Il terrorismo internazionale di matrice islamica, oggi in apparente arretramento dopo l’escalation di violenza degli ultimi anni in suolo europeo e medio-orientale, è stato e continua ad essere oggetto di studio da diverse discipline che cercano di coglierne peculiarità e motivazioni di fondo. Molti saperi sono riusciti a dare sicuramente un contributo più che importante nell’avanzamento della conoscenza intorno all’islamismo, focalizzandolo ora dal punto di vista sociologico ora da quello filosofico-ideologico. Il valore di questi studi è presto detto: gettare luce su un fenomeno che è entrato di prepotenza nella nostra vita quotidiana, sconvolgendo le precedenti rappresentazioni. Un fenomeno che ha influenzato l’opinione pubblica, specialmente per quanto riguarda la percezione della sicurezza e dell’identità nazionale. Ne è quindi emerso un quadro generale interessante, ma senza pretesa di globalità intorno agli aspetti dell’islamismo radicale.
In effetti, se dal punto di vista sociologico è emerso che gli islamisti autori di massacri e violenze imparagonabili rivelano un vissuto personale sorprendentemente affine (quello di giovani lontani dalla fede spesso ai margini della società, come ben descritto dalle indagini di Renzo Guolo), e se dal punto di vista ideologico sono magistrali le intuizioni di Kepel e Roy, ciò non toglie che possano essere possibili nuove frontiere di ricerca, nuovi modi di affrontare un fenomeno epocale come quello dell’islamismo radicale.
Una nuova prospettiva di ricerca che potrebbe costituire la chiave d’accesso ad una maggiore comprensione del fenomeno è quella proposta da Bruno Étienne nel suo testo L’islamismo radicale (Rizzoli, 1988) dove il sociologo francese, dopo un’attenta e profonda analisi sulla violenza religiosa nei territori del Medio Oriente, giunge ad affermare che nelle espressioni, nelle rivendicazioni, nella forza sociale dell’islamismo radicale sono presenti temi e concetti comuni alle altre due religioni abramitiche, ebraismo e cristianesimo. L’intuizione dello studioso francese si mostra di rottura e estremamente innovatrice rispetto agli studi pregressi sull’argomento, tanto da far laconicamente commentare allo stesso Étienne che «La forza delle cose mi ha probabilmente portato a risultati ai quali la società francese è reticente e poco ricettiva. E dal momento che l’opera è compiuta, mi devo preparare ad affrontare l’esperienza di un rifiuto» (Étienne, 2001: 265).
Tra i pochi studiosi che hanno accettato la sfida di Étienne a proseguire la via di ricerca da lui indicata (ma non percorsa) emerge per originalità e rigore l’opera di Pasquale Arciprete, studioso della letteratura apocalittica giudaico-cristiana. Sarà proprio il suo testo Apocalittica e violenza politica nelle tre grandi religioni abramitiche a rappresentare un notevole avanzamento nel percorso indicato dal sociologo francese. Un percorso che – è questa la speranza dello studioso campano – oltre al suo interesse scientifico e accademico «possa aiutare nell’opera di diffusione e rilancio di uno “spirito religioso” più pacifico e rispettoso di tutti gli uomini» nella ferma convinzione che «se davvero ci si vuole opporre alla strumentalizzazione terroristica di qualunque credo religioso, forse lo si può fare più proficuamente iniziando a smascherare le dinamiche sovversive dell’escatologia apocalittica» (Arciprete, 2011. 105).
L’intuizione di Étienne: un “mito stimolante” alla base della violenza religiosa
Il mondo di senso entro cui vivono gli attivisti dell’islamismo radicale è nettamente differente da quello del mondo occidentale, dove la religione trova enorme fatica a emergere nello spazio pubblico. In effetti, gli islamisti pongono come obiettivo delle loro rivendicazioni il ritorno della religione nella società, invocando la ricostituzione della Umma, ormai smarrita e distrutta dalla modernità occidentale penetrata nel mondo medio-orientale. La ricostituzione della umma islamica è l’ideale a cui deve tendere ogni fedele alla religione del profeta Muhammad, è l’utopia di un mondo “altro” a cui è possibile pervenire solo con l’abbattimento del mondo in cui viviamo. Seguendo le illuminanti parole di Étienne, l’ideale della umma è «un mito stimolante, un incitamento. L’utopia è la proiezione di ciò che dovrebbe essere, ciò che sarebbe già se l’Altro non fosse venuto a turbare l’armonia» (Étienne, 2001: 266).
