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Coronatime. Descrivere la quotidianità in tempo di pandemia

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Patrizia Razzoli

dialoghi intorno al virus

di Emanuela Rossi

20 aprile

I molti antropologi che, come me, sono iscritti alla newsletter della rete “anthropology matters” [1] in questo periodo ricevono quasi quotidianamente commenti, idee, notizie sul Coronavirus in rapporto al mondo dell’antropologia. Qualche giorno fa, ad esempio, si è scatenato un piccolo dibattito generato da un post di un collega inglese, David Mills, sul blog Coronatimes [2]. «Making virtual conference attendance a ‘second-best’ option would lead to two-tier participation, further discriminating against those already on the academic periphery. The current hiatus is a time to rethink our default model of networking as travel, and to explore other approaches to connecting and thinking together»[3].

Mills, in parole molto povere, affermava che tutto lo spostamento che c’è stato in questo periodo verso tecnologie di comunicazione in remoto mostra la possibilità di organizzare conferenze che, usando queste stesse tecnologie, permetteranno l’inclusione degli studiosi del sud globale ed in questo modo si ovvierà alla discriminazione di quegli studiosi che già si trovano alla “periferia del mondo accademico”. I commenti apparsi su Anthropology matters, in seguito a questo post, sono stati diversi, alcuni piuttosto arrabbiati. C’è chi ha fatto notare che non in tutto il mondo si hanno a disposizione elettricità in modo continuativo, computer e connessioni alla rete, dunque non tutti hanno lo stesso accesso alle tecnologie di comunicazione in remoto.

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Camilla Parisi, questa è la mia scrivania oltre che postazione internet da cui seguo le lezioni online non ho voluto metterla in ordine per dimostrare in che caos vivo ogni giorno

Questo per la verità è un problema emerso anche nella didattica universitaria che dall’oggi al domani si è dovuta convertire al remoto. Tutti noi docenti siamo diventati esperti di programmi come Meet, Team e così via, che consentono di fare lezione o conferenze da lontano, così come esami e discussione di tesi di laurea. Salvo poi scoprire che in Italia 1 studente su 5 non possiede un computer, uno smartphone o un accesso alla rete per poter partecipare alle attività così concepite.

Delle varie notizie giunte attraverso la mailing list di Antropologhy Matters una ha colpito più di altre la mia attenzione: si tratta della proposta di Curare, una rivista di antropologia medica, che ha lanciato la call di un progetto chiamato “Diari del Corona”. La rivista cerca corrispondenti da vari Paesi che osservino la propria vita e quella di altri, che seguano ciò che viene detto dai vari mezzi di comunicazione, che salvino su un diario questa documentazione e registrino ciò che succede nella quotidianità. Insomma, come scrivono, si tratta di una «richiesta di diari nel senso stretto del termine».

«This is perhaps a unique opportunity to generate ethnographic material that makes it possible to reconstruct collectively, in retrospect, what is happening right now and what we cannot comprehend at this moment of crisis. The situation in individual countries is developing differently, and countries are increasingly closing their national borders, which makes it interesting and important to look from a comparative perspective at what is happening in similar and different ways in individual countries. The retrospective interpretation of what has happened will probably be quite controversial in the public sphere when it later comes, among other things, to assessing how this situation was handled and the consequences of crisis management, as well as drawing lessons for the future. This kind of daily ethnographic recording will be all the more important for this discussion» [4].

La call mi ha colpito ed incuriosito perché è uno dei pochi casi in cui non si è prodotta una comunicazione istantanea degli effetti e significati del virus, ma piuttosto è richiesta la produzione di una forma diaristica di resoconto sì istantaneo, ma per un lavoro di analisi comparativa che sarà condotto in un momento successivo.

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Daniele Micocci, zona di studio e di gioco

Sono poi rimasta colpita perché mentre leggevo la call avevo tra le mani gli “esercizi di descrizione” degli studenti del corso di Antropologia Culturale che insegnavo nel momento in cui è stata imposta la quarantena che ha trasformato tutti i corsi “in presenza” in corsi “a distanza”. Mi sono ritrovata a fare lezione via Google meet a pochi (e bravi) studenti del corso magistrale in Lingue e Civiltà dell’Oriente che per fortuna avevo avuto modo di conoscere di persona nelle prime due settimane di didattica e con i quali avevo stabilito già una relazione.

