di Giuseppe Sorce
Qualche giorno fa ho visitato il castello di Carini. Eravamo solo in due. Il cielo era stranamente plumbeo. Tutti i balconi erano aperti, così decisi di affacciarmi da quello che mi sembrava il più bello. Fu così infatti. Mi sentivo come il signore locale dei tempi in cui il castello fu eretto e poi abitato. Il lato su cui mi affacciavo era incastonato direttamente nel precipizio verticale della parete rocciosa del colle. Da lì puoi avere uno sguardo su tutto il golfo di Carini, le campagne e le cime interne mentre a sinistra ci sono le montagne più alte.
Mi misi a pensare allora alle bellissime lezioni della, purtroppo scomparsa, professoressa Scarlata. In quelle ore che sembravano durare sempre troppo poco, in quella piccola aula dell’Università di Palermo, ci raccontò un Medioevo diverso, inaspettato, luminoso. Siamo infatti abituati a pensare il Medioevo come i “secoli bui”, così ci viene insegnato a scuola. Secoli di terrore, miseria, povertà e arretratezza. Beh, sapete bene che non è proprio così. Che anzi al Medioevo dobbiamo tanto. Quelle lezioni avevano la preziosa capacità di farci immaginare come si viveva nel Medioevo e non solo nei castelli e nelle corti dorate. In quelle ore riuscivamo proprio a visualizzare le fiere, le passeggiate fra le vie cittadine, il quotidiano dei sobborghi feudali, la ritmicità dei raccolti e dei commerci ma soprattutto la lenta nascita di uno spirito europeo che veniva costruito proprio nella Sicilia dell’epoca grazie alla diversità, alla multiculturalità delle idee, delle arti e delle lingue.
Se c’è una cosa che i grandi maestri, tra cui proprio Marina Scarlata, mi hanno insegnato è che la pluralità dei punti di vista, di voci, di attenzioni, di visioni e di sogni sono alla base di tutto ciò che c’è in quella che spesso si prova a definire come “civiltà occidentale”. Se pensiamo alle grandi trasformazioni delle arti, delle scienze e della tecnologia, troviamo spesso una città, una regione, un luogo preciso che storicamente si ritrovava a essere fulcro di flussi migratori, scambi commerciali, accumulazioni di idee, scoperte, innovazioni.
Per esempio, non esisterebbe la geografia come la conosciamo, e con essa il mondo come tuttora lo rappresentiamo, senza la Grande Biblioteca di Alessandria d’Egitto, non ci sarebbe stata la modernità senza la Firenze del Rinascimento e, più tardi, la Parigi e la Londra dell’800, e così via, gli esempi sono migliaia nella storia culturale dell’Occidente. La Sicilia di Federico II è uno di quei casi. Ma non è questo ciò di cui voglio discutere adesso, bensì la relazione strettissima (e comprovata in tutti i campi del sapere dell’uomo) che c’è fra multiculturalità e progresso (termine che non amo ma che rende l’idea al momento), fra diversità e benessere di una civiltà. Fra gli insegnamenti di quel corso di Storia medievale c’era anche questo e cioè pensare in termini di civiltà. È proprio nelle civiltà medioevali che l’interesse verso la tutela e il benessere delle proprie genti assume un’importanza sempre più pregnante dal punto di vista politico.
Oggi, mille anni dopo l’anno mille d. C., nell’Occidente europeo ci sono ancora lotte da condurre sul fronte dei diritti. Purtroppo in quello Occidente, che dovrebbe e potrebbe essere oggi il baluardo dei diritti dell’uomo nel mondo, ci ritroviamo a doverci battere non solo a fianco delle minoranze per la conquista di certi diritti ma ancor prima per l’accettazione e la difesa stessa delle minoranze (etniche, sociali, culturali, religiose ecc.) – diritti e tutela appunto, tanto più che la crisi sanitaria portata dal covid-19 ha reso più urgente e manifesto quanto ci sia ancora da fare [1]. Mi riferisco in particolare al diritto di cittadinanza delle cosiddette seconde generazioni, tema, dibattito, frontiera che Dialoghi Mediterranei e i suoi autori hanno sempre analizzato, dibattuto, approfondito e difeso – nell’ultimo numero in particolare rimando al lavoro di Paolo Attanasio, Immigrazione, ripartiamo dalla cittadinanza [2], e di Giovanni Cordova Cittadinanze, intorno ai diritti da estendere [3].
