di Clarissa Arvizzigno
Paesaggio e viaggio, in Caproni, coincidono in quanto ogni spazio percorso dal viaggio coincide con il paesaggio che rappresenta la forma stessa del viaggiare, e, in un certo qual modo, la sua atmosfera. I paesaggi caproniani non sono estendibili all’infinito, al contrario, le loro forme sono sempre comprese tra un “fra”, come se ci fosse sempre il bisogno di ricorrere a linee demarcative, che distinguono i paesaggi e li rendono tali. Da qui l’esigenza del confine, medium naturale o artificiale in cui, al contempo, si chiude un paesaggio e se ne apre un altro, come avviene in Raggiungimento ne Il conte di Kevenhüller, in cui il confine può essere qui definito come il discrimine, il margine esiguo e liminare situato tra “dove finisce l’erba/e comincia il mare”:
Andavo. Andavo
Cercavo dove poter sostare.
Ero ormai sul discrimine.
Dove finisce l’erba
e comincia il mare.
Stiamo qui parlando di confini terrestri, misurati dai passi del viaggio in cui i protagonisti caproniani sono perennemente immersi: come se il passo misurando il paesaggio attestasse il passaggio umano, spostando di volta in volta la soglia e rendendo, questa stessa, mobile. I confini in Caproni non sono, infatti, dati a priori dal momento che non corrispondono a confini geografici, esperibili e dunque immobili: sono indefiniti e misteriosi (non ne conosciamo infatti i nomi e sono difficilmente rintracciabili) e, per di più, mobili nella misura in cui essi variano al variare del passo che li percorre.
Oltre ai confini terrestri, ve ne sono altri che potremmo definire confini-oggetto o per meglio dire, confini dati, solcati da oggetti. Avviene nel momento in cui proviamo ad elevare il confine da terra, come se ci trovassimo di fronte a finestre immaginarie, i cui margini opposti si aprono su paesaggi anch’essi opposti e differenti, fungendo appunto da soglie:
Dietro i vetri
A riva del tuo balcone
arioso, dai grezzi colori
dagli orti già in fioritura
di menta, estate ansiosa
come una febbre sale
al tuo viso, e lo brucia
col fuoco dei suoi gerani.
Col gesto delle tue mani
solito tu chiudi. Dietro
i vetri, nello specchiato
cielo con i suoi rondoni
più fioco,
di me segreta ormai
silenziosa t’appanni
come nella memoria.
Siamo all’interno della prima raccolta “Come un’allegoria” e il poeta ci presenta una misteriosa figura femminile, posta dietro i vetri. La finestra-confine è costruita attraverso l’immagine della “riva del balcone” che crea un rapporto dialettico tra uomo e donna, tra chi osserva e tra chi è osservato e che, a sua volta, osserva. L’immagine della riva, dunque, favorisce la creazione di una prossemica, di uno spazio che è tale solo perché de-limitato da un confine. Lo spazio del “fuori” si riflette “dentro” attraverso i vetri (“Dietro i vetri, nello specchiato cielo con i suoi rondoni più fioco”) chiusi dalla donna, quasi a voler stabilire una distanza, fisica e psicologica dall’uomo. È la donna, infatti, che stabilisce il limen, la misura, il confine oltre il quale il poeta non può spingersi e pertanto, potremmo dire, che ella chiude lo spazio, lo de-limita, lo forma e lo in-forma connotandolo atmosfericamente attraverso il corpo-proprio [1] che vi si muove all’interno. Potremmo anche dire, che le mani costituiscono le isole proprio-corporee che maggiormente contribuiscono a creare lo spazio e a stabilire la giusta prossemica tra i due protagonisti. L’oggetto-finestra contribuisce inoltre, come un filtro, a rendere rarefatta l’immagine della donna che ora si presenta appannata, distante, come traccia di ricordo che riemerge flebilmente alla memoria.
Se ci focalizziamo, infatti, sull’oggetto-finestra, subito ci verranno in mente quei vetri che si aprono fuori sul mondo, fatti per scrutare appunto le cose che fanno parte, che stanno dentro il mondo; l’idea di aprire una finestra, dunque, ci rimanda ad una porta. E cos’è la finestra se non una piccola porta che si apre sul mondo? Già nel latino arcaico troviamo la forma festra che sta appunto ad indicare una porticina, una finestrella di un sacrario. Quindi possiamo affermare che la caratteristica peculiare di tale oggetto sta nel collegare o nel separare interno ed esterno e che ogni finestra esiste sempre rispetto a un dentro e a un fuori.
