di Giovanni Cordova
Viviamo tempi confusi – forse di declino del dibattito politico e culturale, i cui segni si palesano nella contrapposizione tra categorie di diritti ogniqualvolta si discuta della loro estensione o del loro potenziamento. Che si tratti di contrastare i reati d’odio o di promuovere forme di riconoscimento per (non troppo) nuove forme di famiglia, basta poco per scatenare benaltrismi ormai trasversali a sensibilità e collocamenti politici.
È questo il caso delle periodiche discussioni sulla cittadinanza, di fatto negata a generazioni di individui i cui genitori non sono italiani, indipendentemente dal territorio di nascita, e che per vedersela riconosciuta devono soddisfare precisi requisiti – compresi quelli di reddito – tutt’altro che semplici da ottenere.
Ci si può legittimamente chiedere se questa sia una questione di ‘destra’ o di ‘sinistra’, come sempre più spesso fanno gli alfieri del politicamente scorretto, secondo i quali gli eredi della sinistra, un po’ in tutta Europa, hanno abbandonato i temi sociali per dedicarsi ai diritti civili, frutto – questo – di un’inversione ideologica che ha visto tramontare l’affinità elettiva con operai e proletari e insorgere la predilezione per i migranti, i nuovi ‘ultimi’ con cui salvaguardare gli ultimi brandelli di un riferimento alla vocazione storica della sinistra [1].
È l’annoso dibattito sociologico tra cittadinanza come status sociale, indice degli standard di benessere economico e sociale di una data società – in cui si ritroverebbe ‘fornita’ al pari di ogni altro bene o servizio – o invece diritto politico. In poche parole: la rivendicazione del diritto alla cittadinanza determina ed è al tempo stesso il segno di un declino del conflitto di classe o, al contrario, partecipa della costruzione di uno spazio conflittuale? (Simonicca 2012).
Non intendo sollevare tale dibattito in queste pagine, limitandomi tuttavia a citare quello che trovo uno splendido passaggio di Marx ed Engels che amo rileggere quando avverto la necessità di fissare o comunicare la mia sensibilità politica e culturale. Ne L’ideologia tedesca, i due autori scrivono che
«il comunismo si distingue da tutti i movimenti finora esistiti in quanto rovescia la base di tutti i rapporti di produzione e le forme di relazione finora esistite e per la prima volta tratta coscientemente tutti i presupposti naturali come creazione degli uomini» (1958: 69) [2].
Si tratta di un interessante evocazione del rapporto natura-cultura, mediato dall’ideologia e dalla politica, che troviamo peraltro negli scritti gramsciani caratterizzati da acuta sensibilità antropologica (Pizza 2020), e che qui non posso che evocare.
In ogni caso, se la cittadinanza può essere intesa in un primo e limitato senso formale come status che sanziona l’appartenenza a uno Stato, i “presupposti naturali” dell’appartenenza sono fondati sul sangue e sulla ramificazione ctonia delle genealogie politiche e parentali. Non è un caso che, come hanno recentemente contribuito a mettere in luce Mellino e Pomella (2020), nella storia del marxismo e della sinistra sindacale e rivoluzionaria, i rapporti di produzione e l’assetto coloniale dell’ecumene capitalistico sono stati sin dalle origini tutt’altro che raramente tematizzati nel loro rapporto strutturale – dal marxismo nero al femminismo postcoloniale, riprendendo il sottotitolo del volume appena citato. Ma questa è un’altra storia.
Comunità e conflitti
In una riflessione dedicata alla categoria politica della cittadinanza, Etienne Balibar metteva in guardia lettori e lettrici da una sua sussunzione in un orizzonte troppo saldamente comunitario. Secondo lo studioso francese,
«la cittadinanza in generale, in quanto idea politica, comporta indubbiamente un riferimento alla comunità (poiché, così come una cittadinanza senza istituzione, l’idea di una cittadinanza senza comunità è di fatto una contraddizione in termini), e tuttavia non può avere la sua essenza nel consenso dei suoi membri» (2002: 51-52).
E ciò, sostiene nelle pagine successive, in ragione del fatto che se il fondamento della cittadinanza fosse la salda e statica appartenenza consensuale di cittadini a una comunità, subentrerebbero facilmente princìpi di esclusione di categorie percepite e costruite come politicamente e culturalmente aliene.
