Cipro Nord, stato riconosciuto solamente dalla Turchia. Una ferita lunga 180 chilometri che spacca l’isola in due, riproduce la linea verde tracciata nel ’64 da un generale britannico allo scopo di separare i quartieri turchi da quelli greci, come soluzione agli scontri di quegli anni.
Nicosia rimane, ancora oggi, l’ultima capitale divisa. La spaccatura è così profonda ed estesa che giunge fino in riva al mare. Per chi vive (su) un’isola, è semplice sentirsi a casa a Cipro.
Se quell’isola è la Sicilia, è una sensazione immediata. Tutti e cinque i sensi sono inebriati da quell’aria familiare, ovunque ci si trovi: in riva al Mar Bianco (così è chiamato in turco il Mediterraneo), tra gli odori di una taberna, nel dedalo di viuzze strette e case basse, dove si sente la voce dei giovani chiamarsi cumpare. E si attraversa la senile pazienza di chi fuori dalle case siede in attesa che un po’ di frescura s’insinui tra le spume marine della testa. È come se non ci fosse alcun chilometro, nessun mare, a separarle. Anzi, il mare le unisce.
Non è solo il caldo torrido, i muri di tufo e il traffico a tutte le ore, ad accomunarle.
È molto di più: è il culto della lentezza, la sacralità dei legami, parlarsi con gli occhi e le mani, più che con le parole; amarsi attraverso il cibo, promettersi un caffè ogni volta che ci si incontra, la stessa posizione geografica, naturale e storica madre di una irreversibile dis-posizione ad aprirsi, accogliere, coesistere.
Una storia così profonda ed esuberante che è impossibile chiudere dentro schemi angusti e soffocanti di identità, appartenenza, autoctonia culturale. Se mai si può parlare di culto, o coltivazione: della diversità, preziosa, dell’altro come modello a cui guardare per riconoscersi, per completarsi. Questo mosaico ricchissimo di tessere eterogenee e policromatiche ha dato all’isola di Cipro un’eredità storica, artistica ed umana incommensurabile, seppure paradossalmente e sciaguratamente divisa in due.
Le due isole sono sorelle distanti, che attraverso le correnti del mare si raccontano una sorte simile, contigua, sorella, fortemente intrecciata: un susseguirsi di transiti, incontri, fratture sanabili e anzi corroboranti, che tra le faglie aperte hanno portato alla luce il fitto tessuto urbano e sociale che ha favorito un’esemplare ed invidiabile immunità nei confronti di un’ossessione sempre minacciosa, di un’epidemia che da svariati secoli s’insinua nella mente e nella mentalità , ancora contagia e miete vittime: la purezza.
Sullo sfondo bianco della bandiera di Cipro spicca la sagoma dell’isola, color rame, principale risorsa, cullata da due spighe verdi, legate insieme: i due popoli in pace.
Ma le bandiere sono uno strumento pericoloso da tenere tra le mani, sono vessilli del fanatismo, il velo pietoso su un cantiere d’interminabile omogeneizzazione identitaria, un prepotente e sanguinario stendardo che sotto un imbroglio etnico o una velleità sovranista raccoglie e rassicura un gruppo x di persone sotto un enorme “noi” e non più tante piccole x, tanti piccoli e smarriti “io”.
Meglio vagare per Nicosia, lasciarsi guidare dalle strade assolate, sentirne le storie, guardarne in faccia il dolore, scavare nei perché. Nicosia si trova in una posizione relativamente centrale dell’isola, all’interno della piana della Mesaoria (“tra i monti”), separata dal mare dalla catena montuosa del Pentadaktylos. In greco e in turco si chiama rispettivamente Λευκωσία e Lefkoşa, nome che per alcuni significa «Dea bianca» (Lefko-thea) riferito al colore chiaro della pietra, ma che secondo un’altra teoria proverrebbe da Lefkos, figlio di Tolomeo I d’Egitto, che ricostruì la città nel III sec. a.C.