È mia consuetudine chiedere agli studenti, che si avvicinano per la prima volta all’antropologia, un esercizio per provare a defamiliarizzare il familiare, attraverso la “descrizione estraniata” di uno spazio sociale. Per ragioni evidenti lo spazio sociale scelto dagli studenti in quasi tutti i casi è stato la loro abitazione, tranne che per Daniele Micocci, studente venticinquenne di lingua giapponese originario di Campi Salentina, che vive nella casa dello studente, ed Helena Moletti, 26 anni, studentessa di giapponese che ha effettuato la sua osservazione sulla strada sotto casa. I 9 studenti (7 studentesse e 2 studenti per essere precisi) hanno prodotto pagine interessanti su come è cambiata l’organizzazione degli spazi in cui vivono, i rapporti con il resto della loro famiglia e le relazioni a distanza con amiche, fidanzati, parenti e con i loro docenti.

Dopo una settimana di esitazione (soprattutto da parte mia) abbiamo deciso di riprendere le nostre lezioni secondo l’orario consueto via Google meet. Ho imparato ad organizzare delle tele-lezioni e mi sono trovata a dialogare con gli studenti entrando principalmente nelle loro camere perché è da lì che la maggior parte di loro si è collegata. Nell’immagine che il pc mi restituiva ho visto sullo sfondo le loro “camerette”, sentito la voce dei loro genitori, fratelli, sorelle e anche i loro cani che abbaiavano. Il loro imbarazzo quando improvvisamente nella stanza (e sullo schermo del pc condiviso) entrava qualcuno, forse la mamma. Ho assistito a pratiche inusuali (o vietate) nelle lezioni in presenza: fumarsi una sigaretta davanti allo schermo, bere qualcosa o dire di doversi disconnettere perché il pranzo era pronto. Io stessa ho avuto quasi sempre accanto al pc quando mi collegavo con loro una tazza di tè che mai ho nelle lezioni in presenza. Si è creata una sorta di “intimità in remoto” che molti di noi stanno sperimentando in questi giorni. Siamo tutti molto distanti fisicamente, ma anche vicini come forse mai sarebbe successo in classe. Nelle lezioni da lontano io a volte non mi trucco o indosso comodi abiti “da casa” e così ho visto fanno loro, ma anche le mie colleghe nelle tele riunioni.

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Daniele Micocci, camera singola del dormitorio

L’esercizio di descrizione che ho assegnato agli studenti doveva dare conto dello spazio fisico in cui si trovavano, delle relazioni con le altre persone, considerando elementi quali prossemica e cinesica, dei paesaggi sonori e olfattivi. Il tutto utilizzando tra le 10 e le 15.000 battute. Come succede quasi sempre questa sorta di diario di campo ha svelato scenari molto interessanti, ovviamente condizionati dall’isolamento e dal fatto di trovarsi in una situazione assolutamente nuova. Tutti hanno scritto il loro resoconto tra la seconda e la terza settimana di lockdown.

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Yasmina Moussaid

Leggendo gli esercizi dei miei studenti ho pensato che la richiesta di “diari nel senso stretto del termine” da parte della rivista Curare non fosse priva di senso. Già dal mio piccolo punto di osservazione ho potuto notare che i 9 resoconti potrebbero aprirsi a varie interpretazioni a partire ad esempio dagli studi di antropologia dell’abitare, di quella degli oggetti ordinari o anche della famiglia o ancora dell’antropologia dei media.

Volendo tentare una tematizzazione sommaria, tutti i miei studenti, che per inciso mi hanno autorizzata ad utilizzare le loro parole in questo testo, hanno raccontato di parti delle loro case rifunzionalizzate. Gli spazi domestici si sono spesso trasformati; le stanze dei miei studenti, che sono quelle col pc, sono diventati luoghi multifunzionali.