Il punto dirimente dell’argomentazione di Balibar consiste nel rigettare letture rigide e ipostatizzate della cittadinanza, siano esse ancorate ai testi costituzionali o incistate nei deliri di un primato ctonio tutt’altro che secondario nell’architettura dei rapporti politici e sociali di tanti Stati democratici. Anzi, perché di cittadinanza si possa compiutamente parlare, è necessario che lo spettro delle rivendicazioni dei diritti su cui essa poggia entri inevitabilmente in conflitto con la grammatica ossificata delle relazioni di potere storicamente determinate in ogni società. Il conflitto latente di ogni cittadinanza possibile è inscritto nelle inevitabili contraddizioni che l’articolazione dei rapporti sociali e delle condizioni materiali di vita incontra nel divenire storico. Ogni avanzamento nel campo dei diritti scaturisce dall’apertura, spesso drammatica, sempre conflittuale, di una breccia nell’egemonia delle classi al potere. Insomma, Balibar pare suggerirci che l’incontro tra cittadini e cittadine non possa avvenire senza un conflitto che attraversi lo spazio sociale da loro attraversato, riscrivendo gerarchie, asimmetrie, diseguaglianze.
Vorrei soffermarmi brevemente sulla prima parte del ragionamento di Balibar, quello secondo cui la dimensione dell’appartenenza non esaurisce il portato e le potenzialità della cittadinanza – come si può evincere dall’evenienza dei riots nella banlieu parigina. Dai due termini (appartenenza e cittadinanza) si dipanano campi semantici e sociali distinti. Ci può essere appartenenza senza cittadinanza, assumendo quest’ultima come categoria politica che non può reggersi senza un’istituzione centralizzata quale lo Stato. Anche assumendo una prospettiva formalista di cittadinanza, che riconosca nella cittadinanza un’appartenenza codificata giuridicamente e da cui derivano tipologie di diritti e di doveri, esplorazioni etnografiche delle modalità di appropriazione di questo statuto da parte di gruppi sociali o categorie di individui temporaneamente sprovvisti sono sempre possibili.
Tuttavia, le potenzialità offerte da un’esplorazione antropologica della cittadinanza risiedono nell’attenzione rivolta a discorsi e pratiche ascrivibili all’instabile e ‘contestuale’ set di relazioni tra ‘cittadini’ e Stato (Gregory, 2004). Relazioni, quelle tra cittadini e Stato, nutrite da specifiche immagini, rappresentazioni e pratiche intorno a diritti, riconoscimento dell’autorità e agentività politica, che rinviano tra l’altro a un esame delle relazioni orizzontali – comunitarie – tra cittadini stessi (Neveu, 2005). In effetti, la cittadinanza non è solo una relazione con lo Stato, ma l’appartenenza e l’identificazione a una collettività, giuridicamente fondata o meno.
Sgombrando il campo da equivoci, non sostengo che la percezione di donne e uomini di condividere una ‘comunanza antropologica’, da cui derivano pratiche sociali e rappresentazioni estremamente radicate negli immaginari e nei comportamenti quotidiani, sia scientificamente infondata o politicamente sempre nefasta. I progetti comunitari hanno mutato e ‘fatto’ la storia, quasi sempre in senso progressivo, e difficilmente può darsi azione collettiva senza un qualche riferimento comunitario. Associare aprioristicamente la comunità al razzismo, oltre che poco accorto politicamente, equivale a stabilire associazioni metonomiche che sono il bersaglio dei fautori della critica al politicamente corretto (Friedman 2018). Altro è, chiaramente, decostruire gli essenzialismi comunitari scorgendovi differenze e stratificazioni interne che, pur non minando unità di azione o di rappresentazione, inseriscono una sana discontinuità nei miti dell’appartenenza e nei primati che possono derivarne.
Nella declinazione di ‘cittadinanza’ che personalmente preferisco, essa è sempre insorgente (Holston 1999) e capace di allargare lo spettro di mobilitazioni sociali e utopie collettive oltre memorie e nostalgie inviolabili. Si potrebbe essere tentati di considerare queste riflessioni astratte o addirittura astruse, slegate e colpevolmente lontane dalla vita quotidiana delle giovani generazioni migranti tenute ai margini del corpo della nazione. Eppure, ritengo che ogni afflato egalitario possa solo beneficiare da un allargamento della prospettiva analitica e politica sulle cittadinanze.