Da sempre meno esposta agli attacchi nemici rispetto alle città costiere, iniziò ad essere abitata dall’età del bronzo. Nicosia è l’esonimo attribuito alla città sotto il regno della casata francese dei Lusignano, che durò dal 1192 al 1489, anno in cui l’ultima regina, Caterina Cornaro, fu costretta ad abdicare a favore della Repubblica di Venezia. Prima di ricevere la denominazione mantenuta in maniera definitiva, Nicosia, governata dal re Onasagoras, era una delle dodici città-stato sotto il potere del re assiro Esarhaddon (681-669 a.C.) e si chiamava Ledra. Ancora oggi la via principale di Nicosia sud, considerata monumento storico, si chiama Ledras Street.
L’imponente cattedrale gotica di Santa Sofia, costruita all’epoca delle crociate del 1200, oltre ad essere il maggiore e più antico esempio di chiesa gotica a Cipro, è una delle impronte del periodo franco ancora oggi visibili, nonostante l’edificio sia stato successivamente convertito in moschea e i campanili in minareti.
Quando i veneziani costruirono le nuove mura di Nicosia, la cattedrale di Santa Sofia divenne il centro della città, come in tutti gli abitati medioevali. Demolite le vecchie mura risalenti ai tempi delle Crociate, la cinta perimetrale fu ridisegnata dall’architetto militare Giulio Savorgnano (ingegnere militare e general d’altegliaria della Repubblica di Venezia) nel 1567, sotto il provveditore Francesco Barbaro. Per completare il progetto oltre 1.800 case, quattro palazzi, 80 chiese e tre monasteri furono demoliti.
Elementi urbani quali mura, porte e bastioni diedero a Nicosia la pianta mantenuta fino ad oggi, e sono importanti non solo in quanto patrimonio monumentale ma anche come utili punti di orientamento e delimitazione tra la città vecchia e quella nuova.
Nel luglio del 1570 gli ottomani sbarcarono a Larnaka e tre mesi più tardi attaccarono Nicosia, distruggendo le fortificazioni e uccidendo circa 50 mila abitanti. Nicosia diventò la sede del Pashà ottomano, dell’arcivescovo greco, del dragomanno e del qadi. Il Palazzo del Governo veneziano fu rinominato Saray (Serraglio) e diventò la sede del Pashà, governatore di Cipro. Quasi tutte le chiese furono convertite in moschee. Si accedeva alla città attraverso le tre porte veneziane, che aprivano all’alba e chiudevano al tramonto.
Anziché celebrare la loro conquista innalzando monumenti, gli ottomani avviarono un programma di lavori pubblici volto a migliorare le condizioni della città: fontane ottagonali ad ogni angolo delle strade perché tutti avessero l’acqua, bagni pubblici in centro e un grande caravanserraglio in cui viaggiatori e mercanti potevano incontrarsi, scambiare merci, pernottare. Nicosia divenne un vivace centro commerciale e sorsero alberghi, mercati, caravanserragli e bagni.
Sotto il dominio ottomano si creò una distinzione etnica, su basi religiose e culturali; la privilegiata comunità minoritaria musulmana distinse gradualmente i propri interessi dalla popolazione ellenica non musulmana. Sebbene le relazioni sociali e commerciali tra le due comunità fossero aperte e attive, durante il periodo ottomano Nicosia si sviluppò in quartieri etnici distinti, con residenti musulmani – turcofoni principalmente nel nord e grecofoni – cristiani nel sud della città.
I due blocchi erano uniti dalla zona commerciale nel centro città. L’amministrazione ottomana era florida per tutti, ma il sistema dei millet favoriva i musulmani anziché i greco-ciprioti. Questi erano uniti dalla Chiesa ortodossa che, attraverso l’enorme autorità dell’arcivescovo, era destinata a diventare la preponderante guida spirituale e politica, amministrativa e sociale, educativa e religiosa della comunità greco-cipriota.
Dalla metà del 1800 iniziò l’emorragia territoriale dell’Impero ottomano e Cipro fu una delle perdite. La sottomessa componente greco-cipriota si trovò a condividere o a fare passivamente parte della Megalì idea greca, un progetto di riappropriazione territoriale che comprendeva anche l’annessione di Cipro alla Grecia (Enosis). Fomentato dal ruolo della Chiesa e da vicini e numerosi esempi di insurrezione nazionalista (Giovani Turchi, che influenzavano al contempo anche i turco-ciprioti), il sentimento di appartenenza alla Grecia come madrepatria si unì all’insofferenza verso il dominio ottomano appena concluso e il colonialismo britannico. Quest’ultimo, attraverso un disegno di controllo che si potrebbe rendere con “divide et impera” contribuì non poco a marcare la distinzione e la polarizzazione tra le due comunità, lasciando che diventassero sempre più reciprocamente ostili, in quanto convinte di appartenere a due diverse nazioni, la Grecia e la Turchia, e non invece all’isola che abitavano.
