di Francesca Maria Corrao
Le premesse
La questione della differenza culturale va studiata in profondità, a partire dalle radici andando in direzione opposta a ciò che si è fatto finora partendo dagli epifenomeni. Abbiamo quindi messo a punto un progetto per costruire una nuova base, che è semantica e sociale insieme, per cercare modalità di convivenza reciproca. Piuttosto che chiederci come rendere accettabili ad altri i nostri (indiscutibili ed indiscussi) valori ed assunti di partenza, cerchiamo di trasferire sul piano del linguaggio il rispetto verso la diversità; e questo richiede l’individuazione di valori condivisi e una loro traduzione che non ne dia per scontato l’assimilazione, la corrispondenza ma tenga conto delle diverse valenze di significato a seconda delle culture.
Questa necessità diventa tanto più urgente perché il grado crescente di interconnessione del mondo in cui viviamo ci impone di risolvere i problemi di convivenza reciproca, sia all’interno di ogni società, sempre più multiculturali e multireligiose, sia a livello globale. Questa constatazione ci pone di fronte all’urgenza di costruire un linguaggio per esprimere valori etici e regole condivise e condivisibili, pur nella consapevolezza delle diverse accezioni e sfumature semantiche degli stessi termini.
Gli intenti
In una visione tradizionalmente considerata universalistica, l’ordine sociale si pone il problema di legittimare lo Stato ed ha un’unica soluzione valida per tutti. Però di fronte a sistemi culturali diversi, come a concezioni dello Stato e della comunità “non occidentali” (ma pensiamo a come differiscono le concezioni dello Stato ad esempio tra Paesi del Sud e del Nord dell’Europa), questa visione rivela i propri limiti e richiede una nuova soluzione. Ci si trova di fronte ad un bivio:
a) imporre l’universalismo di questa visione “tradizionale” e dei diritti e doveri che da essa derivano;
b) prendere in considerazione le altre visioni e confrontarsi con i diritti e i doveri che da queste derivano, per cercare di costruire punti di incontro utili al dialogo e alla condivisione di obiettivi comuni.
Se decidiamo di proseguire seguendo la prima modalità “tradizionale” siamo sicuri di incentivare gli scontri di civiltà su più percorsi:
1) all’esterno tra la “nostra” e la “loro” visione,
2) all’interno di queste ultime tra chi vuole condividere e trovare punti di mediazione con la “nostra” visione e chi si rifiuta tassativamente di accogliere la “nostra”; consideriamo, ad esempio il conflitto in corso in Libia dove siamo coinvolti in una alleanza che è un ossimoro ossia i nostri alleati (Faraj) sono a loro volta alleati degli islamisti più radicali e dei Fratelli Musulmani sostenuti dal Qatar, contro Haftar che, in continuità con l’ordine precedente, è alleato con i suoi garanti in Medio Oriente (Egitto, Arabia Saudita Emirati Arabi Uniti) che, peraltro, sono un po’ più nostri alleati degli altri.
3) Infine all’interno della nostra compagine “occidentale” (già di per sè divisa) tra la “nostra” visione e quella di altri Paesi dell’Unione con cui abbiamo destini visibilmente intrecciati.
Se decidiamo di costruire un percorso di confronto con chi viene da una cultura diversa dalla nostra, allora dobbiamo avviare questo dialogo e questo confronto partendo dall’analisi di alcuni termini linguistici per evitare fraintendimenti. Il linguaggio politico, come la lingua, corrisponde ad una struttura mentale prima che verbale.
Per dare un esempio pratico sulla necessità di intendersi sull’uso dei termini diamo un primo esempio: la legittimità di un assetto sociale dipende dal suo essere coerente con certe caratteristiche degli individui date ex ante; per noi queste caratteristiche corrispondono a valori quali la libertà, l’autonomia, l’eguaglianza, la capacità di autogoverno e così via, che lo Stato deve rispettare. In altre culture la legittimità dipende da altri valori come l’appartenenza alla famiglia del profeta Muhammad (come i re del Marocco e della Giordania) o essere alleati ad una corrente religiosa molto rigorosa (come i Sauditi e i Wahhabiti) e non contempla i nostri (elezioni politiche). Il discrimine non riguarda soltanto il piano socio-culturale, ma anche quelli giuridico e linguistico.
Mi limito ad esporre alcuni casi a titolo di esempio relativamente alla cultura araba, che è a sua volta articolata e complessa, scegliendo come si presenta in alcuni Paesi. Questa esemplificazione, già di per sé riduttiva, esclude altri Paesi islamici, di cultura linguistica e origine diversa, quali ad esempio la Turchia o l’Iran. giusto per citare due Paesi a noi vicini. La facile moltiplicazione degli esempi anche tra i popoli islamici serve a dare un’idea di quanto sia complessa la questione.