L’umma è quindi un’utopia in totale contrasto con il mondo odierno, ma non può essere definita come un mero ideale normativo delle azioni del fedele. Ogni pio musulmano ha il dovere di entrare nel mondo odierno e di combatterlo affinché possa ricostituirsi l’umma dei fedeli; il ritorno a quell’età dell’oro dei califfi ben guidati è possibile ed è il termine necessario della Storia: il compito del musulmano sarà quindi quello di capovolgere questo mondo attraverso le sue azioni, il suo impegno nella società. Diviene quindi chiaro come «l’islamismo radicale è l’esigenza del Regno, e il Regno che è di questo mondo è un mondo altro, il compito che l’uomo deve realizzare» (Étienne, 2001: 267).
Il punto successivo a queste riflessioni sull’utopia, sull’avvenire di un mondo altro rappresenta la vera grande intuizione di Étienne, che potrebbe essere definita, senza ragionevoli timori di smentita, «un’intuizione anticipatrice delle più aggiornate spiegazioni del terrorismo islamico» (Arciprete, 2011: 58). Lo studioso francese propone, alla fine del suo studio sull’islamismo radicale, un approccio storico-comparativo con le manifestazioni violente e rivoluzionarie avvenute nell’ebraismo e nel cristianesimo, nella convinzione che «un’unica fonte ispiratrice muove i movimenti integralisti di tutte e tre le culture religiose» (Arciprete, 2011: 58).
Questa fonte da cui poter trarre preziose indicazioni sulle violenze implicite nelle tre religioni abramitiche, accennata da Étienne, è ben messa in evidenza da Arciprete: «obiettivo dello studio è mostrare come lo schema di salvezza apocalittica costituisca in effetti il capo di un ininterrotto filo di violenza rivoluzionaria, il quale dall’antichità si dipana nei secoli successivi e riesce a manifestare la sua influenza ancora ai giorni nostri» (Arciprete, 2011: 64). Occorre adesso approfondire il tema dell’apocalittica per poter giustificare l’avvio di una ricerca che si preannuncia complessa e stimolante allo stesso tempo.
La spiritualità apocalittica come “filo rosso” da seguire
Il terrorismo odierno necessita di schemi, categorie concettuali peculiari per poter essere colto nella sua essenza. La proposta di Étienne (perseguita da Arciprete) si presenta quindi come una soluzione affascinante quanto complessa: lo studio dell’apocalittica giudaico-cristiana permetterebbe di cogliere il senso più profondo delle rivolte di stampo religioso, caratterizzate da una violenza efferata quanto inspiegabile. Come ben descritto da Arciprete,
«L’intricata matassa in cui sembrano intrecciate religione, violenza e terrorismo appare difficile da sciogliere e spesso addirittura senza senso, quando affrontata con i vecchi schemi concettuali provenienti dal materialismo storico e/o con logore alternative destra/sinistra, progressivo/rivoluzionario. [...] Tutto il quadro appare invece immediatamente più chiaro e comprensibile, quando viene letto e indagato mediante categorie religiose di marca apocalittica e/o che fanno riferimento al giudeo-cristianesimo radicale [...]» (Arciprete, 2011: 51).
Giustificare una prospettiva del genere richiede evidentemente un approfondimento riguardante l’apocalittica che possa fare intendere la validità e la fondatezza di tale pretesa interpretativa. Dal punto di vista strettamente storico, l’apocalittica trova origine in ambiente giudaico già nel VI sec. a.C., incontrando un particolare successo tra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. Durante questo periodo storico la produzione di testi letterari mostra affinità di genere e temi tale da consentire di essere ricondotti sotto la classificazione di “letteratura apocalittica”. Tuttavia, l’affinità di temi non consente un rimando diretto a una teologia, ad una antropologia o a un sistema religioso definito e completo. Per questo motivo, gli studiosi dell’apocalittica preferiscono parlare di un orizzonte di senso, di un’“atmosfera” ben percepibile che «permea ogni piano dell’esistenza e che si traduce sia in concezioni sia in atteggiamenti quotidiani» (Arciprete, 2011: 133).
La spiritualità apocalittica giudaico-cristiana poggia quindi non su idee e concezioni cristallizzate, ma su atteggiamenti (o sentimenti) di fondo essenzialmente capaci di evolversi e adattarsi in base ai differenti contesti storici. Vale dunque la pena ripercorrere con l’aiuto dello studio di Arciprete gli atteggiamenti di fondo della “Weltanschauung apocalittica” giudaico-cristiana, passo necessario per poter successivamente riflettere intorno al legame tra islamismo radicale e apocalittica:
a) Convinzione di essere in possesso della Verità e di un contatto esclusivo con la divinità.