L’occupazione e l’amministrazione britannica, insediatasi nel 1878, segnarono l’inizio dello sviluppo del centro abitato oltre la cinta muraria. Iniziarono a sorgere scuole, musei, uffici, ambasciate. Dal 1881, strade in macadàm poterono connettere Nicosia alle città costiere.
Dopo la prima guerra mondiale le strette strade finalmente asfaltate erano rese ancora più buie dalle tende che proteggevano i chioschi dal sole.
Durante i floridi anni Venti, appena fuori le mura si costruivano ville accanto agli edifici coloniali sorti precedentemente. Trent’anni dopo tanti piccoli villaggi circostanti si svilupparono tanto da diventare le maggiori zone residenziali di Nicosia, mentre nella città vecchia rimanevano solo case abitate da anziani e attività commerciali. Negli stessi anni la lotta anti-britannica per l’ottenimento dell’unione (Enosis) alla Grecia, fomentata dall’organizzazione paramilitare EOKA (Organizzazione nazionale della lotta cipriota), provocò una grande carneficina nelle strade della capitale. Il movimento anticoloniale vedeva greci e greco-ciprioti impegnati a bombardare, assassinare e attaccare tutto ciò che rappresentava la presenza britannica.
Gli albori della divisione urbana e sociale si possono individuare forse nel momento in cui non solo furono fissati cinque check point in Ermou street, arteria commerciale della città, ma anche quando cittadini turco-ciprioti, estranei al conflitto, furono chiamati a formare la controparte delle squadriglie nazionaliste: a quel punto i conflitti in atto erano due, e destinati a diventare sempre più profondi. I due leader dell’EOKA erano l’arcivescovo Makarios III e il colonnello Iorgos Grivas. Forse è per questo che il Museo della lotta nazionale – in cui foto di corpi smembrati, diari e giornali, sculture e vestiti ancora sporchi di sangue ripercorrono gli anni della guerriglia – si trova in un angolo all’ombra dell’imponente e vasta residenza dell’arcivescovo.
La Repubblica di Cipro, con capitale Nicosia, nacque ufficialmente il 16 agosto del 1960. Il primo presidente fu l’arcivescovo Makarios III. Il monumento alla Libertà, a pochi metri dalla porta di Famagosta, commemora la liberazione dei greco-ciprioti dal potere coloniale britannico, con le figure di 14 militanti dell’EOKA (Organizzazione Nazionale per la Lotta Cipriota), raffigurati nell’atto di uscire dalla prigione nel 1959, accanto a contadini e preti che rappresentano i vari strati della complessa società greco-cipriota.
Nel tempo, dunque, germogliava e s’irrobustiva un’insormontabile alterità: non si era semplicemente abitanti della stessa isola, ma greci o “altro”, musulmani o “altri”, si sentiva parlare la propria lingua ma anche lingue altre. Le conseguenze avrebbero potuto essere molteplici: lo scambio, l’integrazione, il confronto… o lo scontro. Nel 1963, ulteriori violenze dovute ai contrasti tra greco-ciprioti e turco-ciprioti portarono di fatto alla divisione della città in quartieri distinti. La cosiddetta linea verde fu tracciata in quel periodo, quando le autorità militari britanniche definirono il confine tra la zona greca e quella turca.
L’invasione turca del 1974 segnò la definitiva divisione della città, che tale è rimasta da allora, monitorata dalle forze di pace delle Nazioni Unite. I circa 190 mila greco-ciprioti residenti nella parte settentrionale dovettero fuggire, abbandonando case, terreni e attività. Allo stesso modo circa 50 mila turco-ciprioti che vivevano nella parte meridionale dell’isola vennero evacuati a nord. Molte persone furono trasferite anche dalla Turchia per popolare la nuova Repubblica. Persone e famiglie perdettero le loro case, i loro giardini, gli animali, il lavoro, la scuola, il quartiere in cui avevano sempre vissuto.
