di Rosario Lentini
È risaputo, che i Beni culturali del nostro Paese – cioè l’immenso patrimonio archeologico, artistico, architettonico, etno-antropologico, librario ecc. – soffrano da sempre di vita grama e stentata. La gestione e fruizione dei siti archeologici si svolge tra mille difficoltà; i musei piccoli e grandi conservano nei loro depositi una tale quantità di reperti – la maggior parte dei quali appena inventariati, poco o niente studiati e mai proposti ai visitatori – sufficiente a raddoppiare e triplicare gli spazi espositivi; antiche chiese e monasteri, torri costiere e tonnare, bagli e masserie abbandonate, persino interi paesi-presepe in via di estinzione demografica attendono di essere salvati dal degrado del tempo, dalla potenza devastatrice dei fenomeni naturali o dall’intervento umano demolitorio; la maggior parte dei privati non ce la fa a manutenere case e dimore di importanza storica ereditate dagli antenati. È un quadro per molti versi sconfortante – e si potrebbe continuare con un lungo rosario di esempi – all’interno del quale, quasi miracolosamente, si intravedono bagliori di speranza che alimentano un certo ottimismo, grazie alle iniziative dei volontari e di semplici cittadini a sostegno di associazioni benemerite e note come il FAI o poco conosciute come le centinaia esistenti in tutto il Paese.
Non è esimente il fatto che le risorse finanziarie pubbliche necessarie a tutelare il complesso dei Beni siano modeste; ovviamente non si è trattato di fatalità, ma di scelte attuate dai governi di turno a danno della scuola, delle università, dei musei, della ricerca in campo scientifico e ancor più in quello delle scienze umane. Nel 2014 al funzionamento e sostegno di biblioteche, musei, gallerie d’arte, teatri ecc. lo Stato ha destinato solo lo 0,6% del totale della spesa pubblica a fronte dell’1% medio in EU. Questo è un dato incontrovertibile, comunque la si pensi sui governi che si sono avvicendati nei decenni.
Tuttavia, accanto al nodo dei fondi insufficienti nei bilanci dello Stato, delle regioni e dei comuni, c’è quello dell’organizzazione e delle competenze delle persone assegnate al settore, che in certi casi è persino più grave del problema finanziario. I danni delle ingerenze del sistema politico nelle amministrazioni e nel cuore di tutte le istituzioni culturali dell’Isola, con l’inserimento di migliaia di soggetti, di ogni ordine e grado, cooptati o selezionati non per merito ma per clientela e fedeltà, sono oggi sotto gli occhi di tutti e hanno gradualmente frenato l’innovazione, mortificato l’autonomia di elaborazione e le potenzialità interne agli enti – che pure esistono – a realizzare progetti; hanno ridotto ai minimi termini la corretta gestione dell’ordinaria amministrazione per alimentare dispendiose politiche dei “grandi eventi”. Non può esservi buona organizzazione con persone incapaci, così come sono incompatibili le persone oneste e competenti con un assetto organizzativo influenzato dai ras di partito o controllato da burocrati eterodiretti da affaristi esterni alla pubblica amministrazione.
Se poi si volge lo sguardo alla rete delle biblioteche e agli archivi pubblici (quelli storici dei comuni, delle istituzioni in genere e degli archivi di Stato) si impone qualche riflessione in più, perché in questo comparto si sta consumando da tempo una disfatta di proporzioni incalcolabili nell’indifferenza generale, contrastata solo da un manipolo di voci indignate, quasi fosse una questione personale e non una tragedia collettiva. Si possono citare decine di casi di colpevole inadempienza sia sul piano della mancata tutela, sia su quello della limitata fruizione. Per esempio: nei mesi scorsi è stata data la lieta novella della riapertura della Biblioteca Comunale di Palermo che è rimasta chiusa al pubblico dal 2009 per importanti lavori di adeguamento e sicurezza. Meglio tardi che mai. La stampa ha dato giusto risalto alla riapertura sottolineando però la limitatezza degli orari di fruizione che riguarda, in verità, quasi tutte le biblioteche del capoluogo siciliano (non va meglio negli altri comuni dell’Isola) che ospita migliaia di studenti universitari fuori sede, cui mancano sale di studio degne di questo nome che siano accessibili fino a tarda sera.
Ciò che la stampa però non ha ricordato con altrettanta enfasi è che la collezione otto-novecentesca di periodici e riviste della Comunale di Palermo, che rappresenta uno scrigno straordinario di storia culturale, politica e sociale, locale e siciliana, con autentiche rarità e pezzi unici, rimane preclusa alla consultazione, ancora giacente nelle casse in cui venne collocata circa 20 anni fa, in vista dei lavori di risistemazione dell’edificio. E cosa può esserne rimasto se i parassiti e gli insetti hanno operato indisturbati? Che dire delle vicissitudini della Biblioteca Fardelliana di Trapani ricchissima di fondi manoscritti e librari, che rischia di chiudere perché è venuto meno dal 1° gennaio 2014 il contributo annuo di 250 mila euro da parte della disciolta Provincia?