Yasmina Moussaid di 23 anni, nata a Montevarchi in provincia di Arezzo, vive con i genitori due sorelle e un fratello, studentessa di lingua araba, è abituata ad un pendolarismo quotidiano tra il Valdarno e Firenze, scrive:

«L’emergenza che stiamo affrontando, però, insieme al tentativo di portare avanti, comunque, i nostri impegni usuali, fanno sì che durante l’arco della giornata, una camera da letto, come la mia, assuma la funzione e il ruolo anche di tutti quei luoghi pubblici in cui non possiamo più recarci, tanto da avere la sensazione che il significato culturale non sia più assunto dal luogo in cui siamo fisicamente presenti, che è sempre lo stesso, ma dal tempo. Infatti, grazie al mio computer, un portatile hp, che possiedo da sette anni, e grazie alla sua webcam che non ho mai utilizzato perché non ne ho mai avuto il bisogno, oggi, se è l’ora di seguire una lezione, allora la scrivania di camera mia diventa il tavolo su cui prendo gli appunti quando seguo le lezioni all’università; se è l’ora dello studio diventa il tavolo della biblioteca dove mi recavo a  studiare dopo le lezioni; se è l’ora di collegarsi con colleghi o amici, quella stessa scrivania può diventare il tavolo del nostro bar preferito, in cui ci recavamo per prendere un caffè e fare quattro chiacchiere insieme. Inoltre, non senza sorpresa, camera mia è diventata l’ambulatorio per le visite mediche a distanza con i professionisti sanitari che mettono a disposizione questa possibilità; è diventata lo sportello bancario dove fare un bonifico o pagare un bollettino; infine, è diventata persino il luogo dove svolgere le due ore settimanali di volontariato come membro dell’Associazione dei Volontari Ospedalieri (AVO), un’attività che ero solita svolgere in un reparto ospedaliero e che adesso ho la possibilità di svolgere mettendomi a disposizione, tramite telefono, per chiunque abbia bisogno o voglia di fare una chiacchierata, oppure per intrattenere i bambini raccontando loro una storia, sempre a distanza e con l’uso di dispositivi tecnologici. Così, stando a casa, e per la precisione, sempre nella stessa stanza – ad eccezione di quando ho la necessità di fare videochiamate più formali e quindi mi vedo costretta a spostarmi alla ricerca di una parete bianca che mi faccia da sfondo e che non sia l’armadio arancione di camera mia – per uno studente è possibile continuare la vita di sempre, adattandosi, non con poche difficoltà, soprattutto per chi è abituato a trascorrere le giornate fuori casa, alle misure imposte dall’emergenza Covid-19».

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Yasmina Moussaid, la scrivania di casa mia

Così Virginia Zampini, pratese di 25 anni, studentessa di lingua cinese che vive con i genitori ed un fratello, scrive:

«Al piano terra c’è il mio studio, del quale si è appropriato mio fratello in questi giorni, la cucina e il salotto, mentre al secondo piano abbiamo le camere e il bagno. Al piano terra c’è un piccolo giardino e al primo piano un terrazzo, entrambi sono stati spesso ignorati da tutti, ma adesso si sono rivelati preziosissimi. […] Io mi sono dovuta adeguare a studiare in cucina, al cui tavolo passo ora la maggior parte delle mie ore di studio, tranne quando devo partecipare a riunioni o video lezioni, e in quel caso sfrutto la mia scrivania in camera, al secondo piano, lontana da rumori e distrazioni».

Patrizia Razzoli, pistoiese, è una studentessa “adulta”, ha 55 anni e vive con il suo compagno, Lelio, la loro figlia Lavinia di 15 anni e una gatta. La conosco dal triennio, si è infatti laureata con me con una tesi sul cammino di Santiago de Compostela. Scrive Patrizia della nuova disposizione della casa:

«Lelio si è ricavato uno spazio di lavoro sul tavolo del soggiorno, che per questo motivo è sempre in disordine. La mia postazione pc è invece sul soppalco. Il fatto che i due spazi siano comunicanti non consente in questo periodo di poter lavorare e studiare contemporaneamente. La soluzione al disagio per entrambi è stata lo spostamento di Lelio, con un altro tavolino del soggiorno, in camera nostra».