Da quel momento, le persone vivono la drammatica e frustrante condizione di una città divisa, di perdite affettive e materiali, di supremazia e controllo straniero. Il tessuto urbano, diviso, è stato sdoppiato, ma il vuoto si vede e si sente. Ancora oggi Nicosia vecchia è piena case, negozi, scuole abbandonate. I costi economici e le sofferenze sono stati enormi. Il fomentato rancore verso “l’altro” fu solo una delle conseguenze ancora oggi difficili da rimuovere.
La zona greca si trovò privata di aree agricole preziose, di due importanti città, delle coltivazioni di agrumi e della maggior parte delle infrastrutture turistiche.
Più la polarizzazione raggiungeva l’apice, più la città dentro le mura era vittima di un esodo inarrestabile. Mentre innumerevoli e ricche case rimanevano vuote e abbandonate, fuori dalle mura si continuava a cementificare aree verdi per trasformarle in larghe strade e zone residenziali, tanti piccoli quartieri con tutti i servizi necessari e anche i luoghi di ritrovo non lontani dalle proprie case.
Nicosia dentro le mura ospitava abbandono, vecchiaia e prostituzione. In seguito diventò la zona di affluenza turistica e residenziale per immigrati da Paesi dell’Asia e dell’Africa. Dal 1983, anno di autoproclamazione della Repubblica turca di Cipro Nord, Nicosia è la capitale di due diversi Stati: quello appena citato, riconosciuto solamente dalla Turchia, e la Repubblica di Cipro, Paese membro dell’Unione Europea, il cui territorio comprende circa il 59% della superficie dell’isola.
Lefkoşa, come viene chiamata nel nord, è l’ultima città d’Europa divisa da un confine. Confine aperto nel 2003: le comunità possono oltrepassarlo, ma la barriera è ancora lì. Uno dei check point tronca la via principale di Nicosia, Ledra street; l’altro corrisponde col quartier generale del gruppo UNIFYCYP delle Nazioni Unite nel Ledra Palace, un tempo il miglior albergo della città ed ora punto di attraversamento occupato da militari. Le Nazioni Unite mantengono una forza di pace lungo la linea verde e il confine che spacca in due l’isola e la capitale. Più che una linea, è una vera e propria striscia di terra tolta ad entrambe le parti della città. L’accesso a questa zona cuscinetto è impedito da filo spinato e militari armati: gli edifici distrutti dalle bombe testimoniano la violenza del conflitto.
Un profondo e ostentato nazionalismo verso la «madrepatria» si percepisce e si contrappone chiaramente in entrambe le parti: la bandiera greca è una presenza quasi ossessiva in taverne e negozi. Chi lotta per un’isola unita, riconosce Cipro come la propria patria, la terra a cui si sente legato, senza nutrire alcun sentimento di appartenenza per nazioni di fatto estranee, altre. Alla domanda «Vi sentite greci?» molti rispondono «No, siamo greci».
Analogamente, in tutta la parte occupata ci si imbatte continuamente in colossali statue che raffigurano e celebrano Mustafa Kemal Atatürk, padre dei turchi, fondatore della Repubblica di Turchia, assieme al suo motto: “Felice chi può dirsi turco”. Le bandiere della Turchia e della Repubblica turca di Cipro Nord sono in ogni strada, ma le più imponenti e provocatorie si trovano sul versante del monte Pentadaktylos, il punto più alto della parte occupata, che guarda a sud: ogni abitante greco-cipriota è costretto a vedere ogni giorno le due bandiere fatte di enormi pietre, che occupano un’area di 50 acri (l’ampiezza di quattro campi da calcio) e di sera vengono illuminate – motto incluso – da innumerevoli luci. Una violenza permanente.
Munzur è un nome proprio curdo, significa montagna. Ha vent’anni e studia relazioni internazionali. Posso ascoltare cosa mi racconta senza filtri, senza mediazioni. Parliamo turco. È un curdo di Bursa.