Osserviamo, a tal proposito due dipinti di Magritte: “La condizione umana” e “La ripresa”. In entrambi vige una dialettica del fuori-dentro che si esplica attraverso porte-finestre che guardano al paesaggio. Nel primo caso ci ritroviamo di fronte un rispecchiamento dell’identico: il paesaggio si riflette sulla tela del pittore che lo riproduce, nel secondo caso, invece, ci ritroviamo dinanzi a una porta aperta sul paesaggio: ciò che sta dentro differisce da ciò che sta fuori, non nella forma che è identica (alla sabbia che sta al di qua della finestra corrisponde, infatti, la sabbia che sta al di là della stessa e lo stesso discorso può essere fatto anche per il mare e il cielo), bensì nei colori e nelle luci. Potremmo allora dire che la differenza tra dentro e fuori è di ordine psicologico e ha a che vedere con la percezione: nonostante la stessa identica forma, siamo portati a “vedere” il paesaggio in base a come esso ci appare ai nostri occhi, ovvero: in base a come lo percepiamo atmosfericamente.
La finestra non rappresenta, dunque, solo un limite fisico, il cui compito è quello di separare, contrapporre, delimitare: essa funge anche da filtro percettivo: ciò che sta al di là si contrappone rispetto a ciò che sta al di qua, spesso per una semplice sfumatura. La finestra permette dunque “lo stacco” che ci consente di distinguere percezione interna e percezione esterna alle quali corrispondono, rispettivamente, atmosfera interna ed atmosfera esterna: la finestra funge anche da medium atmosferico.
Tale dialettica è messa in crisi nel momento in cui si parla di “finestre di pensiero”, non propriamente reali, che nascondono aporie, inganni, paradossi. È, ad esempio, ciò che avviene in
Compleanno:
Avevo salutato
tutti, uno per uno.
Infatti, non sapevo
se sarei tornato.
Per strada mi sono voltato,
prima di scantonare a destra.
Nessuno s’era affacciato
(nemmeno io) alla finestra.
Ci muoviamo all’interno “dei confini” de Il muro della terra, in cui tutto diviene paradossalmente vago e surreale: qui «pare chiudersi l’antica primigenia esperienza della finestra come luogo di traguardo e di rapporto di appartenenza: distinzione del soggetto con il mondo e con se stesso» [2]. Ogni rapporto interno-esterno è infatti venuto meno: chi guarda da dentro coincide con chi guarda da fuori, ogni distinzione e contrapposizione dialettica sfuma. Assistiamo, dunque, ad una dissoluzione dell’io che Caproni ripone accuratamente dentro la parentesi (“nemmeno io”) quasi a volere includere “il sé” all’interno dell’insieme “nessuno”, attraverso un meccanismo, potremmo dire, addizionale. Ci troviamo all’interno di un paesaggio fantasmico, in cui tutto suggerisce un’idea di vuoto e di assenza: la strada, l’angolo, la finestra che qui non funge più da elemento separatore, medium di confine. Essa delinea piuttosto una dimensione più propriamente metafisica, che fa sì che interno ed esterno si “con-fondano” vicendevolmente annullandosi. La finestra allora costituisce un luogo liminare molto particolare in quanto apre a un oltre, a un meta-spazio che annulla se stesso in quanto confine. In questo “contesto” che manca di qualsiasi esperibile e tangibile punto di riferimento, pertanto, anche l’addio si fa metafisico e surreale.
Ritornando alla “festra” latina e riprendendo dunque l’idea della porta-finestra, Giorgio Bertone ci parla di porte intransitive:
«la porta “biancomurata”, la porta “intransitiva”, la porta che conduce al labirinto, sempre chiusa (se si vuole: la variante cieca e blindata della finestra), è la porta che, non a caso, cancella il paesaggio visivo […] Ciò che alla vista è negato, ciò che per la monopolistica vista (dopo un percorso secolare ormai perfettamente interiorizzato, cioè intellettualizzato: paesaggio interno ed esterno coincidono: “stanza o città”, “ramo” o “pensiero”) è fine di ogni possibilità di sbocco, di fuga prospettica, è cecità fisica, porta cieca, cioè mutismo assoluto, è dato invece al linguaggio come ultima “morgana”» [3].
Citiamo alcuni versi de La porta, contenuti ne Il conte di Kevenhüller:
L’amorfa
Porta che conduce ottusa
e labirintica (chiusa
nel suo spalancarsi) là
dove nessuna entrata
può dar àdito…
Dove
nessuna stanza o città
s’apre all’occhio, e non muove
- Nel ristagno del vago -
ramo o pensiero una sola
parvenza…
Una sola
cruna di luce (o d’ago)
nella mente…
La porta
morgana:
la Parola.