La figlia di Patrizia, Lavinia, ha la sua stanza e la possiamo trovare a guardare una serie dal note-pad e chiacchierare con le amiche.

«Alcune sono compagne di classe del liceo, altre amiche della scuola media che ancora frequenta e con le quali si intrattiene volentieri sia in chat, sia in conversazioni telefoniche, anche se quest’ultime rispetto alle prime sono più rare».

Quasi tutte le studentesse hanno descritto momenti dedicati all’attività fisica e così salotti, soffitte o camere diventano anche palestre.

Matilde Mescolini, 26 anni, pratese, studentessa di lingua cinese, da poco tempo si è trasferita in un nuovo appartamento da sola con il suo cane, scrive:

«il mio salotto è diventato anche una palestra, non sono un tipo sportivo ma in questa quarantena è necessario stimolare, oltre che la mente, anche il corpo; dunque mi sono mi imposta di praticare dell’attività fisica quotidianamente, spesso in videoconferenza con un’amica più attiva e ginnica di me, e anche questo diventa un pretesto per svagarsi».

E ancora Virginia:

«solitamente prima di cena faccio un po’ di palestra. L’estrema staticità di questi giorni mi ha fatto recuperare alcuni vecchi attrezzi che avevano ormai cambiato fisionomia, come ad esempio la mia cyclette che è diventata un appendiabiti o il tappetino da yoga trasformato in scendiletto e che in questi giorni hanno recuperato la loro funzione primaria».

Camilla Parisi, bolognese di 25 anni, studentessa di lingua giapponese è chiusa in casa con la mamma; sua sorella ha deciso di passare il periodo di isolamento a casa del suo ragazzo.  Scrive:

«Nel pomeriggio era in programma un workout con mia madre, che fino a un paio di settimane prima passava in palestra due ore al giorno, solitamente dopo il lavoro, per sei giorni a settimana. Le palestre chiuse hanno destabilizzato anche me, visto che i miei tre allenamenti settimanali sono sempre stati una valvola di sfogo, oltre che un modo per tonificare il mio corpo e vedermi meglio davanti allo specchio. Abbiamo quindi deciso di allenarci insieme a casa, facendo esercizi a corpo libero che non necessitano di pesi o attrezzi che non abbiamo. Alla fine sono sempre distrutta e giovedì non è stato da meno. Ma quando dopo il workout mi sono fatta la doccia, mi sono sentita come rigenerata, come se fossi effettivamente appena tornata a casa dopo un allenamento in palestra, e questo mi ha fatto sentire un po’ meglio».

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Camilla Parisi, qui abbiamo dizionari di lingue e scatole con vecchie dispense tornati ora alla ribalta come pesi

Anche Yasmina parla di una soffitta e di un garage rifunzionalizzati:

«Un altro cambiamento riguarda i luoghi che solitamente erano poco frequentati, come la stanza in soffitta e il garage, e che, in questo periodo, sono molto più frequentati. La prima perché contiene alcuni attrezzi per fare movimento fisico che, non potendo uscire di casa, si stanno rivelando molto utili, e il garage perché, da quando mio padre non lavora più, è diventato uno dei luoghi in cui passa più tempo. Quando non legge o non cucina, infatti, è in garage, a riordinare i suoi strumenti di lavoro: le collezioni di chiavi inglesi, le mazzette, i ganci, gli scalpelli, le valigette contenenti chiodi di ogni tipo, gli utensili elettrici».

Sul tema dell’abitare e del suo studio come oggetto di indagine di un’antropologia della contemporaneità, poiché in grado di incorporare a livello microsociale e materiale molte dinamiche fondamentali della società attuale, rimando alla rivista “Antropologia” [5]; così come per l’abitare, in una dimensione più intimamente domestica, legata al tema della cultura materiale e i cosiddetti “oggetti ordinari”, rimando al lavoro di Fabio Dei [6], a sua volta ispirato anche a quello di Daniel Miller. Di Miller mi sembra interessante recuperare, in questo breve testo, il concetto di “accomodation” che mette in rilievo come la nostra relazione con la casa e l’abitare ci consenta di vederla non come oggetto ma come processo.

