In un tempo e in una società in cui la gastronomia rischia di tracimare nella gastro-anomia, essendo il cibo diventato parte non secondaria di un consumo compulsivo, di un piacere estetico e di una ricerca edonistica e un po’ turistica del vivere bene, la categoria dell’etnicità può essere applicata anche a quegli alimenti che per una convenzione linguistica chiaramente etnocentrica qualifichiamo come altri, classifichiamo e attribuiamo agli altri diversi da noi, sulla scorta di una rappresentazione prodotta da un nostro preciso modo di pensare, organizzare e ordinare la realtà. Nell’attribuire all’etnico le caratteristiche tout court dell’alterità, siamo consapevoli che il termine è diventato un oggetto da maneggiare con cura, dal momento che l’uso semantico della categoria si fonda su costruzioni ideologiche, sulla sostanziale asimmetria di un sistema di classificazione autoreferenziale e unidirezionale, privo com’è di reciprocità e di bilateralità. Quel che con qualche approssimazione definiamo cibo etnico in quanto consumato da minoranze straniere o immigrate, è per queste ultime semplicemente cibo. Viceversa è improbabile e piuttosto raro che gli altri definiscano etnico quello che per noi è il nostro cibo tradizionale.
Va osservato che nell’ambito dell’alimentazione l’aggettivo etnico sembra sfumare le connotazioni dello stigma negativo che accompagna l’identificazione dello straniero e sembra invece più spesso richiamare il fascino e la seduzione dell’esotico, rappresentando una risorsa simbolica preziosa per chi fa della differenza un oggetto di consumo o di status, o più correttamente un’occasione di conoscenza e di “nutrimento” culturale. Resta vero, come ci ha insegnato Lévi-Strauss, che il cibo in genere non è solo una cosa da mangiare, ma una cosa per e con cui pensare, e in quanto tale una formidabile chiave di lettura per comprendere le evoluzioni antropologiche delle società contemporanee, investite e attraversate da una oggettiva tensione tra l’estensione globalizzata dei flussi di alimenti e la specifica dimensione locale delle città.
L’alimentazione nei regimi urbani e nella prassi quotidiana è vettore di fenomeni che penetrano in profondità i diversi livelli della vita individuale e collettiva. In questo senso l’esotismo, nel mercato dell’alterità, può dare impulso ad una sorta di “safari gastronomico”, per usare le parole di Marino Niola, quando serve ad appagare le curiosità o le ansie, tutte occidentali, di nuove esperienze e percezioni. Ma può anche corrispondere al legittimo desiderio di incontrare l’Altro quando attraverso il cibo si tende a conoscerne e a riconoscerne l’identità umana e culturale, il mondo di idee e di rappresentazioni simboliche che sta dietro e dentro il piatto che sperimentiamo, assaggiamo o condividiamo.
Nel proliferare degli itinerari enogastronomici, in mezzo all’imperversare dei fast food e al recupero dei slow food, tra le spinte alla globalizzazione e mcdonaldizzazione da un lato e le reviviscenze della localizzazione e tipicizzazione territoriale dall’altro, nel nostro Paese si sta facendo strada l’etno food, la cucina cosiddetta etnica, moltiplicandosi nelle nostre città giorno dopo giorno i ristoranti e i minimarket gestiti da immigrati. Nelle mense scolastiche cominciano a diffondersi menù di piatti non occidentali. E perfino nelle nostre case lentamente e silenziosamente si introducono cibi e pietanze della gastronomia filippina o mauriziana, preparati dalle tante donne straniere a cui sono affidate le cure degli anziani e dei bambini italiani.
La visibilità dei gruppi etnici nel paesaggio antropologico dell’Italia contemporanea passa anche attraverso la penetrazione dei nuovi stili alimentari, l’apertura dei locali dove si preparano e si consumano cibi esotici, la diffusione di esercizi commerciali dove è possibile acquistare ingredienti e prodotti importati dai Paesi da cui provengono gli immigrati. Per i quali queste piccole imprese rappresentano formidabili leve non solo di emancipazione economica ma anche e soprattutto di aggregazione e riconoscimento sociale, vere e proprie agenzie di network e di coesione di comunità diasporiche.