La porta intransitiva non apre al paesaggio e non permette nessun passaggio: essa si comporta come uno specchio rifrangente: il suo colore bianco opaco, infatti, non consente il filtraggio della luce, il suo attraversamento, da qui il suo essere biancomurata ed intransitiva. Ci chiederemo se tale porta sia un confine o una frontiera. Ma cos’è propriamente un confine e in cosa differisce dalla frontiera? Lo studioso Piero Zanini ci fornisce delle interessanti definizioni:
«Il confine indica un limite comune, una separazione tra spazi contigui; è anche un modo per stabilire in via pacifica il diritto di proprietà di ognuno in un territorio conteso. La frontiera rappresenta invece la fine della terra, il limite ultimo oltre il quale avventurarsi significa andare al di là della superstizione contro il volere degli dèi, oltre il giusto e il consentito, verso l’inconoscibile che ne avrebbe scatenato l’invidia. Varcare la frontiera, significa inoltrarsi dentro un territorio fatto di terre aspre, dure, difficili […] L’italiano frontiera (come lo spagnolo frontera, il francese frontière, l’inglese frontier) racchiude in sé il sostantivo “fronte”; la frontiera è fronte a, è rivolta verso (contro) qualcosa, verso (contro) qualcuno. Su di essa lo scontro appare come una conseguenza inevitabile. Questo fronte è mobile, può continuamente trasformarsi. […] La frontiera è qualcosa in continua evoluzione, non è un dato certo e può cambiare dall’interno o dall’esterno in qualsiasi momento. La frontiera è instabile […]» [4] .
La porta biancomurata ha, pertanto, del confine l’invalicabilità netta, della frontiera il fatto di essere spazio proibito, fine dello spazio umano e a conferma di ciò Caproni scrive: «dove nessuna stanza o città/ s’apre all’occhio, e non muove/ -Nel ristagno del vago/ -ramo o pensiero una sola /parvenza […]». La porta è, come ogni frontiera in continua definizione (è detta amorfa) tanto che l’occhio non vi può rintracciare nulla che assomigli a un conglomerato umano (città) e, per di più, essa è impensabile. La porta biancomurata è territorio dell’inconoscibile precluso all’uomo.
La differenza tra confine e frontiera sta dunque nel modo di trattare e concepire lo spazio: il confine può essere concepito come una linea, la frontiera, invece, come una fascia molto vaga in cui tutto si confonde:
«Stabilire un confine, al contrario, significa fondare uno spazio, definire un punto fermo da cui partire e a cui fare riferimento […] Il confine impone, con l’evidenza dei suoi segni e la sua dimensione circoscritta, il suo essere uno spazio chiuso, una sicurezza che la frontiera (fisica, biologica, psicologica…), luogo vasto e indeterminato non può assicurare. Il confine separa due spazi, due persone, due ideologie, in maniera più netta di quanto faccia la frontiera. Il primo ha un tratto deciso e forte, la seconda, con le sue frange grandi e piccole, crea uno spazio che il confine, quasi ne avesse timore, tende invece a ridurre al minimo. Ecco perché rompere “i confini” non implica necessariamente la cancellazione delle “frontiere”» [5].
La frontiera può, dunque, essere concepita come terra di nessuno, come uno spazio “fra” due sponde, tra i margini di due terre, la frontiera è la terra che sta “nel mezzo”, immersa in un tempo che si dilata sempre più mentre si aspetta una presenza, un nemico che si manifesti all’orizzonte e di cui si ignora, nella maggior parte dei casi, l’esistenza. Leggiamo a tal proposito Antefatto:
Sedetti fuor dell’osteria,
al limite della foresta.
Aspettai invano. Ore e ore.
Nessun predace in cresta
apparve della Malinconia.
Aspettai ancora. Altre ore.
Pensai, in straziata allegria,
al colpo fulminante
del franco cacciatore.
Con Antefatto si apre Il franco Cacciatore, «il richiamo al Freischütz weberiano è qui evidente: siamo fra la cartolina ottocentesca e l’incubo notturno, nei pressi di una foresta, fuori da un’osteria, e assistiamo alla lunga quanto inutile attesa che consuma un cacciatore appostato per cogliere la sua preda» [6]. Ci troviamo dinanzi a uno spazio di frontiera, ai limiti di una foresta, al di là del quale vi è l’inconoscibile, la “terra di nessuno”. L’attesa vana del predace ce lo presenta già come lontano, assente e quindi perduto oltre una frontiera di cui si ignorano le forme, i paesaggi, i colori. A dominare qui, pertanto, è un’atmosfera del vago e dell’indeterminato, come indeterminata è, per sua natura, la frontiera stessa, una specie di “Finisterre” in cui logos ed aporia si oppongono e confondono reciprocamente. Potremmo anche dire che il poeta sperimenta, attraverso le isole del corpo proprio, lo spazio emozionale e predimensionale dell’attesa, in cui ci troviamo, inoltre, di fronte al fenomeno dell’estraneo, che qui si incarna nella figura del “franco cacciatore”. Scrive, a tal proposito, il filosofo Bernhard Waldenfels:
«L’estraneo è un fenomeno di confine per eccellenza. Giunge da altrove, persino quando entra in scena in casa propria e nel proprio mondo. Non c’è nessun estraneo senza luoghi dell’estraneo. Il peso che viene dato all’estraneità dipende perciò dal modo in cui è costituito l’ordine in cui assume forma la nostra vita, la nostra esperienza, la nostra lingua, il nostro fare e il nostro creare. Con il mutamento dell’ordine muta anche l’estraneo, il quale è tanto molteplice quanto lo sono gli ordini che travalica e da cui devia. L’espressione “l’estraneo” non è meno occasionale dell’espressione “l’io”. Le zone di confine che si estendono fra gli ordini e al di là degli ordine sono i luoghi di incubazione dell’estraneo» [7].