Scrive Miller al riguardo:

«Da un lato questo termine [accomodation] esprime il bisogno che tutti noi abbiamo di trovare una sistemazione […]. In secondo luogo questo termine può indicare un processo di adattamento nel senso di appropriazione della casa da parte dei suoi abitanti. È meno ovvio che l’adattamento sia reciproco.[…] In terzo luogo il termine accomodating esprime un senso di disponibilità, di accordo favorevole al compromesso con qualcun altro, spesso l’unico modo con cui una accomodation può essere ottenuta. Se consideriamo la nostra relazione con la casa e l’abitare attraverso il concetto di accomodating abbiamo di fronte a noi la casa vista come processo, non come oggetto. Noi siamo sempre coinvolti in un processo di accomodation reciproco, siamo sia oggetti sia soggetti di questa pratica» [7].

L’idea di una produzione di “accomodamento” mi pare un aspetto interessante in un tempo in cui le nostre case, con le persone che qui coabitano, in certi casi anche senza volerlo, stanno effettivamente subendo trasformazioni. Sono i testi degli studenti ad avermi condotta in questa direzione.

Camilla ad esempio, nello spazio di poche righe, dà conto di almeno due “accomodamenti” per altro collegati: rispetto alla separazione dei suoi genitori che rende gli spazi domestici disponibili a nuove interpretazioni e ad un lucernario, nella sua nuova camera, che in date circostanze si fa rumoroso. Scrive:

«Quando i miei genitori si separarono, per non stare più in camera insieme a mia sorella più piccola, io decisi di trasferirmi nell’ex studio [del padre nds]. Come per il resto del soppalco, quindi, la mia stanza non ha finestre, ma un lucernario, così che fenomeni atmosferici intensi, come un temporale, si sentono sul tetto e sul vetro del Velux in modo particolarmente intenso. Questo mi ha portato a dormire sempre con i tappi alle orecchie».

L’altro grande tema è legato alla descrizione di una socialità mantenuta in vita attraverso chat, telefonate e programmi di videoconferenze. Anche questo tema ovviamente si può aprire ad un’analisi antropologica come ci ha mostrato sempre Daniel Miller [8].

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Cosimo Pellegrini

Cosimo Pellegrini che ha 24 anni e sta passando il suo confinamento nella casa dove è cresciuto, assieme ai genitori e a sua sorella in provincia di Livorno, a Bibbona, studia lingua cinese. Cosimo nel comporre il suo testo si è ispirato ad un “classico” articolo sulla de-familiarizzazione del familiare e parla di sé e della sua famiglia in terza persona, come stesse osservando strane pratiche e rituali nuovi. Mi riferisco al noto Body Ritual Among the Nacirema [9] di Horace Miner.

Scrive Cosimo:

«La famiglia (senza il padre che è ancora ancorato al suo luogo di lavoro) si riunisce per Videochiamare i nonni residenti in un’altra provincia toscana, la chiamata rientra, nuovamente, tra i Nuovi Idoli, stavolta non è però specifica all’azione del chiamare i nonni, ma al gesto del videochiamare; difatti questo nuovo rituale è sempre più radicato tra gli italiani, soprattutto tra i giovani, che solitamente si riuniscono in sessioni di Chiamate rituali tra amici, anche loro chiusi nelle loro quarantene; questo rituale è legato all’utilizzo di varie app come: Skype, Hangouts, Meet, Discord e molte altre piattaforme utili alla partecipazione di 8 o più individui. Questo rituale rientra nelle nuove forme di socializzazione virtuale legata all’obbligo di quarantena e si è rivelata un’ottima valvola di sfogo per gestire la lontananza fisica e la reclusione sociale dei più giovani, essa ha preso prepotentemente il posto delle “serate ed uscite” fine settimanali dei suddetti, trasformandosi in rituali fissi in determinati orari della giornata. [….]. L’ultimo rituale della giornata il Videogiocare con alcuni amici scelti. Questo rituale comprende due specifiche azioni legate: la Telefonata e la Scelta del gioco. La chiamata è quasi sempre effettuata tramite delle applicazioni per le chiamate vocali da telefono (solitamente Discord), mentre la scelta del gioco è legata all’utilizzo o meno del computer ed alla disponibilità dei vari giocatori di disporre tutti dello stesso gioco. Questo rituale può inoltrarsi fino a tarda notte, fino a che, finalmente, anche il figlio maggiore decide di ritirarsi a dormire».