Oggi più che mai le migrazioni e i migranti dovrebbero essere al centro delle politiche in tema di tutela e diritti. Perché? In risposta a questa domanda non c’è solo l’etica, i valori democratici e il rispetto dei diritti fondamentali. In risposta a questa domanda c’è una cosa che si chiama Antropocene e, lo so, ne parlo ormai quasi in ogni mio spazio qui su Dialoghi, ma non abbiamo più la possibilità di ignorare il tema “crisi climatica”. E se è proprio il collasso degli ecosistemi, il mutamento del clima, l’esaurimento di certe risorse e l’inquinamento irreparabile di altre, a motivare ignobilmente certe retoriche xenofobe e razziste, la storia del genere umano ci insegna l’esatto opposto. Non solo la oggettiva necessità di una pluralità di idee, menti e linguaggi al fine di elaborare soluzioni nuove per la sopravvivenza e il benessere della specie ma anche il bisogno irriducibile di moltiplicare il più possibile i sogni e le visioni del futuro. Oggi, ancora di più. Oggi che dal futuro arrivano gli interrogativi maggiori sulle sorti delle nostre civiltà tutte che abitano il mondo. A parlare in questi termini è Appadurai, che in un’intervista di due anni fa si è espresso in maniera molto chiara, come ci racconta l’autrice Daniela Panosetti:
«è sempre lui che oggi si spinge a parlare del futuro come “un fatto”, ancorché culturale: qualcosa dunque che può essere non solo pensato, ma effettivamente progettato e costruito. Come farlo, è tutto lì il problema. La risposta di Appadurai è semplice, ma non per questo ingenua: costruire un ambiente in grado di accogliere e coltivare ogni possibile visione di futuro, garantendo a tutti un pieno esercizio del proprio diritto all’immaginazione, e alla speranza. Due forze estremamente potenti, che muovono i viaggi disperati dei migranti, ma anche la loro legittima aspirazione a cambiare, in meglio, la propria vita, e insieme quella del mondo» [4].
Comprendiamo così come diritto di cittadinanza alle seconde generazione è una conditio sine qua non per legittimare, includere, arricchire e alimentare quella pluralità di visioni del futuro che, in primis, e più propriamente, in termini di forza e motivazione (oltre che stretto e concreto interesse), viene da chi il mondo del domani lo dovrà vivere, oltre che cercare di riparare (qualora si potrà in qualche modo), per consegnarlo alle generazioni a venire ancora. Appadurai parla di migrazioni e ne parla utilizzando parole come “speranza” e “diritto all’immaginazione”.
«È evidente che l’immaginazione è una forza potentissima, per chi arriva come per chi accoglie. E bisogna impegnarsi a trovare un modo per darle forma in modo costruttivo, affinché non si risolva, come già sta avvenendo, in sentimenti di odio, paura e rigetto. Ad esempio, non ha senso opporre in modo netto i migranti per ragioni economiche e i rifugiati per motivi umanitari, perché è un falso contrasto. Tutti desiderano migliorare la propria vita. E migliorarla significa più sicurezza, più garanzie, ma anche un futuro migliore, per sé e per i propri figli. L’Europa è stata per secoli una terra di libere migrazioni, sia interne che esterne. Mi pare un po’ ipocrita, ora, volere all’improvviso fermare la musica e mettere tutti a sedere, sperando che chi non ha una sedia semplicemente scompaia. Perché questo non accadrà. È ora di riconoscere che immaginazione e diritti sono di tutti, non solo di pochi, e che occorre mettere in atto una sorta di “politica della generosità» [5].