L’errore è qualcosa di totalmente estraneo e, per certi versi, inconcepibile per coloro che vivono all’interno del quadro apocalittico. Il contatto con Dio è esclusivo e limitato alla sola comunità in grado di interpretare e rivendicare il suo messaggio.
b) La storia umana come percorso di salvezza già determinato.
La storia ha un suo inizio e una sua fine ben determinata: è lì che Dio svolge il suo piano, dando alla storia un senso, una direzione e un fine. La lettura e la comprensione della storia devono allora avvenire sotto la lente religiosa: solo questa permette di considerare i molteplici eventi storici, apparentemente slegati tra di loro, come un percorso unitario dotato di un senso ultimo metastorico.
c) La distruzione dei poteri terreni in favore del potere divino
È innegabile che la letteratura apocalittica abbia tratto una grande forza e ispirazione dal momento sfavorevole e di inferiorità che talune comunità vissero rispetto a un potere ritenuto corrotto o mortificante delle loro aspirazioni. Le difficoltà tuttavia non devono abbattere la comunità di fedeli: la vittoria finale deve necessariamente essere quella divina e, di conseguenza, di coloro che sostengono la “vera” religione. La sconfitta dei poteri terreni sarà dunque certa e fragorosa; le istituzioni terrene corrotte saranno distrutte e spazzate via da una forza incomparabilmente superiore: la forza divina.
d) L’attesa per il “mondo altro” e la battaglia escatologica
Ciò che emerge dai testi apocalittici è senza dubbio un dolore disperato di fronte ad una realtà in cui il giusto è alla mercé dei corrotti. Da tale disperazione riesce comunque ad emergere la convinzione che un mondo diverso sia alle porte, un mondo in cui il giusto trionferà e vivrà in modo gioioso in un’età dell’oro in cui il male non avrà più spazio. Per pervenire a questa realtà nuova occorre però combattere e abbattere il potere terreno, momento in cui si avrà l’apice di criticità di questo mondo e il cui esito sarà inevitabilmente la vittoria dei giusti e la comparsa di una nuova era di giustizia e perfezione.
Sono questi i temi e i sentimenti che possono essere definiti come peculiari della spiritualità apocalittica e che sono presenti in maniera chiara nei diversi testi della letteratura apocalittica in ambiente giudaico. Si tratta adesso di riflettere, ora che si è in possesso di alcune premesse essenziali alla ricerca in campo apocalittico, se tali sentimenti e temi sono riscontrabili nelle diverse religioni abramitiche. I princìpi appena elencati sono dunque potenzialmente definibili come costanti di un modello che è in sé replicabile nel corso della storia? Le puntuali considerazioni di Arciprete sembrano poter dare una soddisfacente risposta a questo interrogativo:
«“L’emergere di apocalissi è possibile in ogni tempo”: le idee nate e/o prodotte per la prima volta nell’Israele del Secondo Tempio potranno quindi – e senza bisogno di essere mutate – essere riprese e riproposte in contesti storici successivi da tutti quegli uomini e ceti che proveranno gli stessi sentimenti di frustrazione e delusione dei primi credenti apocalittici; basterà semplicemente ritrovarsi in analoghe situazioni storiche ed applicare i già esistenti schemi di lettura del mondo alle nuove situazioni di emarginazione, riprendendoli e riplasmandoli con un vocabolario adeguato ai contesti storici contemporanei» (Arciprete, 2011: 175).
Dietro le rivolte scaturite dall’insofferenza verso i potenti e dalla sete di giustizia si nascondono i temi, i sentimenti che sono stati prima definiti come essenziali nella spiritualità apocalittica. Le variazioni potranno riguardare elementi contingenti dovuti alle differenze storiche, ma permane sempre presente quel “incantesimo catartico” intuito da Bruno Étienne e che costituisce l’orizzonte di senso in cui si svolgono le violenze di stampo religioso.
Prima di verificare se i sentimenti e i temi della spiritualità apocalittica siano riscontrabili nell’islamismo radicale contemporaneo, addentrandosi così nella prospettiva interpretativa di Étienne, un interessante approfondimento potrebbe riguardare i legami tra il marxismo e l’apocalittica, due mondi che, come si avrà modo di vedere, sono solo in apparenza antitetici e inconciliabili.