Negli Archivi di Stato le figure specializzate, essenziali a svolgere l’attività fondamentale di catalogazione dei fondi manoscritti, si sono ridotte progressivamente di numero per mancata copertura del turn-over (da anni una sola assunzione per ogni 4 che vanno in quiescenza), privando gli studiosi della possibilità di consultarli. Che dire degli archivi storici dei comuni impoveriti persino da decisioni di funzionari ignoranti e rozzi che destinano al macero con disinvoltura “carte vecchie e inutili”; o razziati dai predatori che rivendono ai collezionisti le buste con francobolli, timbri, annulli prefilatelici e le lettere con autografi di “uomini illustri”? Tutti i comuni siciliani, in relazione alla loro data di fondazione e alla loro storia più o meno blasonata dovrebbero custodire una sezione storica della documentazione amministrativa prodotta – al netto degli scarti – quanto meno delle fonti principali (atti fondativi, verbali del Decurionato, poi di Giunta e di Consiglio, delibere assessoriali, corrispondenza, registri anagrafici, cartografia, ruoli daziari, ecc.) a far tempo dalla loro genesi. Nella maggior parte dei casi, invece, ciò che sopravvive viene tenuto in locali inadeguati, non affidato a personale con specifiche abilità e conoscenze e rimangono inconsultabili; o peggio, spesso con faciloneria e superficialità, si consente che pseudo studiosi o semplici studenti possano accedervi e mettere essi stessi mano alle carte manoscritte per cercare ciò che interessa, in assenza di vigilanza. Ne consegue sovente la sottrazione di documenti o, nella migliore delle ipotesi, la sovversione dell’ordine degli stessi fino al punto che la loro posizione originaria diventa misteriosa. Gli inventari sono introvabili o incompleti e a ogni intervento di ristrutturazione o restauro edilizio si assesta un colpo mortale a qualche sezione del fondo archivistico, perché non ci si è preoccupati di proteggerlo. Altro che cura della memoria del passato! Paradossalmente risultano più efficaci i messaggi commerciali delle aziende di produzione agroalimentare che ci ricordano dell’esistenza di “radici”, “terroir”, “identità”, “antichi sapori” e “tradizioni millenarie”, che non le iniziative di tanti assessori alla cultura; e così il consumatore, rassicurato da questo marketing, paga gli acquisti alla cassa e forse si illude pure di avere saldato il conto con la storia della città e del suo territorio.
Se lo Stato ha speso troppo poco, i comuni siciliani hanno fatto peggio; da una rilevazione della Openpolis relativa al 2013, condotta sulle 15 città italiane più popolose, emergeva che per la cultura gli enti locali in questione avevano speso mediamente 60 euro a cittadino; con la differenza sostanziale che se al primo posto si collocava Firenze con 243 euro, al quattordicesimo e quindicesimo si posizionavano rispettivamente Palermo con 11,05 e Messina con 5,52 euro per cittadino. Sono dati imbarazzanti che si spera siano rappresentativi solo del recente passato e che, invece, – ottimismo della ragione – si stia già registrando una decisa inversione di tendenza.
Il leit motiv secondo cui la cultura è un antidoto, un vaccino, una terapia, un salvagente etc. contro l’imbarbarimento sociale, assume i toni della beffa se, nei fatti, il tessuto connettivo della amministrazione pubblica in tutte le sue ramificazioni periferiche considera gli archivi un puro ingombro fisico e le biblioteche luoghi dove parcheggiare articolisti e dipendenti non graditi nei vari uffici. Esistono naturalmente diverse oasi nelle quali i manoscritti e la carta stampata vengono considerati un valore inestimabile, sono ben conservati e prontamente resi disponibili agli studiosi, pur con i limiti degli orari di accesso (per esempio, ad Agrigento la Biblioteca Lucchesiana, a Catania la Civica e “A. Ursino Recupero”, a Messina la Regionale Universitaria “G. Longo”, a Palermo la splendida Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, riaperta da qualche giorno al pubblico, la Biblioteca Francescana e quelle della Fondazione Sicilia a palazzo Branciforte, della Società Siciliana di Storia Patria e dell’Istituto Gramsci nonché quella del Museo Pitrè); sono però eccezioni, non la condizione prevalente.
Se così è, bisogna interrogarsi sulla natura di questa sciatteria amministrativa, specialmente nei comuni medio-piccoli, che amplifica i danni dell’insufficienza di mezzi finanziari e sulle contromisure possibili. C’è sicuramente un problema di classi dirigenti e di amministratori locali, molti dei quali poco sensibili al tema non solo perché individualmente modesti sul piano dell’istruzione di base e degli interessi culturali, ma perché distratti dalla cura del proprio elettorato che diventa prioritaria rispetto a ogni altro impegno.