Chiara Orefice 25 anni, nata ad Empoli, studentessa di lingua ebraica vive con i genitori e una sorella, racconta:

«Trascorro sempre il pomeriggio nella mia camera, ci sono volte in cui mi metto a sbobinare le lezioni registrate su moodle o google drive, altre in cui cedo alla disperazione e mi metto a dormire o altre invece, passate ad allenarmi. Combattere la noia e mantenere i nervi lucidi non è affatto facile ed è in questi casi che mi affido alla tecnologia. Grazie ai vari gruppi WhatsApp sul cellulare mi tengo in contatto con i miei amici, ci sentiamo al telefono e ci videochiamiamo. Cerchiamo sempre di risollevarci il morale, ci aggiorniamo sempre sulla situazione attuale cercando di essere ottimisti e pensiamo alle cose da fare una volta finita questa situazione».

Così Matilde:

«Con le videochiamate l’appuntamento è fisso, tutti i giorni riesco a mantenermi in contatto con la ristretta cerchia dei miei cari e amici e fidanzato, anche se qualcuno si sente piuttosto inibito dalla videocamera o dal telefono, quindi non sempre è troppo semplice interagire. È simpatico vedere come all’interno delle case tutto si muova e abbia un senso, come le persone si siano organizzate per vivere questa convivenza h24, sempre insieme appassionatamente».

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Virginia Zampini, la postazione dalla quale mi connetto per fare le lezioni online, ma anche per fare ripetizioni e catechismo, sempre in remoto. La mia scrivania era fino a qualche tempo addietro il mio comodino

 E Virginia:

«Alle 18 sono andata in camera per prepararmi per un incontro di catechismo in remoto. Vista la situazione, anche per quanto riguarda il catechismo ci siamo dovuti organizzare per un approccio a distanza e, per un’oretta circa, insieme ai miei colleghi incontriamo virtualmente i ragazzi. A questo incontro prendono parte anche alcuni genitori, che passano dietro ai ragazzi per salutarci, chiederci come stiamo e commentare brevemente i tempi che stiamo vivendo. Dopo questo incontro ho fatto una videochiamata con un’amica, unico modo per preservare i rapporti sociali in questi giorni. Nonostante mi sia ormai abituata a queste nuove condizioni di vita, risulta ancora molto strano dover ridurre al minimo i rapporti con l’altro e potersi incontrare solamente attraverso uno schermo. Sento arrivare un buon odore dal piano di sotto, saluto la mia amica e scendo».

Un altro tema emerso nelle scritture dei miei studenti è il cibo e la sua preparazione che è diventato un modo per passare il tempo. Scrive Camilla:

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Camilla Parisi, Eccomi stravolta poco prima di cuocere i ravioli cinesi che ho appena finito di preparare di questi tempi non mi fido molto a prendere cibo da asporto

«Non ne posso più di sentir parlare di Coronavirus. Così, per distrarmi, ho deciso di fare il pane. Da quando ho più tempo libero mi sono dedicata molto alla cucina e quasi ogni giorno preparo qualcosa di più o meno elaborato, dai primi, ai dolci, ai lievitati, per la gioia di mia madre, che mi fa sempre i complimenti. Giovedì, nello specifico, avevo finito il pane in cassetta e non avevo voglia di uscire con la pioggia e fare due ore di fila davanti al supermercato, tutto per prendere una cosa sola. Per fortuna avevo tutti gli ingredienti per fare il pane a casa. Dopo averlo impastato, l’ho lasciato qualche ora a lievitare».