La frontiera come varco, πόρος (pόros), passaggio che conduce verso terre altre, estranee alla nostra esperienza, “mostruose”, eccezionali per loro natura e dunque prodigiose, inciampa, tuttavia, sempre in un limite. In Caproni i concetti di confine e frontiera finiscono con l’acquistare ulteriori sfumature rispetto alle classiche definizioni dei termini: con i suoi cortocircuiti logici, il poeta ne ri-definisce in parte i significati, ridisegnandone le forme fisiche, quindi lo spazio della percezione e, di conseguenza, anche la percezione stessa. Potremmo affermare che, in Caproni, mentre il confine “apre” spesso a un limen, a una soglia che si configura come luogo d’incontro tra le due parti (l’al-di-qua e l’al-di-là) ponendole in “relazione”, la frontiera al contrario “chiude” un limes, rendendolo estraneo ed ostile a qualsiasi passaggio, relazione, scambio. Da questa, diremo letteralmente, “aporia” ne consegue un “muro della conoscenza” e la sua invalicabilità fisica e mentale insieme: il muro della terra appunto:
Anch’io
Ho provato anch’io.
È stata tutta una guerra
d’unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra.
Come in una vera e propria frontiera ciò che si realizza è una guerra, qui definita guerra d’unghie, volta ad aprire un varco-passaggio all’interno dell’inespugnabile muro.
A tal proposito osserviamo il dipinto di Magritte “Il donatore felice”. Esso vede una sagoma d’uomo affacciarsi su un muro di pietra: oltre esso non c’è nulla, se non uno sfondo omogeneo o monocromo che non ci permette di guardare “oltre”. Tuttavia entro la sagoma si apre, ad un certo punto, un paesaggio con alberi e una casa in lontananza: di che cosa si tratta? Probabilmente di uno spazio emozionale interiore, di un’atmosfera interna creata dalle isole proprio-corporee, in poche parole: lo spazio com’è percepito dal soggetto che lo esperisce, “lo spazio vissuto” che non presenta frontiere e che si oppone allo spazio fisico che impedisce ogni visione.
La frontiere di Caproni rappresentano, pertanto, i limiti invalicabili dei luoghi non giurisdizionali [8], entro i quali è vietato accedere, avventurarsi. Esse costituiscono, per così dire, “gli ultimi borghi” dell’esperienza umana, le terre di confine, quelle che nel mondo greco erano definite le ἐσχατιαί (aschatiài), le terre al di là delle culture, abitate da creature mostruose, τέρατα (térata), fuori dall’esperienza umana, che differiscono dagli ὄροι (òroi), dai confini fisici propriamente detti, costruiti e innalzati dagli uomini. È ciò che avviene ne L’ultimo borgo de Il franco cacciatore, di cui riportiamo alcuni versi:
Ovunque
solo tracce elusive
e vaghi indizi-ragguagli
reticenti o comunque
inattendibili.
Ora
sapevano che quello era
l’ultimo borgo.
Un tratto
ancora, poi la frontiera
e l’altra terra: i luoghi
non giurisdizionali.
Il confine caproniano, nei suoi cortocircuiti logici, a differenza della frontiera, rappresenta un limen valicabile ed esperibile. Per di più esso è labile e presenta non poche contraddizioni, come avviene in Falsa indicazione, sempre contenuta ne Il muro della terra:
«Confine», diceva il cartello.
Cercai la dogana. Non c’era.
Non vidi, dietro il cancello,
ombra di terra straniera.
L’unico confine materialmente presente è qui quello della parola, il “confine scritto”, polisemicamente “logico”. Se, da una parte, per “logico” possiamo, infatti, intendere il confine terrestre, al quale “logicamente” non si può scampare nel momento in cui ci si muove per “l’oltre”, dall’altra il termine è da intendersi etimologicamente. “Logos” infatti sta ad indicare anche la parola scritta che si contrappone a quella orale, e quindi la parola pensata, ragionata, “raccolta” dal pensiero e messa per iscritto sul cartello (si fa qui riferimento all’originario significato di λέγειν: raccogliere, per cui l’atto del dire avverrebbe nel momento in cui si realizza la raccolta, la selezione delle parole), a cui si contrappone un confine orale, che si dissolve nel momento stesso in cui lo si pronuncia: “mitico”, della cui esistenza non se ne vede nemmeno l’ombra (il termine μύθος sta infatti ad indicare la parola orale e pertanto evanescente, nel momento in cui esce già dalla bocca, aleggiando).