Dovremmo guardare alle seconde generazioni non come una problematica amministrativa o un’occasione per fare propaganda, ma come una preziosa occasione per “confermare” la tradizione europea non solo nei diritti e nell’accoglienza ma anche e soprattutto nel saper fare della diversità un’arma vincente nel campo delle idee [6]. Ad Appadurai dobbiamo infatti la considerazione che l’immaginazione come forza sociale e le migrazioni [7] si costituiscono medesimamente come campi e strumenti grazie ai quali le comunità, le culture e le civiltà si arricchiscono, si costruiscono e si mantengono in vita [8].
È quest’ultimo in particolare, tra i tanti, il paradosso più ridicolo in cui la retorica nazionalista incorre sempre e cioè “dimenticare” che non esiste una cultura se non in relazione alle altre, e che le culture che si privano delle altre muoiono sempre. Ciò che oggi siamo costretti ad affrontare come vera e unica sfida è, per dirla con le parole di Ghosh, una questione culturale, ha a che fare con i linguaggi e quindi con l’immaginazione [9]. L’Antropocene, la crisi climatica, non sono questioni che riguardano solo le scienze dure, a dispetto di ciò che alcuni (fortunatamente pochi) continuano ancora s voler affermare con omertà e disonestà. Come pensare allora il futuro e il futuro del mondo se non cercando di fare il massimo per garantire massima pluralità di visioni, di sogni e idee attraverso una pluralità di culture se non legittimando l’unità degli intenti sin dall’infanzia, nelle scuole, nelle istituzioni in generale, tutelando l’accoglienza di chi arriva e incentivandone la partecipazione alla vita della comunità, garantendo la possibile ibridazione di ciò che può apparire “diverso” ma che in realtà è solo fonte di nuovi punti di vista?
Attraverso la scuola, sia al sud come al nord Italia, riusciamo a osservare la realtà del nostro Paese in merito a quel diritto alla cittadinanza negato alle seconde generazioni che, a mio parere, dovrebbero subito avere. Non è solo un punto di vista sulla “situazione del paese” ma sul mondo interno e sulle sue narrazioni. Non c’è più tempo per divisioni, separazioni o “fisiologici tempi burocratici”. Lo ius soli sarebbe un segnale di grande importanza in termini di visione e visioni del futuro e del mondo. A guardar bene, la questione dei diritti è ben più ampia di quel che appare e riguarda tutti, al di là delle proprie convinzioni etiche, riguarda l’uomo e l’umanità tutta.
Attenzione però! Decostruire fallaci e nocive retoriche in classe non è mai facile, la posta in gioco è alta e il rischio di sbagliare a propria volta comunicazione è molto elevato. Non bisogna infatti sostituire una retorica con un’altra che a noi pare migliore. Qual è la soluzione? Si può partire dai diritti, o meglio dai diritti e doveri. Durante la pandemia è facile comprendere quanto sia importante avere un sistema sanitario nazionale ed essere cittadini di uno Stato che garantisce, tutela e riconosce secondo la propria Costituzione il diritto alla salute per tutti. Si potrebbe allora insieme discutere, osservare e imparare a riconoscere come funziona il sistema “diritti e doveri” anche solo attraverso questo singolo esempio che ha riguardato tutti noi senza distinzione di etnia, cultura d’origine, orientamento sessuale, provenienza, status sociale, religione ecc. Ciò che conta è abbattere le divisioni e pensarci tutti e tutte come specie, una specie che deve affrontare una sfida inevitabile che ci sta già chiedendo il conto. A questo proposito, diventa di chiara importanza il ruolo delle narrazioni sul mondo e sul futuro che ognuno di noi elabora e costruisce grazie alle relazioni con l’altro. Per questo «bisogna riconoscere che le “visioni di futuro” delle persone sono diverse», afferma Appadurai a tal proposito, e quindi
«la diversità culturale dovrebbe essere riconosciuta come un vero asset. Abbiamo bisogno di idee diverse, così come abbiamo bisogno di linguaggi diversi. È come la biodiversità: non conviene ridurla. Perché nessuno può sapere di cosa avremo bisogno in futuro: se lo elimini oggi, domani non sarà più disponibile. Le immagini del futuro vanno coltivate il più possibile, perché non possiamo mai sapere da dove nascerà una grande idea. Dobbiamo allora creare un ambiente in cui chiunque abbia capacità di sperare e sognare o immaginare un futuro ha diritto di accesso. E poi, certo, devono anche esserci dei forum in cui negoziare le diverse idee di futuro, in modo pacifico, perché per essere effettive hanno bisogno di essere configurate e non possono certo farlo da sole»[10].