 O da una testimonianza di Patrizia su sua figlia:

 «Più tardi, Lavinia è scesa in cucina con l’idea di preparare una torta, per ingannare il tempo. Le ho chiesto di non consumare tutte le uova perché altrimenti sarei stata costretta a scendere nuovamente a fare la spesa, cosa che – date le circostanze – avrei preferito evitare».

Così Matilde:

«Mi piace cucinare e soprattutto mangiare, quindi mi prendo tutto il tempo per rilassarmi con un buon bicchiere di vino e tra i fornelli do sfogo alla mia fantasia, mentre in sottofondo passano le spiacevoli notizie di ciò che accade all’esterno».

Daniele Micocci, l’unico studente fuori sede, rimasto in uno dei dormitori dell’università, si è collegato per le lezioni dalla stanza che gli ho sentito definire “cella”. Daniele nel suo testo ha dato conto delle trasformazioni subite dalla mensa che è l’unico spazio sociale che al momento frequenta. Racconta:

«Sin dalla porta è possibile leggere numerosi cartelli che invitano gli studenti a mantenere all’interno dello stabile una distanza di almeno un metro contrassegnata in maniera raffazzonata da segnaposti di nastro per pacchi marrone per terra. In aggiunta, un altro cartello scritto a mano e in maiuscolo stabilisce che essi potranno prendere i pasti uno alla volta. Una volta all’interno, vi è uno divisore per file con il lato destro per coloro che attendono il proprio turno e quello sinistro per coloro che si accingono a uscire. In entrambi i lati vi è un dispensatore di soluzione a base alcolica per disinfettare le mani, sebbene a essere usato sia prettamente quella sul lato di coloro che entrano, nello specifico prima di prendere un vassoio di legno laccato dalla pila sistemata su tavolino lì accanto».

Questo testo rappresenta un primo tentativo di mostrare la ricchezza etnografica di alcune scritture della vita “ordinaria” in un periodo “straordinario”.  I testi che ho qui utilizzato possono aprirsi a molte possibilità di analisi che qui neppure ho abbozzato, ma mi è sembrato interessante provare a proporre una prima tematizzazione “a caldo”.

Certamente suggestiva è la teoria dell’accomodation di Miller, sopra menzionata. Si sono descritti vari modi dell’accomodamento: spazi della casa che acquistano nuove funzioni, movimenti di oggetti, di persone e di attività da una stanza all’altra, accomodamento tra persone che nella quotidianità sono così vicine magari solo durante il fine settimana o nei periodi di festa e dunque devono ricalibrare le loro lontananze e vicinanze; a volte l’accomodamento è consistito nel decidere di passare il periodo di isolamento in una casa diversa da quella abituale oppure nel riprendere possesso della “cameretta” che si usava quando si viveva con i genitori.

In questo lungo periodo di isolamento e di immobilismo, visto che è vietato uscire di casa se non per comprovati motivi, le abitazioni invece si sono rivelate spazi incredibilmente dinamici, o ancora meglio è emersa un’idea della casa, nel suo rapporto con gli individui che la abitano, non come un oggetto, ma come un processo.

Citando Mary Douglas che propone di vedere la casa come una “macchina della memoria” si può affermare che «ogni edificio ha una peculiare capacità di memorizzare o anticipare. […] la casa stabilisce i suoi ritmi temporali in risposta a pressione esterne: lo fa cioè in tempo reale»[10]. La conseguenza di lunghi inverni sarà una dispensa piena di cibo, di un’estate molto secca delle riserve di acqua e così via. In questo momento ci troviamo a contrastare gli effetti di un evento esterno e non sappiamo se e cosa di questo rimarrà traccia nei nostri spazi domestici.