«Esistesse la cittadinanza curda – ci spiega con lo sguardo nel vuoto – potrei andare e venire da nord a sud dell’isola, con voi, come voi. Invece ho l’unica cittadinanza che viene respinta al confine, quella turca. Rifiutano il mio documento e mi fermano come fossi un criminale. E invece sono turco, hanno deciso. Non voglio sentirmi parte di nessuna terra finché ci saranno confini e anche l’ultimo uomo non sarà libero di circolare».
Superato il check point verso Nicosia nord, si ha di fronte il modello di città che il turista si aspetta di trovare nella “parte turca” (e che sembra studiato proprio per non deluderne le aspettative): un bazar all’aperto fatto di stradine pullulanti di tessuti, spezie, souvenir, venditori di kebab e baklava, conduce alla moschea e ai bagni. La metà occupata è stata gradualmente stereotipata, “turchizzata”, quasi astratta dal contesto e rielaborata perché diventasse la capitale di una repubblica turca e non più la parte di una città unica ed unita.
«Quando parlano della “soluzione cipriota” – spiega Umut (“speranza”), attivista per l’unificazione dell’isola – ignorano che il problema non è a Cipro, ma viene da fuori. Se la Turchia si ritirasse dalla questione, se non ci fosse la polizia turca a controllare i transiti da una parte all’altra, l’isola sarebbe libera. Tra ciprioti non abbiamo problemi, li hanno creati dall’esterno per dividerci».
La speranza è tornata negli ultimi anni proprio grazie ai giovani, che stanno ridando vita al centro città, che combattono rassegnazione ed esodo dal centro della capitale, abitandolo e ri-aprendo luoghi di ritrovo, iniziative artistiche e culturali spesso mirate all’incontro e alla condivisione con «l’altra parte». In questo modo il centro città è tornato attraente, vivo, in voga.
Nicosia master plan, fondato nel 1979, è un programma di recupero che si occupa di monumenti, edifici, musei, centri culturali, aree pedonali e residenziali, animato dall’intento di promuovere la storia condivisa dalle due parti e considerarne una futura riunificazione. Gli obiettivi riguardano gli aspetti architettonici, abitativi, sociali ed economici della città, partendo dalle conseguenze catastrofiche della divisione. Il supporto della Facoltà di Architettura promuove idee e progetti affinché gli interventi a Nord e a Sud siano unitari e guidati dai medesimi princìpi, nella prospettiva di una prossima riunificazione, così da poter avere presto un’unica capitale anche nel suo disegno urbano, sebbene, proprio nell’arteria più affollata, un blocco circolare di pietra con incise parole quali “diritto” “democrazia” “armonia”, “rispetto” ricorda i tanti vani tentativi proposti dall’Onu.
Se condividere la stessa memoria è doloroso, voltare pagina collettivamente può essere la soluzione: capire e spiegarsi che non esiste la “mia parte” e l’altra parte, le “mie” moschee e le chiese degli “altri”, che niente inizia e niente finisce davanti a un muro che non c’era.
Visitare posti come Nicosia è importante. Vivere e studiare in una capitale divisa non è solo un dono prezioso, un’opportunità umana e culturale incomparabile. ma anche una grande responsabilità, un’esperienza che è urgente raccontare, per mettere in evidenza una situazione sociale e civile che nessuno dovrebbe accettare. Soprattutto dopo aver conosciuto da vicino, e da più voci, quel dolore che ogni abitante si porta dentro, quella ferita che spacca terra ed anima.
Neşe in turco significa “gioia” ed è raro che qualcuno porti il proprio nome così bene come sa fare la professoressa, giornalista e poetessa turco-cipriota Neşe Yaşın, occhi scuri come fondi di caffè, ora sorridenti ora assorti ad inseguire chissà quanti e quali pensieri. È dal dolore, che nascono le sue poesie, dagli abissi che riemergono ricordi vividi traslati e tradotti in versi. E solo chi si trova faccia a faccia con tanta amarezza, possiede la forza di celebrare la vita, di amarla, di non lasciare che passi un secondo senza dispensare la propria felicità agli altri.