Gli esempi, dal generale al particolare
La legittimità del potere politico in Marocco, ma anche in Giordania, è data in gran parte dall’appartenenza del re alla famiglia del profeta. In questi paesi la figura del monarca coincide con il comandante dei credenti, e dalla sua volontà dipendono la libertà e l’eguaglianza dei sudditi, il controllo delle istituzioni. Mentre in Marocco la comunità berbera ha ottenuto il riconoscimento della lingua a pari dignità dell’arabo, in Giordania la comunità dei Palestinesi emigrati non ha gli stessi diritti, a seconda delle ondate migratorie. Gli immigrati in seguito alla guerra del 1967 hanno il passaporto giordano, mentre quelli del 1948 vivono ancora nei campi profughi e non sono cittadini giordani.
La legittimità del potere politico in Tunisia e in Libano è garantita dalla Costituzione e da legittime elezioni. In Tunisia la recente Costituzione garantisce inoltre la libertà di fede, ed anche la scelta dell’ateismo, e l’eguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dal credo, dal genere e dall’origine etnica. In Siria – Stato che prima della guerra civile garantiva la libertà religiosa – si è sempre negato l’accesso alla cittadinanza ai Curdi. In Libano, Stato multireligioso, la libertà dei cittadini e l’eguaglianza si esprimono – per quanto riguarda la rappresentanza parlamentare – attribuendo seggi e cariche istituzionali in modo proporzionale tra le comunità religiose, secondo una quota fissata dal censimento che risale al 1932. Tale divisione è oggi contestata dai musulmani perché, in seguito all’immigrazione dei palestinesi (dopo il settembre nero 1969) e l’invasione siriana (1975), la loro comunità, sommata alle tendenze demografiche, è aumentata di molto rispetto alla quella maronita.
In Arabia Saudita, la maggioranza è sunnita, la minoranza sciita ha limitati diritti, e le altre minoranze non sono presenti in modo ufficiale anche se molto di recente ci sono state importanti aperture. Nel Paese la legittimità del sovrano è data dall’alleanza tra gli integralisti islamici eredi del pensiero di ‘Abd al-Wahhab (18° sec.) ed il clan degli Al-Saud, sebbene non appartenga alla famiglia del profeta, è riconosciuto come protettore dei luoghi sacri dell’Islam [1]. Il monarca è il capo supremo del Paese e anche il protettore dei Luoghi santi; dalla sua volontà dipendono la libertà e l’eguaglianza dei sudditi, il controllo delle istituzioni.
Da quanto esposto risulta evidente che termini quali Stato o Nazione, libertà e autonomia hanno valenze di significato diverse a seconda dei differenti Paesi. Tale complessità spiega la difficoltà e l’importanza di una traduzione che sappia descrivere adeguatamente dinamiche così complesse e delicate e mentalità così diverse. Pertanto, anche se può apparire datato, serve ricordare la figura del triangolo, dove agli estremi della traduzione di un termine che si trova sulla parte apicale non corrispondono gli stessi significati nella lingua di partenza e in quella di arrivo:
albero
shajara (albero) nakhla (palma)
un esempio semplice che riporta i diversi immaginari dell’italiano albero – che già da noi può essere una quercia – in Libano richiama alla mente il cedro, in Giordania l’ulivo e in Arabia una palma.
Da quanto detto emerge che nella traduzione di concetti naturali, come l’albero, e astratti come la libertà, interviene l’esperienza di vita con tutte le varianti espresse dalle diverse valenze di significato date dal contesto culturale. La stessa complessità della lingua riflette la cultura dei parlanti e quindi non sempre ci si può limitare ad un linguaggio semplice, quotidiano e semplificato come quello giornalistico. A questo proposito serve ricordare che per gli arabi la poesia è lo specchio delle conoscenze, delle credenze e delle tradizioni sin dall’epoca preislamica, e pertanto era ed è una fonte culturale del massimo valore. Le poesie costituiscono una miniera di dati per lo studio del pensiero, sia perché narrano ai contemporanei, e non ai posteri, sia perché attraverso la metafora è possibile esprimere ciò che il “vero” documento storico censura. Non dovrebbe stupire apprendere che anche ISIS usa la poesia per la sua “propaganda” interna. La più celebrata poetessa è siriana e si chiama Amal al-Nasr (ossia la speranza della vittoria), ed era sposata (pare sia già vedova) ad un eroico combattente, uno spietato “serial killer”.