I tormenti dei non-cittadini
In un post su Facebook che ha registrato grandi popolarità e diffusione, la scrittrice ghanese Djarah Kan ha causticamente commentato la positiva conclusione del percorso di accesso alla cittadinanza della sorella.
«Hai fatto il giuramento per la cittadinanza?
Sì.
E come è andata?
È stato veloce.
Sei felice?
Non particolarmente. Ma almeno è finita.
Già. Finita. Vorrei raccontare la vera storia di come mia sorella conquistò il diritto di non essere buttata fuori a calci dal Paese in cui è nata e cresciuta. Vorrei raccontarvi delle giravolte, delle centinaia di euro spesi per “comprarsi” la cittadinanza, quel diritto fatto passare per un regalo, che lo Stato italiano, previo pagamento di 250 euro e soddisfazione di “particolari requisiti” forse ti concede.
Vorrei raccontarvi dei suoi lavoretti schifosi e sottopagati, fatti solo per mantenere quel permesso di soggiorno che da disoccupata nel bel mezzo di una crisi economica, avrebbe avuto il rischio di perdere, mentre l’espatrio aleggiava sempre come una minaccia su ogni scelta di vita.
E invece oggi niente “black Pain”, niente dolore di seconda mano che per “sentirli più vicini”. Niente storie di nere che soffrono e che vi fanno riflettere sui vostri privilegi.
Mia sorella sorride. Il suo è il sorriso sfrontato di chi non dice “grazie Italia”, ma solo “finalmente è finita”. Il suo è un sorriso di una donna di trentaquattro anni che da oggi dipenderà un po’ di meno dalle campagne elettorali fatte sulla pelle degli immigrati e dei figli degli immigrati. Dalle leggi che cambiano ogni due, tre, dalle assurdità della destra, e dalle inadempienze della sinistra. Il suo è il sorriso di chi è riuscito a sottrarsi ai meloni e alle salviette di turno. È libera dal prossimo genio che deciderà di farsi una carriera pensando di peggiorare ancora di più, la normativa sullo Ius Soli.
La libertà non dovrebbe essere un privilegio.
Certo se fosse stata ricca si sarebbe potuta tenere il suo permesso di soggiorno e la sua cittadinanza per quanto voleva. Ma è nata povera. Ed essere una donna povera, nera e figlia di immigrati in Italia, non conviene per niente. Anzi, pericoloso.
Oggi mia sorella fa l’orafa. È il mio orgoglio e io sono fiera di essere una parte dei suoi affetti. Ma soprattutto oggi mia sorella è libera. Come lo siete voi.
E non c’è niente di più bello, salvifico e prezioso di avere una donna nera, autosufficiente e libera, che cammina in giro per il Mondo, senza dire grazie e scusa a nessuno.
Benvenuta nel tuo Mondo»
Cito per intero questo stralcio diaristico perché nell’attuale ripresa del dibattito sullo ius soli continuo a cogliere un registro semantico proprio delle ‘svolte’ politiche e sociali – come se l’introduzione di un regime di cittadinanza teso al riconoscimento dello status di cittadin* a chi nasce o cresce in Italia fosse sufficiente a incarnare ‘politiche della nazione’ di segno radicalmente diverso.
Non è così, e certo non perché il dibattito e la rivendicazione di un ampliamento delle maglie della cittadinanza siano superflui o inopportuni: anzi, tutt’altro. Però queste riflessioni, da pungolo a classi dirigenti sistematicamente pronte a sacrificare o procrastinare scelte ormai urgenti sulla base di sterili calcoli elettoralistici, rischiano di difettare di profondità storico-genealogica, e dunque di lungimiranza, qualora non inquadrino il tema della cittadinanza nel più ampio novero delle appartenenze e delle esclusioni dal corpo politico; del razzismo strutturale e istituzionale; delle categorizzazioni svalutative dell’essere umano che accompagnano in guisa di implacabile controcanto l’era della modernità e le sue istituzioni.