Nese insegna lingua dei media e letteratura turco-cipriota al Dipartimento di turcologia dell’Università di Cipro, a Nicosia, parte greca, dove vive. A lezione di lingua dei media noi – i miei compagni greco-ciprioti, io e Neşe, chiamata da tutti così, per nome – due volte a settimana leggevamo, commentavamo e discutevamo di tutte le testate giornalistiche turche e turco-cipriote. Era un’abitudine faticosa, le notizie erano sconfortanti, la violenza inarrestabile, le decisioni dall’alto ingiuste, antidemocratiche. Neşe era solita rincuorarci, prima di concludere le lezioni, con la lettura di notizie liete dal e del mondo, spiragli di fiducia e salvezza nascosti tra gli occhi, i sommari e le bombe. Perché la speranza alimenta ed è alimentata dalla poesia, che ovunque, tra le ferite, tra malvagità e incomprensioni, a volte fa sorridere, altre volte bagna gli occhi, ma sempre qualcosa muove e commuove.
Nata nel febbraio del 1959, Nese nel ’74 era una giovanissima co-fondatrice della Beat generation cipriota, mentre le sue poesie iniziavano ad essere pubblicate su delle riviste.
«Vengo da una famiglia di poeti. Mio padre Özker Yaşın e mio fratello Mehmet Yaşın sono poeti. Ho vissuto i primi anni della mia infanzia a Peristerona, un villaggio abitato da ciprioti turchi e greci. Mio padre aveva una libreria a Nicosia. Mi leggeva le sue poesie e quelle di Nazim Hikmet. Mi portava con sé quando andava a comprare libri a Istanbul. Nel ’64 la mia famiglia fu costretta a emigrare in un’area di soli turco-ciprioti».
Coi fatti e con le parole, cresceva e si ribellava al nazionalismo imperante, alla divisione dell’isola, alla violenza. Faceva anche parte dell’Organizzazione Giovanile Studenti Ciprioti, mi racconta.
Parla lentamente, e sorride, come se stesse sfogliando quei ricordi pagina dopo pagina, rivivendo quei momenti.
«Non c’erano telefoni e non potevamo incontrarci, inviavamo lettere e poesie in Europa e da lì qualcuno di noi le mandava a Cipro sud. Era così che organizzavamo anche festival internazionali».
A diciassette anni scrisse una poesia talmente incisiva che rimane ancora oggi l’emblema della sensibilità di Neşe in quanto scrittrice, pacifista, idealista.
Dice sempre mio padre/bisogna amare la propria patria/la mia patria/è divisa in due/quale metà/dovrei amare?
Diventò una canzone, una poesia da imparare a scuola (del nord e del sud), un messaggio politico, uno slogan pacifista, e da quel momento Neşe scelse il mondo come casa, la poesia come patria e carta d’identità e la pace come meta. Due anni dopo fu la prima cittadina turco-cipriota a ricevere il Premio Speciale di Arte e Cultura nella parte greca dell’isola.
E se il nazionalismo ancora insiste su quella spaccatura che lei sente anche dentro di sé, le sue poesie fanno da ponte tra turco-ciprioti e greco-ciprioti, accomunati dall’amore per la loro isola, un’unica terra divisa per procura, per mano straniera, da una sofferenza collettiva, e una speranza ancora più forte.
«Scrivo in turco, ma appartengo ad un’altra geografia, un’altra storia, un’altra cultura e tradizione. La nostra non è poesia turca. Ha un’altra identità. Piuttosto trovo somiglianze tra la poesia cipriota e la poesia curda. Perché anche loro sono un popolo ferito. E anche loro aspettano con gioia un domani di libertà. Dopo il ’74 trovavamo il modo di inviarci e tradurci le poesie con i greco-ciprioti ed erano piene di tratti comuni. Tradotte in una terza lingua, non erano più distinguibili»
Soldato togliti quella divisa/ Vieni accanto a me/ Dammi le anime uccise di questi tre bambini/ Che dimentichi i tormenti, il primo/ Che si lavi via la terra, l’altro/ Che vaghi candido nella notte, il terzo, a riabbracciare sua madre in lacrime
Cosa s’intende per poesia cipriota?
«Siamo testimoni di due guerre e questo ha influenzato molto la nostra poesia. Essere ciprioti è rimanere un po’ bambini. Siamo sempre alla ricerca di quei giorni innocenti, per questo l’infanzia ritorna sempre nelle nostre poesie. E poi abbiamo iniziato a scrivere da piccoli. Ci siamo sempre opposti al linguaggio dei “grandi uomini” attraverso la lingua dei bambini, delle donne. Niente di studiato, solo uno spontaneo ribellarsi alle loro parole».