Questa lunga digressione è utile per capire la complessità del contesto, si torna al tema più generale dell’incontro/confronto tra diversi per incoraggiare chi resta disorientato dinanzi al moltiplicarsi dei significati.
L’uso e l’abuso della grammatica dall’astratta teoria alla propaganda politica
Prendiamo ad esempio la grammatica, uguale per tutti gli arabi, per capire come nella sua stessa impostazione si evidenziano differenze importanti. Si tratta della grammatica della lingua prescelta da dio per rivelare il Corano, l’ultima profezia; pertanto è difficile cambiarne gli aspetti fondanti anche se la prassi ha portato i grammatici a modificare almeno le modalità della didattica e la televisione ha operato quelle radicali riforme che i linguisti non avrebbero mai osato fare.
In pratica per quanto sacra sia la lingua, così come l’inglese nei secoli ha perduto l’uso delle declinazioni, da molto tempo anche l’arabo nella prassi quotidiana ha perduto l’uso dei casi e ha semplificato la complessa struttura dell’accordo tra le cose numerate e i numeri. Restano tuttavia importanti elementi di diversità; ad esempio il termine che indica il sole da noi è maschile (in inglese è neutro), ma in arabo è femminile mentre la luna, al contrario, è maschile.
La questione più delicata riguarda due aspetti, uno è quello della concezione misogina della terminologia grammaticale. Già negli anni ’50 la poetessa irachena Nazika al-Mala’ika, docente di lingua e letteratura araba nonché tra i fondatori dell’Università di Bassora, in un articolo denunciava il pregiudizio misogino della mentalità patriarcale araba. Mala’ika precisava che il pensiero arabo è tale sin dall’epoca preislamica (e pertanto il discorso vale sia per i cristiani che i musulmani). Per dimostrarlo riportava alcuni esempi della grammatica tra cui l’accordo dell’aggettivo femminile singolare per qualificare il plurale di animali ed oggetti insenzienti, ossia “i cani buona” per dire i cani buoni. Oppure per un gruppo di verbi “ausiliari” e “deboli” si usa la definizione “le sorelle di Kāna” (ossia del verbo ausiliare essere) [2].
Per collegare una riflessione astratta all’attualità, ricordo che nel 2012 in Tunisia le donne delle associazioni femminili occuparono la piazza del Parlamento per mesi, proprio per contestare l’innovazione nella Costituzione voluta dal partito religioso al-Nahda che attribuiva un ruolo di “complementarità” alla donna. Un termine semplice e comprensibile, sia per grammatica che per contenuti, a quella parte della popolazione decisa a cancellare i diritti a favore delle donne introdotti da Bourguiba nella Costituzione (1959).
A questo esempio di misoginia linguistica se ne potrebbero aggiungere molti altri, ma non è necessario, dobbiamo capire e accettare che la traduzione spesso forza il significato originale, e non sempre tale mutamento è indolore o per lo meno non passa inosservato. Si pensi ai cambiamenti lessicali introdotti a seguito della colonizzazione militare e culturale del Nord Africa e del Medio Oriente, quali ad esempio elezioni, parlamento, laicità ecc.. Proviamo ad immaginare oggi l’accettazione o il rifiuto di concetti e principi occidentali per gli immigrati di nuova generazione, e il conseguente impatto sulle nostre società, ad esempio il divieto delle mutilazioni genitali, l’uguaglianza nel divorzio per uomo e donna, l’equa distribuzione dell’eredità tra figli maschi e femmine. Quando si tratta di introdurre terminologie relative alle innovazioni tecnologiche non ci sono problemi, ma quando si tocca la cultura emergono equivoci e conflitti. Per essere chiari basta ricordare la leggerezza con cui il governo britannico ha accolto i tribunali shara’itici, che applicano il codice di famiglia del Paese di provenienza in Inghilterra. Questi hanno favorito il consolidarsi di ghetti di fondamentalismo dove le donne hanno subìto il perpetrarsi di antiche discriminazioni e ingiustizie.
La storia, attraverso i secoli, ci dimostra che una normale conseguenza degli incontri tra culture diverse è in parte l’assimilazione di usi e costumi, con la semplificazione e in parte la trasformazione di alcuni comportamenti sociali, linguistici e istituzionali. Le scoperte scientifiche portate dalla comunità islamica nella Sicilia e nell’Andalusia medievale sono state per l’Occidente di grande importanza; altrettanto influenti e decisive sono state le importazioni culturali e di tecnologie dall’Occidente nell’Impero ottomano e negli Stati mandatari nel corso dei due secoli scorsi.