Se di cittadinanza dobbiamo e vogliamo discutere, non possiamo esimerci dal considerare ad ampio spettro le discriminazioni quotidiane cui va incontro una parte consistente della popolazione ‘straniera’ residente in Italia; discriminazioni che, dietro le immediate fenomenologie facilmente appuntabili come episodiche e frequentemente annotate dalla stampa nazionale, altro non sono che segni tangibili e coerenti di una grammatica strutturale di alterizzazione che si incardina in colonialismi vecchi e nuovi, esterni e interni.
Djarah Kan cita l’esempio dei 250 euro sborsati per l’ottenimento di un diritto. È solo uno, e certo non il più evidente, dei sintomi morbosi che si presentano nelle relazioni quotidiane tra cosiddetti stranieri e istituzioni dello Stato. Per accorgersene basta recarsi in una Questura italiana, sondare come e quanto si abbattano sulle esistenze di fasce corpose del tessuto sociale nazionale le politiche dell’indifferenza e la scure della burocrazia. Dietro queste ultime, come ha felicemente notato Michael Herzfeld (1992) ormai vent’anni fa, non si cela solo il guazzabuglio di codicicchi, prassi, formalità e arbitrarietà di funzionari indisposti, un amalgama indecifrabile ai più e dotato di ingarbugliata autoevidenza; ma anche una solida cosmologia, atta a respingere e demarcare ‘noi’ dagli ‘altri’ in processi formali su cui vengono foggiate appartenenze ed esclusioni.
Cos’altro può ergersi dietro le condizioni indegne in cui vengono raccolte le pratiche per l’attribuzione di un permesso di soggiorno o dietro l’economia morale del sospetto che aleggia sull’intero processo di riconoscimento – o rifiuto – di una forma di protezione ai richiedenti asilo? O ancora, come non citare le strettoie che vincolano il rinnovo di un documento all’esibizione di una residenza e di un contratto di lavoro, ignorando scientemente la proporzione che assumono le configurazioni extraformali del lavoro in questo Paese o le condizioni in cui maturano le relazioni tra proprietari di casa e affittuari.
Ostilità, forse, è la parola giusta; diventata legge dello Stato durante questa legislatura, quando è stata negata ai migranti la possibilità di avere accesso alla procedura di iscrizione anagrafica – essere cioè registrati negli elenchi dei territori in cui risiedono e usufruire dei servizi di welfare e assistenza.
C’è un episodio che potrebbe essere citato. Non è un fatto ‘etnografico’, frutto cioè di un rapporto ormai pluriennale che intrattengo con tante persone straniere che passano per l’Italia, le quali scontano ogni giorno diffidenza selettiva e mirata. Ostacoli il cui fondamento archetipico – dal punto di vista del percorso di accoglienza in Italia – passa, per i richiedenti asilo, dalla frammentazione istituzionale delle categorie di cui si è insigniti: rifugiato o migrante ‘economico’, il quale pretenderebbe di ottenere protezione e sussidi che non merita attraverso menzogne spudoratamente esibite in sede di audizione presso una commissione territoriale.
Cito un fatto di ‘cronaca’ e tuttavia politico, in quanto illustra tragicamente la portata della torsione con cui alcuni soggetti divengono non-persone nel loro itinerario migratorio. Ne scrive anche Mimmo Lucano nel suo libro Il Fuorilegge (2020).
Alla baraccopoli di San Ferdinando, sgomberata a favor di telecamere dall’ex ministro Salvini due anni fa e poi rinata sotto forma di nuovi diffusi insediamenti informali nella Piana di Gioia Tauro, una notte di fine gennaio, nel 2018, divampa un incendio. Una combustione purtroppo abituale, nonostante che le cause di quell’episodio non furono mai del tutto chiarite, tra stufe elettriche che vanno facilmente in cortocircuito e presenza ingestibile di rifiuti e materiali vari. La mattina viene trovato carbonizzato un corpo di donna: è di una ragazza nigeriana, Becky Moses. Accanto a ciò che resta di lei viene ritrovato un documento: è la sua carta d’identità. A firmarla era stato l’ex sindaco di Riace, che si era preso la responsabilità di attribuirle una residenza, con uno di quegli atti che sarebbero poi confluiti nella selva di procedimenti giudiziari a suo carico. Carta d’identità senza la quale la giovane sarebbe stata costretta a vedersi preclusa ogni possibilità di stabilizzazione (lavorativa, documentale, ecc.). Non basterà però a spezzare la circolarità oppressiva che può ritorcersi contro una presenza straniera, man mano che sfumano le possibilità di ottenere un documento, un lavoro, una casa, il permesso di soggiorno. Così, finito il suo percorso di accoglienza a Riace, costretta a infilarsi da sola nell’imbuto di un itinerario di post-accoglienza pieno di insidie e insicurezze, Becky troverà posto nella baraccopoli di San Ferdinando, per essere ospitata da alcuni connazionali.