Se è vero che i gruppi umani nell’imprimere i segni del proprio radicamento nel mondo trasformano i luoghi a propria immagine, gli immigrati contribuiscono a riplasmare e rimodellare l’immagine e l’identità delle nostre città, costruendovi un nuovo ordine di riferimenti spaziali, nuove forme di domesticità, nuovi orizzonti simbolici di orientamento. Attorno a questi percorsi si tende a ricomporre il tessuto smagliato di vicoli e catoi dei nostri centri storici, si elaborano significativi reticoli sociali destinati a produrre originali traffici culturali, che danno linfa rinnovata a quartieri degradati e aree urbane spesso esangui. L’insediamento degli immigrati contribuisce infatti non solo ad attivare processi minimali di manutenzione di un ricco patrimonio edilizio in abbandono, ma concorre anche a riprodurre quella vita quotidiana di relazioni tradizionalmente ordita nella trama del vicinato. Nell’ambito dei fenomeni di prossimità e appropriazione territoriale, accanto alle insegne delle associazioni straniere e dei negozi destinati agli stessi connazionali, quali, per esempio, i centri import-export orientali, i punti di telefonie internazionali, gli sportelli finanziari per l’invio delle rimesse, si tracciano sui muri scritte e segnaletiche nella lingua d’origine degli immigrati, così da sovrapporre a quella dei locali una nuova originale toponomastica di vie e slarghi.
Accade pertanto a Palermo, ma anche altrove, che una nuova mappa dei quartieri dei vecchi mandamenti si stia disegnando, unitamente ad una rinnovata topografia economica e culturale. Si tratta di attività per lo più intraprese e condotte dagli immigrati, i quali con una certa vocazione all’autoimprenditorialità escogitano e producono beni e servizi destinati eminentemente alla comunità di riferimento ma proposti comunque all’intera città e ai cittadini. Dentro questo articolato circuito di economia etnica sono luoghi privilegiati ed elettivi quelli funzionali all’alimentazione: i ristoranti, le rosticcerie, i minimarket, le macellerie islamiche, le osterie o taverne, le friggitorie, i chioschi e le bancarelle mobili, le cucine di strada, i mercati. Qui l’universo dei cibi cosiddetti esotici si dispiega in tutta la sua abbondanza e varietà e senza soluzione di continuità si mescola e si mimetizza fino a confondersi con l’insieme degli esercizi commerciali e punti di ristorazione gestiti dai palermitani. Qui si alternano e si sovrappongono le insegne che celebrano le virtù del kebab o del pollo allo spiedo, dello shingara indiano [piadine di patate e verdure] o del panino con le panelle o con la meusa, del couscous, del fufù ghanese [una sorta di polenta a base di manioca accompagnata da una piccante zuppa di carne di pecora] o del dalfuri bengalese [schiacciata di lenticchie rosse].
Mentre la cronaca ci informa che altrove è cominciata la battaglia politica contro la presenza nei centri storici di luoghi di consumo alimentare etnicamente connotati, a Palermo e in altre località della Sicilia, la compresenza e la convivenza di una pluralità di culture gastronomiche sono ancora probabilmente preziose eredità di quella storia di lunga durata che sulle vicende cumulative dei diversi apporti di civiltà straniere ha contribuito a fondare la vocazione per molti versi multietnica delle nostre città non meno del complessivo profilo antropologico di tutta la Sicilia. Quei sindaci – di Lucca, Brescia, Bergamo, Monza – che con varie ordinanze hanno deciso di allontanare in periferia i ristoranti etnici per difendere dal degrado o dalla minaccia esterna una presunta identità locale e nazionale, riproducono quell’equivoco duro a morire che ritiene le culture sistemi monolitici e non costruzioni aperte, e considera le identità irriducibili essenze da proclamare enfaticamente e da rivendicare bellicosamente. C’è da chiedersi cosa sarebbe stato della moltitudine di pizzerie inventate dal nulla dai nostri emigranti, se le autorità di Londra o di New York avessero adottato eguali misure restrittive. La verità è che le «intolleranze alimentari» nascondono le intolleranze politiche e le resistenze culturali all’accettazione e all’inclusione sociale degli stranieri. Attraverso il rifiuto del cibo si nega la relazione con l’Altro. Alle oscure paure fin qui strumentalmente promosse attorno alla costruzione delle moschee si sommano oggi le pretestuose apprensioni per l’invasione dei ristoranti africani o maghrebini che inquinerebbero la cosiddetta “tipicità” dei prodotti della nostra cucina. Questa sorta di protezionismo si risolve, in realtà, nel più gretto e greve localismo. È appena il caso di ribadire che nulla di autenticamente autoctono appartiene alla cosiddetta tradizione culinaria e tutto ciò che si è consolidato nella letteratura e nelle pratiche alimentari è il frutto delle plurisecolari vicende di scambi, prestiti, migrazioni, colonizzazioni, commistioni e rielaborazioni.