Per spiegare quanto accade sul piano linguistico riporto l’esempio di alcuni studiosi della lingua inglese medievale che hanno dimostrato in che modo l’uso del neutro ha prevalso sull’uso del maschile e del femminile. Ciò è avvenuto quando il ceppo linguistico sassone ha incontrato quello normanno; la semplificazione sarebbe avvenuta quando i parlanti di una lingua nell’incontro con l’altro gruppo non capendo le complesse strutture della concordanza le hanno modificate [3].
Ciò detto proviamo ad immaginare l’incomprensione tra comunità abitanti nello stesso territorio, ma con una formazione culturale diversa. Riporto due esempi: nella maggior parte dei Paesi arabi, i giovani delle élite frequentano le scuole straniere dove prevale un’educazione rispettosa delle diverse fedi religiose – dall’antica Università dei gesuiti Saint Joseph in Libano a quelle americane di Beirut, del Cairo e di Sharja. In questi stessi Paesi si trovano anche istituti religiosi privati dove insegnano docenti formatisi nelle Università islamiche, come quella di Medina. Un gran numero di studenti però non completano gli studi e spesso frequentano solo le scuole religiose primarie; queste sono più numerose ed economiche, se non addirittura gratuite, perché sovente sono finanziate da Fondazioni caritatevoli religiose (nei Paesi musulmani l’elemosina per aiutare i poveri è obbligatoria). Infine, a seguito del perdurare dello stato di guerra nella regione mediorientale, vi sono Paesi che non riescono a garantire ovunque la scolarizzazione (si pensi ad ampie aree della Siria, della Libia e dello Yemen). Nei campi profughi in Turchia, Libano e Giordania, a fianco delle scuole elementari sostenute dalle istituzioni internazionali, si trovano scuole dove prevale l’insegnamento religioso; si viene così a creare una pluralità nel campo della formazione che, se da un lato è un bene perché fornisce una educazione di base ai molti, dall’altro può creare diversi livelli di formazione e, in mancanza di una struttura nazionale di riferimento, una visione transnazionale della fede.
Ci si trova dunque di fronte ad una molteplicità di linguaggi che non facilmente comunicano e poco si comprendono: il colonialismo ha creato una distanza culturale tra l’élite occidentalizzata e la maggioranza di studenti la cui formazione è più fortemente radicata nei principi religiosi. Tale differenza culturale persiste anche all’interno delle comunità emigrate. In Europa i Paesi hanno politiche di accoglienza diverse: in alcune aree le politiche di inserimento formano studenti scolarizzati e integrati, si veda ad esempio in Germania; in altre realtà prevalgono invece forme politiche meno inclusive e gli studenti finiscono per essere emarginati o addirittura ghettizzati. Quanto detto esemplifica una situazione complessa ed articolata, tuttavia, da quanto brevemente delineato si evince che la disparità di trattamento peggiora le condizioni dei meno fortunati.
L’indebolimento nella formazione scolastica incide in modo determinante sull’impoverimento economico delle nazioni, sia nelle zone di guerra che nelle aree emarginate delle società più progredite. Nei contesti di crisi economica è più facile che i giovani rispondano all’appello di chi offre una prospettiva di vita migliore grazie ad una fede “pura” e alla militanza in un gruppo che assicura solidarietà e sostegno economico.
Inoltre in Occidente, ma anche negli Stati arabi più progrediti, l’impoverimento nella formazione scolastica – causa e conseguenza della crisi economica – produce un generale clima di sfiducia ed una crescente incapacità di analisi critica. Si diffonde così l’idea che la crisi sia da attribuire al nemico che viene dall’esterno (l’imperialismo che colpisce i palestinesi, l’Iran che minaccia i sunniti, gli immigranti che minacciano l’Ungheria) e questo fa insorgere diffidenza nei confronti dell’altro, conseguente razzismo e porta alla giustificazione della deriva violenta.
La propaganda discriminatoria è fatta da slogan, e questi aiutano a orientarsi e a mobilitarsi, come in modo quasi speculare, fanno i “radicali islamici” quando citano alcuni versetti coranici, o detti del profeta espungendoli dal contesto di riferimento. Sovente nel linguaggio usato dai predicatori radicali brevi passaggi estrapolati dal Corano vengono adattati a contesti lontani dallo spirito originale del testo. Ad esempio attributi come “traditore” e “ipocrita” fa riferimento al tradimento di alcune tribù ebraiche di Medina che erano venute meno al patto stipulato con il profeta. Quell’episodio è paragonato all’inganno degli Inglesi nei confronti dei leader delle rivolte arabe anti-ottomane, a cui avevano promesso l’indipendenza mentre firmavano gli accordi di Sykes Picot (1916) e la dichiarazione di Balfour (1917) che avrebbero portato ai regimi mandatari nella regione e alla nascita dello Stato di Israele nel territorio della Palestina.