Come non vedere, quindi, il nesso tra l’incultura degli apparati e l’analfabetismo di ritorno allarmante: la Sicilia continua a occupare l’ultimo posto nella graduatoria della lettura di libri; secondo i dati Istat del 2015 il 66% della popolazione residente (di età superiore a 6 anni) non ha letto neppure un libro nel corso di un anno! A ciò si aggiungano gli effetti perversi di un fenomeno più recente: il declassamento di manoscritti e libri, ritenuti non più fonte primaria ineludibile della trasmissione del sapere e quindi della cultura in senso lato, in quanto ridotti al rango di prodotti obsoleti dal trionfo di internet e del web; come se i due mondi fossero antagonisti. Questa visione distorta e scellerata chiama in causa la didattica scolastica e le famiglie cui spetta in prima battuta di riavvicinare i ragazzi sin da piccoli alla lettura e portarli gradualmente a comprendere l’essenza stessa del problema: lo studio – qualunque genere di studi, umanistico o scientifico, a cominciare da quello praticato sui libri – fa crescere individualmente e migliora la qualità del vivere civile. Qualche decennio fa, nel vivo dell’euforia ministeriale delle tre “i” (impresa, inglese, informatica) emblematiche dell’innovazione nell’insegnamento scolastico, si preannunciava il sostanziale declino dei licei classici. Per fortuna è andata diversamente e i licei italiani godono di buona salute, nonostante mille problemi, e continuano a formare fior di giovani talentuosi che non hanno nulla da invidiare rispetto ai coetanei europei.
Che le multinazionali ritengano più profittevole finanziare una ricerca sulle onde gravitazionali anziché una di storia sociale o di filosofia del diritto non è difficile da comprendere. Ma per di- mostrare che dallo studio dei classici e delle fonti storiche – di cui il nostro Paese detiene depositi straordinari – derivi il progresso civile di un popolo e persino quello economico, occorre che lo Stato e gli enti pubblici assumano un ruolo molto più attivo, specialmente in quei settori dove la componente privata mostra di non essere interessata a investire. Ad esempio, l’eco in campo internazionale degli esiti positivi di una campagna di scavi archeologici nel nostro Paese non ripagherebbe ampiamente, in termini di presenze turistiche aggiuntive, le somme assegnate all’istituto universitario che l’avrebbe condotta? Gli effetti moltiplicatori di questo successo non si vedrebbero solo nella maggiore attrattività del sito e nello sviluppo dell’indotto legato alla crescita del numero dei visitatori, ma aprirebbero nuovi orizzonti negli studi, darebbero visibilità alla ricerca italiana e alla sua scuola di archeologia, suscitando possibili interessi di istituzioni e fondazioni straniere a cofinanziare nuovi scavi; aumenterebbero le possibilità di erogare borse di studio e dottorati per giovani meritevoli, ecc. Si innescherebbe cioè un processo virtuoso dalle ricadute sociali e culturali importanti.
Per tornare all’esempio delle aziende agroalimentari, se non fosse per gli studi umanistici, storici, agronomici che hanno svelato anche attraverso le fonti documentarie la genesi plurisecolare e l’evolversi di tanti prodotti di eccellenza della nostra Isola, di quali “radici” e “identità” si potrebbe discutere e a quali potrebbe riferirsi l’industria privata?
L’uso intelligente di internet e del web amplifica la conoscenza in misura esponenziale e non provocherà né la morte della carta stampata, né la trasformazione delle biblioteche in case di riposo per anziani nostalgici. Non a caso in tutte le biblioteche moderne le sale di studio già da tempo sono attrezzate per consentire agli studenti di accedere a qualunque sito culturale, di istituzioni pubbliche e private italiane e straniere, e di potere, allo stesso tempo, studiare sui manoscritti originali e i libri custoditi nelle stesse.
Se si è, perciò, consapevoli del fatto che i comuni rappresentano l’anello più debole della catena, – e non solo per effetto dei tagli lineari ai bilanci – l’elemento critico della filiera nei quali si stanno consumando i maggiori crimini al patrimonio archivistico e librario, il Ministero e gli assessorati regionali competenti (Istruzione e Beni culturali) devono attuare un sistema premiante per finanziare congruamente le amministrazioni che presentino progetti specifici di tutela, valorizzazione, ammodernamento e fruizione dei loro archivi storici e biblioteche. Ai volontari e semplici cittadini non rimane che continuare a vigilare e farsi sentire, per impedire l’ulteriore regressione culturale e civile.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero e ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni. È autore di numerosi saggi pubblicati anche su riviste straniere. Il suo ultimo studio edito da Torri del Vento è dedicato alla Storia della fillossera nella Sicilia dell’800
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