Percorrere il paesaggio: nel tempo della permanenza
Potremmo dire che l’opera caproniana sia una costellazione di paesaggi e che ovunque ci si muova, essi ci inseguono, ci si presentano davanti, dietro, si manifestano nelle loro molteplici forme, sia esso un paesaggio marino (come avviene ad esempio ne Il seme del Piangere), boschivo (si pensi al Conte di Kevenhüller) o, ancora, desertico (si pensi al Muro della terra). In ogni caso, in Caproni il paesaggio non si dà a priori, ma sembra generarsi dal movimento delle figure che lo percorrono: Annina, il “viaggiatore cerimonioso”, etc…, tutti vi si muovono “attraverso”, connotandolo atmosfericamente di tinte diverse in base alla natura stessa di chi lo percorre. Leggendo Caproni, accade quindi che il paesaggio non sia uno sfondo, la scenografia di un’azione, accessoria e non necessaria alla stessa, bensì ci si accorge spesso di come sia esso stesso il coprotagonista, insieme a chi ne fa parte, dell’azione stessa, e quindi della poesia.
L’energia cinetica dei protagonisti della lirica caproniana sembra, infatti, infondere movimento all’intero paesaggio che si traduce ora nella forma del viaggio, che potremmo definire movimento di visioni nella misura in cui il viaggiare si esplica nelle forme visive che, come pellicole in sequenza, ne registrano il movimento (registrato dal corpo fisico) e, di conseguenza, anche il mutamento (attestato fenomenologicamente dal corpo proprio attraverso le sue isole proprio-corporee). Allo stesso tempo, ribaltando l’ordine, possiamo anche parlare di visione di movimenti, facendo leva, questa volta, non sul movimento dello sguardo sul paesaggio percorso, bensì sulla visione (anch’essa in movimento, in un certo senso sincrona) di ciò che di cineticamente complesso avviene nello spazio in relazione al nostro corpo. Riprendendo la prospettiva fenomenologica, relativamente alla psicologia del movimento nello spazio, citiamo Erwin Straus, uno dei precursori della Nuova Fenomenologia:
«Nel paesaggio siamo circondati da un orizzonte; per quanto ci allontaniamo, l’orizzonte si allontana sempre con noi. Lo spazio geografico non ha orizzonti. Se cerchiamo di orientarci da qualche parte, chiedendo a qualcuno la strada o anche ricorrendo a una carta, stabiliamo il nostro Qui come un luogo in uno spazio senza orizzonti. Nel paesaggio non facciamo che spostarci sempre da un posto all’altro; ogni luogo è determinato soltanto dal rapporto con i luoghi adiacenti all’interno del cerchio della visibilità. Riusciamo solo a passare da una parte di spazio ad un’altra, il nostro luogo non è mai una relazione con il tutto tale da abbracciarlo con lo sguardo. […] Nel crepuscolo, nell’oscurità, nella nebbia, sono ancora nel paesaggio. Il mio luogo presente, in questo caso, è ancora determinato dal luogo adiacente e successivo. Mi posso certo ancora muovere; ma non so dove sono, non posso più determinare la mia posizione in un tutto che si possa abbracciare con lo sguardo. La geografia non si può sviluppare a partire dal paesaggio; ci siamo allontanati dalla strada; come uomini ci sentiamo “persi”» [9].
Nel paesaggio, dunque, si realizza una localizzazione relativa al dove siamo qui e ora rispetto ad altri paesaggi, e quindi rispetto ad altri spazi e tutto ciò, come spiega Straus, è determinato dal cerchio della visibilità (visioni di movimenti). Il punto di riferimento per lo “spazio dello sguardo” sarà pertanto sempre un paesaggio che si legherà indissolubilmente a un altro permettendoci una sorta di relativo (vista l’assenza di carte, mappe che ci descrivono la geografia fisica) orientamento.
Nella poesia caproniana, come abbiamo già sottolineato, non sono presenti luoghi geografici dotati di un nome proprio, se non una generica “Livorno”, “Genova”, delle generiche foreste, confini, deserti. L’orientamento avviene per lo più grazie ed attraverso il corpo proprio che percorre uno spazio vissuto predimensionalmente. Comprendere il paesaggio è perciò compito arduo nella misura in cui di esso ne abbiamo solamente accenni vaghi e imprecisi, come accade in Disdetta:
E ora che avevo cominciato
a capire il paesaggio:
«Si scende,» dice il capotreno.