L’insegnamento del passato nel pensiero di oggi
La lingua madre influenza il pensiero, e il pensiero genera una struttura mentale; per la lingua araba una tale evidenza era già stata messa in rilievo da Ibn Taimiyya (XIV sec.), l’esperto di legge islamica medievale che è ritenuto il “padre” del pensiero fondamentalista moderno. In uno studio sulla misoginia della lingua araba la studiosa Fadwa Multi-Douglas [4] dimostra come gran parte della narrativa araba ufficiale è caratterizzata da una visione che emargina la donna. Il pericolo del pensiero femminile, insito nella sua diversità, è segregato nella cultura mediterranea alla sfera familiare.
Vi è un’interessante differenza nella modalità in cui si manifesta nelle due opposte sponde; nella sponda nord il patriarcato si caratterizza e si sviluppa nell’ambito di una cultura individualista, per cui le forme di emarginazione portano all’isolamento. Nella sponda meridionale, invece l’esclusione riguarda le sfere del pubblico; alla donna si accorda il primato nel privato, e all’uomo nel pubblico.
La donna per tradizione non ha gli strumenti per ribellarsi\rinunciare ad una secolare forma di soggezione al potere maschile, e la sua espressione più alta consiste nella trasmissione del sapere. Le ninne nanne ripetono in modo ossessivo termini e valori che il bambino interiorizza; successivamente il ritmo della narrazione poetica riprende e ripropone gli elementi identitari, ma quando l’identità si evolve l’estraniamento crea incertezza e disagio.
Conservare la tradizione e rafforzare l’elemento etico religioso erano tra i cardini della dottrina di Ibn Taimiyya (XIV sec.); ancora oggi sovente le trasmissioni televisive religiose sono affidate a shaykh molto conservatori; l’obiettivo è di penetrare nelle famiglie per indottrinare le madri, per convincerle dell’importanza e della bellezza del loro ruolo, e la poesia tradizionale è lo strumento per veicolare questi valori. Non è un caso che tra i programmi più seguiti delle trasmissioni via satellite (al-Jazeera e al-‘Arabiyya) vi sia quello dello shaykh al-Qaradawi [5], ed il premio alla poesia che si intitola “milion poetry”, con un dono milionario alla migliore poesia tradizionale sia per forma e contenuti.
Per concludere, il grande intellettuale egiziano Qasim Amin (XX sec.), autore di un primo studio a favore della libertà della donna, sosteneva che il Paese non avrebbe potuto emanciparsi se le madri fossero rimaste ignoranti. Mantenerle ignoranti dei loro diritti nell’accezione “occidentale” del termine è l’obiettivo dei jihadisti, e questo è un pericoloso strumento voluto perché garantisce il perpetrarsi del loro pensiero. Quando pensiamo che il problema sia il velo, ci smarriamo in una visione “superficiale” e “patriarcale”, che ci fa perdere di vista la più ampia portata della soggezione che si tramanda con la struttura del pensiero e con l’educazione chiusa all’interno della comunità.
La ricerca attenta e adeguata delle parole è necessaria per stabilire quell’uguaglianza di genere che assicura il riconoscimento di pari dignità e diritti alle donne di entrambe le sponde. Parità senza la quale non si può seriamente parlare né di libertà né di uguaglianza e tanto meno di democrazia a partire dall’educazione. Questo è un problema cruciale all’ordine del giorno, riguarda in modo trasversale tutte le società ed è necessario affrontarlo se si vuole costruire un nuovo umanesimo basato sul rispetto della dignità della persona nella molteplicità delle esperienze di vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] Campanini M., Ideologia e politica nell’Islam, Il Mulino, Bologna, 2012.
[2] Corrao F.M., Le parole e la guerra, con traduzioni di F. M. Corrao, M. Masullo G. Gervasio, Università di Napoli, L’Orientale press 2009.
[3] Curzon A., Gender shift in the history of English, Cambridge University Press, 2003.
[4] Malti Douglas F., Power, Marginality and the Body in Medieval Islam, Routledge London 2001.
[5] Massimo Campanini, Storia del pensiero politico islamico. Dal profeta Maometto ad oggi, Le Monnier Università, Firenze, 2017.
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Francesca Maria Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011). Assieme a Luciano Violante ha recentemente curato il volume edito per i tipi de Il Mulino L’Islam non è terrorismo.
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