Nel parco una triste panchina/aspetta i due vecchi/ che riposano al cimitero/ ritorna chi è morto/ nella terra dei ricordi
«Tutto quello che scrivo è politico», perché?
«Nelle mie poesie racconto di amori tra due persone, perché è da lì che tutto ha inizio. Ingeborg Bachmann diceva: “il fascismo inizia tra due persone”. Così è per la pace. Col rapporto tra due persone mi riferisco a tutti i rapporti del mondo. Uno vuole comandare, decidere, l’altro resiste, o subisce. Anche Cipro è un rapporto tra due parti. In tutte le mie poesie ci sono allegorie politiche. C’è sempre un’alterità, non siamo mai soli. Anche quando ci relazioniamo col mondo, con la natura, con la vita, sempre in due. Spesso scrivo “amore” ma intendo “pace”, perché è più diretto, nessuno si rifiuta di parlarne»..
Le nuvole del nord/stringono la mano alle nuvole del sud/ La Repubblica federale delle nuvole/ Le nuvole passano il confine/ I soldati aprono il fuoco/ E le nuvole piovono sul mondo/ La nuvola vede il mio villaggio/ Al di là del muro/ Quanta bellezza negli occhi di una nuvola
Come vedi la situazione di Cipro?
«Siamo probabilmente nel momento più disperato. Talvolta ci entusiasmiamo, se ci sono due leader disposti alla pace pensiamo che si troverà un accordo. S’incontrano, si stringono la mano, ma poi non sono in grado di unificare l’isola. Credo che la pace si faccia per strada. Coinvolgendo tutti, come provano a fare i Curdi. Se i ciprioti di entrambe le parti scendono per strada, si può fare pace, io ci credo. La situazione è complicata: abbiamo subìto una divisione etnica, un terzo dell’isola è occupato, è stato imposto un confine artificiale, estranei hanno preso le case delle persone, che hanno dovuto lasciarle forzatamente. Come si può dimenticare una forzatura del genere? Dover lasciare il luogo in cui si vive provoca un dolore profondo»
Neşe ha quella forza rara di chi condivide un dramma e sorride a chi l’ascolta, conforta anziché crollare. Abbiamo chiacchierato in un jazz club nel centro di Nicosia, accanto alla rotonda Oxi, che significa “No” e ricorda il rifiuto del Primo Ministro greco di lasciar entrare in Grecia le truppe di Benito Mussolini: il no al fascismo che viene celebrato ogni anno il 28 Ottobre.
È una calda sera di fine giugno e al club si esibiranno gli allievi del conservatorio di Nicosia. Suoneranno studenti di entrambe le parti: la musica è libera come l’aria in cui prende vita, non si ferma, non conosce bandiere e confini. Eppure tocca l’anima, in ogni angolo del mondo.
Il sassofonista è turco-cipriota, prima di suonare vuole bere una Keo, la birra cipriota. Lo vedo arrivare al bancone e accorgersi di avere solo lire turche: ha dimenticato di cambiarle prima di attraversare il check point. Il barista le rifiuta e gli offre la Keo. Brindano. Neşe sorride; anche così si fa pace.
Ho lasciato Nicosia il giorno dopo, mi sentivo anch’io spaccata a metà, una spaccatura che si ricolma di gioia e gratitudine per ogni momento trascorso su quell’isola, a casa lontana da casa.
Se morissi/ vorrei che sbocciasse un fiore sulla mia tomba/ Se morissi/ Avrei paura del buio/ Vorrei volare in cielo/ Se morissi/ Vorrei che sbocciassero poesie/ Tra i fiori/ Nel cuore della gente/ Se morissi/ Vorrei dissetare quel giardino proibito/ Dall’altra parte del confine
E mentre vago per Cipro per l’ultima alba, l’odore dei gyros si mischia a quello del kebab, il richiamo acceso del muezzin si sovrappone al suono lamentoso delle campane e gatti senza identità si rincorrono tra terra greca, terra occupata e terra di nessuno. Liberi come l’aria, la musica, la poesia.