«È finito il viaggio»
La visione che consente la comprensione (da intendere qua etimologicamente come percezione simultanea e d’insieme) non coincide con il paesaggio fisicamente inteso: la visione interna (percezione proprio-corporea) non riflette lo spazio fisico testimoniato dal capotreno. Potremmo dire che le due visioni sono anche temporalmente distinte (esse infatti sono asincrone) e che non si realizza la corrispondenza nella misura in cui ciò che inizia (la comprensione del paesaggio) non corrisponde a ciò che realisticamente nello spazio geografico si conclude (il viaggio). Caproni, quindi, oltre a “sdoganarci” lo spazio, ci “sdogana” anche il tempo, creando atmosfericamente dimensioni parallele a se stanti.
In Caproni il viaggio può essere,atmosfericamente percepito come un’allegoria della vita, nella misura in cui essa sia da concepire come “spazio di accadimento”, ovvero come uno spazio dilatato, in cui trovano luogo una serie di “temporali” eventi che ne sconvolgono, di volta in volta, l’andamento. Scrive il poeta e critico Giovanni Raboni:
«Il terzo grande tema della poesia di Caproni è il tema del viaggio, che pervade gran parte del Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) e del successivo e già ricordato Il muro della terra, ma è anticipato con grande forza, parecchi anni prima, nelle bellissime Stanze della funicolare, che costituiscono una vera e propria cerniera dell’intreccio o sistema tematico caproniano, con quel viaggio-volo della funicolare (trasformata volta a volta in furgone militare, carro funebre, navicella spaziale, macchina del tempo) al di sopra della città amata e attraverso le diverse età dell’uomo, e con quel ritorno finale alla nebbiosa latteria del prologo che è, nello stesso tempo, una regressione al grado zero dell’infanzia e una discesa nel regno dei morti. Il tema è scopertamente, violentemente allegorico: il viaggio è quello della vita, e il poeta-viaggiatore ne commemora le tappe e, soprattutto, ne osserva e commenta l’avvicinarsi alla fine (alla meta?) con un’ironia pacata e tuttavia tormentosa, con una strana, luminosa assenza sia di disperazione che di speranza (o, per usare le sue parole, con una disperazione «calma, senza sgomento»). Un’allegoria, ripeto, violenta, scoperta: ma, proprio per questo, resistentissima ad ogni tentativo di trascrizione; cristallina; impenetrabile» [10].
Sembra che in Caproni ogni viaggio inizi con una partenza, con uno spostarsi da un luogo in cui si è “qui e ora” verso un altro in cui si sarà “lì poi”, come se spazio e tempo fossero simultaneamente sincronizzati in una reciproca corrispondenza. Ciò che avviene in Caproni è uno sdoganamento dello spazio e del tempo fisico propriamente inteso, per tale ragione anche l’inizio del viaggio che si configura nella partenza, risulta alterato:
Biglietto lasciato
prima di non andare via
Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.
La poesia, contenuta ne Il franco Cacciatore, presenta già dal titolo non poche contraddizioni: il “biglietto lasciato prima di non andar via” è, infatti, un non-senso che svela l’inutilità del biglietto stesso testimone muto di una falsa partenza, quasi fosse una fallace affordance. Il viaggio, o per meglio dire, il movimento, non è mai iniziato né è stato troncato sul nascere: esso si è realizzato piuttosto nella dimensione “statica” del restare. In Caproni le partenze non avvengono “mai” se non, potremmo dire, nella dimensione del corpo-proprio che trascende quella del corpo fisico e dunque, allo stesso tempo, dello spazio fisico. Soltanto nello spazio vissuto può vivere il paradosso della partenza statica, nel momento in cui a parteciparne percettivamente sono le isole proprio-corporee e non il corpo anatomicamente inteso. Potremmo dire che la partenza si realizza proprio-corporalmente nel tempo della permanenza, anch’esso non fisico né misurabile. Il restare infatti non può essere legato a nessun “qui” fisicamente localizzabile: esso lascia piuttosto spazio ad un “qua” molto più generico ed indefinito, che non permette nessuna identificazione dello spazio.
Spazio e tempo, pertanto, non si “con-legano” l’uno all’altro, restando sfalsati in dimensioni non comunicanti: il “qua” non trova il suo tempo, ma corrisponde, piuttosto, ad un “mai” che sta ad indicare l’impossibilità di ogni cronologia («il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/qua, dove non fui mai») e, allo stesso momento, uno spazio vissuto, se consideriamo il tempo nella sua estensione, come lo spazio vissuto “dal e del” corpo, come avviene similarmente a “Biglietto lasciato prima di non andare via” in Esperienza:
Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.