Istanze apocalittiche nel marxismo: un approfondimento
La riflessione di Marx intorno alla religione è spesso colpevolmente ridotta a una frase che appare come una sentenza inappellabile, divenuta quasi proverbiale: «Religion ist das Opium des Volkes». Tale espressione suona colpevolmente come una campana a morte su ogni indagine sul rapporto tra religione e il filosofo di Treviri. Se la frase è effettivamente presente nella Critica della filosofia del diritto di Hegel, isolarla dal contesto è operazione tanto facile quanto scorretta, che non rende giustizia né a Marx né a coloro che si approcciano al suo pensiero. Rileggere in maniera più completa il suo argomentare può quindi essere un buon punto di partenza per l’approfondimento in questione:
«La miseria religiosa esprime tanto la miseria reale quanto la protesta contro questa miseria reale. La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore [...]. Essa è l’oppio dei popoli. [...] la critica non ha strappato i fiori immaginari della catena perché l’uomo continui a trascinarla triste e spoglia, ma perché la getti via e colga il fiore vivo [...]. È innanzi tutto compito della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’alienazione dell’uomo è stata scoperta. La critica del cielo si trasforma così in critica della terra [...], la critica della teologia nella critica della politica» (Marx, 1966: 125-126).
La religione non deve dunque essere rigettata in toto: in essa deve essere intravisto e tratto fuori quel “fiore vivo”, quella protesta e ribellione viscerale contro la miseria e l’ingiustizia. Il “fiore vivo” viene a coincidere con il “mito stimolante” indicato da Étienne:
«Questo incantesimo catartico mi pare essenziale – anche se nascosto – nelle tre religioni monoteistiche e nel marxismo che ne è l’erede: esso si manifesta nella dialettica tra la Gerusalemme celeste e quella terrena – e il giovane Engels può esclamare [...]: “L’autocoscienza dell’umanità, il nuovo Graal intorno al cui trono si raccolgono pieni d’allegria i popoli [...]. È questo il nostro compito; diventare cavalieri di questo Graal, cingere la spada per lui e rischiare con gioia la vita nell’ultima guerra santa che sarà seguita dal Regno millenario della libertà”» (Étienne, 2001: 266).
Lo stesso marxismo si configura quindi come erede spirituale delle tre religioni abramitiche. Tale affermazione, sicuramente spiazzante in prima istanza, rivela ben presto tutto il suo fascino: i temi cardini della spiritualità apocalittica precedentemente indagati si ritrovano, mutatis mutandis, nel marxismo. L’inesorabile avvento della società comunista, la distruzione della società borghese, la lotta dei proletariato per un mondo radicalmente altro, sono proiezioni in ottica marxista di quell’incantesimo catartico intravisto da Étienne. Le riflessioni del pensatore Kolakowski sono in questo caso particolarmente significative e vale la pena rileggerle:
«I rivoluzionari non credono al purgatorio; credono alla via crucis, all’inferno e al paradiso, al regno della liberazione totale e al regno del male totale. Pensano secondo il principio: o tutto o niente. L’idea della liberazione totale che, in quanto tale, cancella tutti i valori della vita presente, appartiene senza dubbio al fulcro del cristianesimo» (Kolakowski, 1982: 8).
A partire da tali riflessioni si può affermare, a conclusione di questo approfondimento, che il marxismo dimostra di aver accolto e rielaborato in modo originale le tematiche apocalittiche e quindi di essere riuscito a cogliere il “fiore puro” delle religioni, proponendosi come ideologia delle masse diseredate pronte a lottare per cambiare radicalmente le storture del mondo.
L’apocalittica nell’islamismo radicale: le nuove prospettive di ricerca
Dopo aver gettato luce sui temi e sui sentimenti tipici dell’atmosfera apocalittica e avendo inoltre rimarcato il suo ruolo storico in ideologie come quella marxista a prima vista esclusivamente critiche nei confronti della religione, rimane adesso da verificare se i temi analizzati precedentemente siano riscontrabili nell’islamismo radicale e nei suoi autori principali. Uno studio del genere richiede ovviamente uno spazio, impossibile da esaurire in un articolo, ma certi segnali sulla via potrebbero essere già aiuto prezioso per una ricerca che si annuncia come interessante e preziosa.
a) Convinzione di essere in possesso della Verità e di un contatto esclusivo con la divinità.
L’impossibilità di un compromesso con il potere è punto fermo dell’ideologia radicale islamica. La drammaticità dell’islamismo radicale sta in effetti prevalentemente nell’opposizione al potere costituito, che talvolta culmina nelle violenze tristemente note al mondo europeo e non. L’irriducibilità della posizione islamista è presto detta: la legge divina, proprio perché pensata da Dio stesso deve essere accettata in toto e tradirne anche solo una parte equivarrebbe a ritenere le leggi umane superiori a quelle che Dio stesso ha creato e imposto all’uomo. Come ben espresso dall’ideologo radicale Sayyid Qutb,
«Dunque, lui è con la verità – e che cosa c’è oltre la verità se non la falsità? Lascia che la falsità abbia il potere, lascia che abbia i suoi tamburi e le sue insegne, lascia che abbia le sue folle e la sua gentaglia; tutto questo non potrà cambiare niente della verità. In realtà, lui [il credente] è con la verità, e niente esiste oltre la verità se non l’errore, ed il credente non può preferire l’errore alla verità. Lui è un credente, e qualsiasi siano le condizioni e le situazioni, lui non può barattare l’errore con la verità» (Qutb, 2002 :164).
b) La storia umana come percorso di salvezza già determinato.