Migranti è un iperonimo che non rende giustizia delle molteplici sfaccettature che caratterizzano storie e profili di chi definiamo sommariamente ‘stranieri’. Postulare particolari affinità tra una ragazza nata a tre anni in Italia da genitori marocchini e un rifugiato azero in transito dall’Italia per un paio di anni per poi stabilirsi in nord Europa non è un procedimento del tutto coerente. Ma senza considerare queste dimensioni preliminari attinenti al trattamento politico e culturale della popolazione presuntivamente non italiana, il dibattito sullo ius soli rischia di non schiudere le potenzialità che esso possiede in potenza.
Il riconoscimento della cittadinanza passa per l’attenzione riposta alla costituzione post-coloniale delle istituzioni dello Stato e alla colonialità del suo farsi-nazione. Del resto, non c’è da sorprendersi della costante tabuizzazione dell’esperienza coloniale italiana, i cui crimini e misfatti sono di rado oggetto di seria riflessione, discussione o divulgazione. Come scrive Mellino (2015), le cittadinanze post-coloniali in cui sono catturati gli stranieri in Italia poggiano su una valutazione differenziale delle persone che in ultima analisi è razziale e razzista. Il pur raffinato e intelligente concetto di razzismo differenzialista proposto da Taguieff – secondo il quale le forme del neo-razzismo asseriscono l’irriducibilità della diversità culturale, piuttosto che propugnarne gerarchizzazioni biologizzanti – rischia di mantenere implicito se non addirittura rimosso il portato (s)valutativo su cui si innestano le relazioni politiche e istituzionali tra gruppi sociali.
Per questo, ritengo che l’estensione della cittadinanza non possa esaurirsi in operazioni con cui classi dirigenti trasversalmente responsabili di inazione e miopia politica si battano il petto e vedano rimessi i propri peccati. Essa deve piuttosto ambire a costituire un atto di giustizia sociale capace di attraversare memoria e presente della società italiana nel suo complesso.
Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Per Jonathan Friedman (2018), che ha attraversato più volte nel suo lavoro il tema del politicamente corretto, tale inversione ideologica si inscrive nella necessità delle élite cosmopolite di mantenere il controllo dell’ideologia nell’era della globalizzazione neoliberale.
[2] Questo passaggio è citato in Modenesi 2015.
Riferimenti bibliografici
Balibar É., Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.
Friedman J., Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Milano, Meltemi, 2018.
Gregory S., Infrapolitics, in D. Nugent, J. Vincent (a cura di), A Companion to the Anthropology of Politics, Malden, Blackwell Publishing, 2004: 282-302.
Herzfeld M., The Social Production of Indifference, Chicago, The University of Chicago Press, 1992.
Holston J. (a cura di), Cities and Citizenship, Durham, Duke University Press, 1999.
Lucano M., Il fuorilegge. La lunga battaglia di un uomo solo, Milano, Feltrinelli, 2020.
Marx C., Engels F., L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1958.
Mellino M., Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia, Roma, Carocci, 2015.
Mellino M., Pomella A. R. (a cura di), Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale, Roma, Alegre, 2020.
Modenesi M., Subalternità, antagonismo, autonomia. Marxismi e soggettivazione politica, Roma, Editori Riuniti, 2015.
Neveu C., 2005 Les enjeux d’une approche anthropologique à la citoyenneté, in “Revue européenne des migrations internationales”, 20(3), 2005 : 89-101.
Pizza G., L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione, Roma, Carocci, 2020.
Simonicca A., Introduzione all’edizione italiana, in P. Willis, Scegliere la fabbrica, Roma, CISU, 2012: 7-75.
______________________________________________________________
Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.
_______________________________________________________________