Ancora una volta, accade come se il tempo non fosse stato percorso allo stesso modo dello spazio. Ma cosa significa percorrere lo spazio, non attraverso un mezzo extracorporeo come avviene in Disdetta, ma attraverso il corpo fisico, cosa significa camminare falcando lo spazio? Scrive Straus:
«Il camminare non serve più per spostarsi da A a B, per superare una distanza spaziale: nel momento in cui marciamo al suono della musica viviamo noi stessi e il nostro corpo nell’atto di penetrare nello spazio ad ampie falcate. Non viviamo l’azione ma un fare vitale. […] Direzione e allontanamento nello spazio vengono sostituiti da qualità simboliche dello spazio; la lunghezza che si estende dinanzi a noi viene sostituita dall’ampiezza che si apre davanti a noi. […] Quando camminiamo ci muoviamo attraverso lo spazio, da un luogo all’altro. […] Quando camminiamo copriamo una certa distanza; camminando, misuriamo lo spazio» [11].
Ciò che accade attraverso l’atto del camminare è perciò un appropriarsi dello spazio, un fagocitarlo passo dopo passo, come se il corpo fisico volesse “riempirsi di spazio”. Camminare significa perciò attraversare lo spazio, esperendolo e misurandolo al tempo stesso, quasi che il corpo fosse la testimonianza fisica dell’avvenuto attraversamento: l’unità di misura (perché misuriamo lo spazio attraverso il corpo) e, al tempo stesso, nel suo essere metro, la misura stessa dello spazio percorso (dal momento che questo coincide con il metro ultimo percorso dal corpo che lo occupa).
Questo progressivo incedere a falcate, facendo sì che il passo si riempia di spazio, avviene ad esempio in Falsa pista de Il muro della terra:
Credevo di seguirne i passi.
D’averlo quasi raggiunto.
Inciampai. La strada
si perdeva fra i sassi.
L’incedere, in questo caso, si caratterizza per un inseguimento (forse di un ipotetico Dio) irraggiungibile. L’immagine che ci viene presentata è quella di chi, attraverso un continuo camminare, assorbe dentro di sé più spazio possibile in un continuo proseguire senza interruzioni né limiti, quasi come se si volesse fagocitare tutto lo spazio visibile. La mancanza di punti di riferimento spaziali, tuttavia, rende difficile qualsiasi misurazione del cammino attraverso i passi, tanto che il protagonista finisce con l’inciampare (fisicamente e psicologicamente) lungo un percorso che pare caratterizzarsi per il suo essere indefinitamente infinito quasi fosse una continua replicazione di se stesso («la strada si perdeva fra i sassi»). È, infatti, proprio questa propagazione infinita del paesaggio a non permetterne la misurabilità, come se a mano a mano che si va avanti nel cammino, il paesaggio fosse colto da una qualche ansia autogenerativa; così avviene ad esempio ne I campi sempre ne Il muro della terra:
«Avanti! Ancòra avanti!»
urlai.
Il vetturale
si voltò.
«Signore,»
mi fece. «Più avanti
non ci sono che i campi».
Il percorso, che questa volta non è più solcato dai piedi, ma da una qualche vettura, ci dà comunque l’immagine di “un infinito camminare” che si replica sempre in un avanti che, a sua volta, si ripiega sempre su se stesso, autoriproducendosi in modo seriale e identico a se stesso («più avanti non ci sono che campi»). Considerato ciò, bisogna però dire che, in Caproni, è il camminare stesso che crea il paesaggio, che gli dà una spinta propulsiva consentendo solo in seguito la successiva autoriproduzione. Eliminato infatti l’atto del camminare, e dunque anche quello del viaggiare, il paesaggio non avrebbe senso in quanto fungerebbe soltanto da spazio fisico e non da spazio vissuto. Il paesaggio acquista significato e viene definito soltanto nel momento in cui è percorso: se possiamo parlare di autogenesi del paesaggio, da intendersi come un continuo replicarsi su se stesso, a partire da se stesso, non possiamo parlare, allo stesso modo di autodefinizione. Il paesaggio si definisce solo nel momento in cui acquista qualità, ovvero quando viene connotato qualitativamente passando da spazio fisico e geografico, a spazio vissuto dal corpo proprio che lo percorre attribuendogli i qualia che lo caratterizzano e che ci permettono di “definirlo” atmosfericamente.
Potremmo allora dire che in Caproni la tensione della conoscenza verso le forme dello spazio, verso i suoi paesaggi, derivi e sia conseguente a questa forza autogeneratrice del paesaggio stesso: più si percorre lo spazio, più esso tende infatti a nascondersi in forma del tutto paradossale, ovvero moltiplicandosi restando sempre uguale a se stesso. In questi luoghi infinitamente estendibili, il corpo continua a camminare all’infinito, non riuscendo mai a saturare lo spazio e la ricerca, o per meglio dire, lo spazio di ricerca. Da qui il mistero della conoscenza che si realizza non soltanto nei luoghi giurisdizionali di confine, nelle soglie, nel passaggio inteso come vincolo, pòros, bensì anche nei luoghi aperti, tanto che in Caproni potremmo, a buon diritto, parlare di “mistero aperto sugli spazi aperti”.