Non c’è dubbio che nella condivisione degli spazi urbani il cibo è catalizzatore del contatto e del confronto tra culture, è mediatore dello scambio e delle negoziazioni, ma nel favorire mediazioni e relazioni non rimane immutato, può mutare di forma e di segno, di senso e di funzione. Con il cibo che transita da un piatto ad un altro dialogano e si dispongono al cambiamento anche gli uomini, i gruppi, la società. Pur restando evidenti e, a volte, stridenti i limiti culturali della commestibilità, che ci impediscono, per esempio, di mangiare il grass cutter, il ratto selvatico proposto dalla cucina ghanese dalle parti di Casa Professa, a Palermo, tuttavia perfino il disgusto può essere preludio del gusto e non poche delle pietanze offerte da cingalesi, tunisini, mauriziani, bengalesi a Ballarò, incontrano il gradimento dei palermitani, dei giovani soprattutto, ma non solo.
Intraprendere un lavoro autonomo è di per sé indice di un coraggioso protagonismo individuale e di un progetto migratorio abbastanza maturo. Vettore di indipendenza, di orgoglio personale e di promozione sociale, l’attività commerciale intrapresa dagli immigrati è il segno più evidente del loro radicamento nelle nostre città ed è elemento strutturale dell’economia del nostro Paese. Questa componente essenziale della nostra società ha la sua piena e vistosa visibilità nei mercati storici, nei luoghi che per antonomasia sono laboratori urbani di scambi e transazioni, spazi vitali di interazioni umane e culturali. Qui è il centro di gravità attorno a cui convergono ed entrano in gioco tutte le differenze, che si incrociano e si sovrappongono in una sintesi inedita e in forme ostentate e teatralizzate. Nei mercati all’aperto sono ospitate tutte le varietà culturali del vivere quotidiano, i diversi modi di essere e di pensare, le esperienze relazionali estremamente aperte all’incontro e alla comunicazione tra gli uomini. Luoghi di elezione della domanda e dell’offerta, senza alcuna interdizione all’accesso, vi si celebrano e vi si sciolgono le alleanze, le trattative, i dialoghi e i conflitti. Formalità e informalità, legalità e illegalità, stanzialità e mobilità coesistono e si sostengono reciprocamente nelle realtà economiche e sociali attivate dai traffici non solo delle merci ma anche delle parole che precedono e accompagnano i gesti del comprare e del vendere. «Sono le persone a fare un mercato e non le merci», ha scritto Marco Aime, e, in fondo, la principale merce scambiata è proprio la parola. Nell’incessante flusso di voci e accenti di lingue diverse sono i simboli che sembrano contare più delle cose, la funzione sociale più di quella materiale, il valore del rito più di quello dei prezzi, l’intrattenimento ludico, a volte, più degli esiti degli affari.
In questo scenario gli immigrati trovano spazi privilegiati e ruoli non marginali dando vita a fitte reti commerciali e a originali processi di ibridazione nelle forme sociali e nelle pratiche culturali inventate e costruite dal basso. All’ombra delle rovine monumentali del centro storico e nel groviglio delle case e dei cortili che si affacciano su vicoli e brevi slarghi a Ballarò si dispiegano ogni giorno le mille attività dei piccoli commerci escogitati e organizzati da sempre con pochi mezzi dai palermitani e più recentemente da bengalesi, ivoriani, ghanesi e maghrebini. L’imprenditoria migrante si sovrappone a quella locale, s’incunea negli interstizi della comune arte dell’arrangiarsi, surroga gli esodi dei venditori anziani, in alcuni casi seleziona una clientela diversa, più spesso si rende indistinguibile nel tessuto tradizionale del mercato, colonizzando gli stessi spazi con densi reticoli sociali di mutuo appoggio. In questo alveare brulicante di umanità e di attività in continua evoluzione, si articolano fenomeni in cui il vecchio e il nuovo si soccorrono a vicenda, così che il quadro culturale che si configura tende ad amalgamare le categorie dell’etnico e del locale e l’una sembra ridefinire e riplasmare il senso e il profilo identitario dell’altra. Tra i pochi spazi urbani eletti a luoghi di tolleranza, di libertà e di aggregazione, i mercati sono – a guardar bene – osservatori speciali per la comprensione non solo della fenomenologia e della evoluzione della condizione migrante ma anche del destino antropologico delle nostre città.
ottimo articolo, storico-istruttivo e scritto alla maniera del Prof. Cusumano: chiaro e scorrevole per una piacevole lettura perfettamente comprensibile.