Per concludere mi piace l’idea di accostare questo nostro momento di isolamento forzato, caratterizzato dalla sospensione di tutte le attività connesse, alla “Struttura”, al liminoide” così come teorizzato da Victor Turner. Il suffisso -oide sta ad indicare qualcosa che, nel nostro mondo complesso, somiglia al liminale (il momento di sospensione o margine) dei riti di passaggio delle “società tribali”. Si tratta di «‘spazi neutrali’ o zone privilegiate [...] che si collocano in disparte rispetto alla linea fondamentale degli eventi produttivi o politici»[11] dove si può giocare con i «fattori della cultura, raccogliendoli in combinazioni solitamente di carattere sperimentale, talvolta casuali, grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti» [12].

Se ci troviamo in un momento liminoide, alcune delle cose sopra descritte possono esser viste come sperimentazioni di nuove modalità del co-esistere e dell’accomodarsi. Sarà interessante vedere se e cosa di queste sperimentazioni porteremo con noi, concluso il periodo di lockdown, nella nostra “normalità” [13].

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 Note

[1] «Anthropology Matters is the official postgraduate network of the Association of Social Anthropologists of the UK and Commonwealth (the ASA), including the open-access peer-reviewed Anthropology Matters Journal and an email list alerting members to jobs, grants, conferences, and other relevant issues. https://www.anthropologymatters.com/index.php/anth_matters». (consultato il 10/04/2020)
[2] «Corona Times is a blog written and curated by engaged scholars from across the world, coming together across multiple disciplinary and interdisciplinary perspectives, with a strong grounding in humanities and social sciences, and in dialogue with public health knowledge. The blog is a public engagement project of HUMA, the Institute for Humanities in Africa at the University of Cape Town». (consultato il 10/04/2020)
[3]David Milles, Going online can redress global inequalities in academic collaboration,  https://www.coronatimes.net/going-online-academic-collaboration/ (10 aprile 2020)
[4] https://boasblogs.org/witnessingcorona/curare-corona-diaries-project/ (10 aprile 2020)
[5] “Antropologia”, Volume IV, Numero 3, dicembre 2017
[6] Fabio Dei, La materia del quotidiano. Introduzione, in Bernardi, S., Dei, F., Meloni, P., La materia del quotidiano. Per un’antropologia degli oggetti ordinari, Pisa, Pacini, 2011: 5-23
[7] Daniel Miller, Per un’antropologia delle cose, Milano, Ledizioni, 2013: 88-89
[8] Daniel Miller,Don Slater The Internet: An Ethnographic Approach, Berg, 2001
[9] Horace Miner, Body Ritual Among the Nacirema, “American Anthropologist”, 1956, 58(3): 503-507
[10] Mary Douglas, Il concetto di casa: un tipo di spazio, in Bernardi, S., Dei, F., Meloni, P., cit: 30-31
[11] Victor Tuner, Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1986: 68
[12] Ivi: 80
[13] Un ringraziamento sentito lo devo alle studentesse e agli studenti del corso di Antropologia Culturale, citati nel testo, che mi hanno ispirata ed aiutata con i loro esercizi di descrizione e le loro fotografie. Spero di non aver tradito, nella mia scrittura, le loro parole e la loro fiducia.

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Emanuela Rossi, docente di discipline DEA all’Università di Firenze dove insegna Antropologia Culturale e dei Patrimoni. Presso la Scuola di Specializzazione in Beni DEA dell’Università di Perugia insegna Antropologia museale. Ha cominciato a lavorare su temi patrimoniali, inizialmente da una prospettiva museale, nel 2003, conducendo la ricerca di dottorato presso il Museum of Anthropology di Vancouver (Canada). Qui ha lavorato sul processo di formazione della collezione di manufatti prodotti dagli indigeni della costa nordoccidentale del Canada. Sempre in Canada fa parte della Great Lakes Research Alliance for the study of Aboriginal Arts and Cultures (GRASAC): un gruppo di lavoro internazionale che sta conducendo un progetto di digital repatriation. Attualmente sta facendo ricerca sui processi di “indigenizzazione” dei musei nazionali canadesi con una ricerca sulla National Gallery of Canada (Ottawa). In Italia, in questo momento, sta lavorando su alcune «comunità di eredità» nella prospettiva dell’antropologia dei processi di patrimonializzazione.

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