Se quindi il futuro è in qualche modo un’invenzione a cui il mondo intero nella sua pluralità di entità, singoli e comunità, contribuisce a pensare, diventa cruciale battersi affinché gli incontri si moltiplichino, gli scambi e le discussioni si approfondiscano così che le voci, le visioni e le idee di tutti possano liberamente concentrarsi nel reimmaginare il mondo del presente per abitare il mondo del domani.
Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021
Note
[1] https://www.repubblica.it/cronaca/2021/05/28/news/appello_vaccinare_gli_invisibili_fragili-303144471/; cfr. anchehttp://www.istitutoeuroarabo.it/DM/pratiche-di-un-inizio-lantropologia-nelle-scuole/; http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/in-visibilita-e-in-influenza-movimenti-umani-e-diritti-fondamentali-nel-contesto-pandemico/.
[2] http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/immigrazione-ripartiamo-dalla-cittadinanza/.
[3] http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/cittadinanze-intorno-ai-diritti-da-estendere/.
[4] Daniela Panosetti 2018, Arjun Appadurai. Diritto all’immaginazione, doppiozero, doppiozero.com (https://www.doppiozero.com/materiali/arjun-appadurai-diritto-allimmaginazione) per l’edizione completa dell’articolo si rimanda a Daniela Panosetti 2018, Arjun Appadurai. Diritto all’immaginazione, in «ICS magazine », n. 1, Pomilio Blumm: 4-14.
[5] Vedi nota precedente.
[6] Continua Appadurai: «il mondo dei significati è un mondo di relazioni: nessun significato esiste da solo e quando un elemento cambia, cambia tutto il resto» (vedi nota IV).
[7] «The imagination is no longer a matter of individual genius, escapism from ordinary life, or just a dimension of esthetics. It is a faculty that informs the daily lives of ordinary people in myriad ways: It allows people to consider migration, resist state violence, seek social redress, and design new forms of civic association and collaboration, often across national boundaries. This view of the role of the imagination as a popular, social, collective fact in the era of globalization recognizes its split character. On the one hand, it is in and through the imagination that modern citizens are disciplined and controlled —by states, markets, and other powerful interests. But is it is also the faculty through which collective patterns of dissent and new designs for collective life emerge» (Appadurai A. 2000, Grassroots Globalization and the Research Imagination, in «Public Culture», Duke University Press: 6)
[8] Vedi anche Appadurai A. 2007 Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Meltemi.
[9] «Inutile negare che la crisi climatica sia anche una crisi della cultura, e pertanto dell’immaginazione (Ghosh A. 2017, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Vicenza, Neri Pozza: 16); cfr. anche Morton O. 2017, Il pianeta nuovo. Come la tecnologia trasformerà il mondo, Milano, Il Saggiatore; Bonneuil C., Fressoz J.B. 2019, La terra, la storia e noi. L’evento antropocene, Milano, Treccani.
[10] Vedi nota 4
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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