La storia dell’umanità ha un senso che deve essere trovato nella volontà di Dio. Quello che potrebbe essere definito come progetto divino si dipana nell’arco della storia, costituendone l’inizio e prevedendo una fine coincidente con l’instaurazione del Regno dei Giusti. Differentemente dalle altre religioni abramitiche, «la Città ideale musulmana concreta è realizzata nell’opera del Profeta e dei primi quattro califfi (Étienne, 2001: 44)». Il rimando ad un’età dell’oro in cui l’umma era in totale armonia con la legge divina (la shariah) è quindi sempre presente nell’ideologia islamista, probabilmente in modo ancor maggiore rispetto a ebraismo e cristianesimo in quanto utopia già realizzata e realizzabile nuovamente nella storia.
c) La distruzione dei poteri terreni in favore del potere divino
I Fratelli Musulmani e le loro vibranti proteste contro Nasser, i piccoli gruppi radicali che seminarono terrore nell’Egitto degli anni ’70, i mujahiddin afghani e gli odierni fedeli a Daesh condividono tra loro un odio viscerale verso i poteri costituiti, in quanto ostacolo maggiore alla riorganizzazione della umma e all’applicazione della legge divina. Anche questo tema apocalittico si ritrova quindi nella storia dell’islamismo radicale, tanto da essere teorizzato da Muhammad Abd Faraj, ideologo di al-Jihad, il gruppo radicale protagonista dello spettacolare omicidio del “Faraone” Sadat nel 1981:
«L’Islam si è diffuso attraverso la spada (la lotta), ma solo contro i leader dell’empietà, (…). È obbligatorio per i musulmani alzare le loro spade contro i governanti rei di nascondere la verità e promuovere la falsità, altrimenti la verità non raggiungerà mai il cuore degli uomini» (Faraj, 2000: 49).
d) L’attesa per il “mondo altro” e la battaglia escatologica
L’ultimo tema apocalittico che si ha qui modo di affrontare è probabilmente quello più noto all’opinione pubblica occidentale. “Guerra Santa”, “Jihad”, “lotta all’infedele”, sono tutte espressioni che evidenziano l’impossibilità di compromesso col nemico, in uno scontro tra Bene e Male dove giovani islamisti imbeccati da discutibili imam cercano e trovano la morte, divenendo «strumento di Dio», martiri per la giusta causa da combattere. È innegabile che nell’islamismo radicale questo tema sia particolarmente evidente, tanto da essere presente come costante in diversi dei maggiori autori radicali: Sayyid Qutb dedicherà infatti il suo testo di maggior diffusione, Pietre Miliari, all’avanguardia della fede che vorrà incaricarsi di intraprendere quella battaglia escatologica essenziale affinché possa avvenire il Regno, quel mondo altro in cui, come al tempo dei quattro califfi ben guidati, la shariah è l’unica legge da seguire. Coloro che combattono sono i veri fedeli, i veri musulmani: la battaglia contro il potere empio è necessariamente una “Guerra Santa” affinché la Città Ideale, l’Umma, possa finalmente realizzarsi rovesciando la corruzione del mondo odierno.
La conclusione è più che mai provvisoria nel caso di una ricerca che ancora deve prendere piede nel mondo accademico. E tuttavia, nonostante la complessità delle questioni ancora aperte, il ritrovare i temi e i sentimenti dell’apocalittica nell’islamismo radicale potrebbe rivelarsi come un’opportunità importante per sfuggire alla superficialità di ritenere l’Islam e i suoi movimenti violenti come qualcosa di totalmente diverso e nuovo nella storia delle religioni abramitiche. Troppo spesso si dimentica che le maggiori religioni monoteiste hanno una radice comune che dovrebbe essere indagata a fondo, con l’obiettivo di comprendere che le differenze di credo, nonché quelle culturali, sono rilevanti, ma non così imponenti da impedire qualsiasi ricerca comparativa o dialogo interreligioso nell’ottica di conoscersi per poi (ed è la più grande speranza) finalmente ri-conoscersi.