Il camminare si configura, dunque, come assorbimento dello spazio circostante, che ha come conseguenza l’espansione dello spazio corporeo, come scrive Straus:
«Espansione dello spazio corporeo nello spazio circostante: questa espressione, impiegata per caratterizzare la forma in cui si manifesta il movimento della danza, è utilizzabile anche per descrivere l’esperienza vissuta. Già quando camminiamo normalmente o quando stiamo fermi, lo spazio del corpo – “corpo” inteso nel senso particolare appena spiegato – si prolunga nell’ambiente circostante, vuoi attraverso il movimento pendolare delle braccia, vuoi attraverso la posizione delle braccia. […] Esso rappresenta perciò uno di quei momenti caratterizzanti l’andatura di una persona, così che possiamo dedurre comportamento, stato d’animo e umore di chi cammina. Il movimento oscillatorio diventa un movimento espressivo in cui si annuncia l’atteggiamento del singolo nei confronti dello spazio, cioè del mondo» [12].
Il gesto, in questo caso quello qui citato delle braccia, contribuisce anch’esso all’espressività del corpo, al suo atteggiamento nei confronti dello spazio, rivelandoci lo stato d’animo, la disposizione di chi lo percorre. Se, tuttavia, finora si è parlato in Caproni di espansione dello spazio attraverso il suo assorbimento, potremmo dire quantitativo, si vedrà ora il ruolo del corpo come misura qualitativa dello spazio stesso, attraverso il suo camminare, dal momento che, come detto in precedenza: «quando camminiamo copriamo una certa distanza; camminando, misuriamo lo spazio»[13].
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Si veda Griffero, Atmosferologia, estetica degli spazi emozionali, Guerini e associati, Laterza, Bari, 2010: 30-31: «Il corpo fisico è stabile esteso, dotato di una superfice e divisibile in parti occupanti uno spazio locale relativo, quindi un legittimo oggetto delle scienze naturali (anatomia in primis), il corpo proprio è viceversa privo di superfici e occupa un luogo ‘assoluto’ e non geometrico, è capace di autoauscultarsi senza mediazioni organiche e, siccome eccede il contorno cutaneo, solo occasionalmente coincide con il corpo fisico. Manifesto della sfera affettiva e, in modo totalmente diverso dal corpo fisico, secondo un ritmo polarizzato (contrazione o angustia/espansione o vastità) i cui estremi, entrambi incoscienti, sono il terrore paralizzante (incorporazione) e il rilassamento totale (decorporizzazione), esso si articola non in parti discrete, ma ‘in isole proprio corporee’».
[2] G. Bertone, Letteratura e paesaggio, Liguri e no, Montale, Caproni, Calvino, Ortese, Biamonti, Primo Levi, Yehoshua, Manni editore, Lecce, 2001: 127.
[3] Ivi: 130-131.
[4] P. Zanini, Significati del confine: i limiti naturali, storici, mentali, B. Mondadori, Milano, 2000: 10, 11, 14.
[5] Ivi: 14.
[6] A. Baldacci, Giorgio Caproni, L’inquietudine in versi, Franco Cesari editore, Firenze, 2016: 123.
[7] B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina editore, Milano, 2008: 17.
[8] A tal proposito si veda il saggio di Angela Barbagallo: «La poesia dei luoghi non giurisdizionali» di Giorgio Caproni, Piovan editore, Albano Terme, 1986.
[9] E. Straus, H. Maldiney, L’estetico e l’estetica, Un dialogo nello spazio della fenomenologia, a cura di Andrea Pinotti, Mimesis, Milano, 2005: 71-72.
[10] G. Raboni, in G. Caproni, Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 2016: 994.
[11] E. Straus, H. Maldiney, cit.: 52, 53.
[12] Ivi: 57.
[13] Ivi: 53.
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Clarissa Arvizzigno, ha conseguito una laurea triennale in Lettere (curriculum classico) presso l’Università di Palermo, discutendo una tesi dal titolo Riflettere-riflettersi: la poetica dello sguardo in Palomar e in Ora serrata retinae. Studiando il ruolo della vista come strumento fenomenologico per la conoscenza del reale, si è occupata di Italo Calvino e Valerio Magrelli esaminandone analogie e differenze soprattutto in chiave estetica. Successivamente ha conseguito la specialistica in Italianistica presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sull’opera di Caproni letta in chiave neofenomenologica. È impegnata in ricerche su temi di estetica e di letteratura comparata. Ha collaborato con alcuni portali antimafia online: www.liberainformazione.org , www.antimafia2000.com, www.corleonedialogos.it.
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