Già negli anni Cinquanta del secolo scorso, Alberto Savinio in giro per la “sua” Sicilia (già, “sua”, perché il padre Evaristo De Chirico era originario di Palermo), rimane deluso dall’opera dei pupi che, a suo vedere, immiserita dagli stereotipi, aveva perso la carica originaria: «Il teatro dei Pupi si è aggiornato. In verità è degenerato nel Fortunello, in figure del varietà. Inevitabile. Le battute che attraverso la tela pronuncia il puparo, sono infantili ma serie non più. Burlesche fin nei combattimenti più aspri. Inevitabile anche questo».
Passati i decenni, l’opera dei pupi ha conosciuto un progressivo declino concomitante con i processi di omologazione culturale e di sradicamento delle identità popolari verificatisi con il dilagare del consumismo e della mercificazione delle civiltà “industriali”.
Al di là della crisi che la cultura popolare attraversa per motivi storici, antropologici e sociologici (la stessa crisi che grava da tempo sulla civiltà rurale), ogni espressione artistica legata alla tradizione è destinata al crepuscolo, se non all’oblio, quando non riesce ad adattarsi ai tempi. Naturalmente ciò vale anche per l’opera dei pupi che rischia di essere confinata in un folklorismo di maniera se continua a far perno sui paladini del ciclo carolingio. Affinché l’opera continui a vivere e a rappresentare il gusto della teatralità che si custodisce nell’anima profonda dei siciliani, occorre che i suoi attori cambino e che non costituiscano un corpo estraneo all’attuale contesto sociale siciliano.
L’ha capito Mimmo Cuticchio negli anni ’70 e l’ha compreso qualche decennio dopo un puparo d’eccezione, Angelo Sicilia, che da anni dà vita a Palermo, la città in cui è nato e vive, a una singolare opera dei pupi che ha come protagonisti i paladini dell’antimafia.
Abbiamo incontrato Angelo Sicilia e ci siamo intrattenuti in una conversazione su l’arte dei pupari, le sue evoluzioni, i pupi, il suo teatro dell’antimafia.
L’arte dei pupi non s’improvvisa e spesso si tramanda da generazione a generazione all’interno di uno stesso nucleo familiare, tu come e quando l’hai appresa?
«Ho appreso l’arte dei pupi secondo un percorso di conoscenza graduale a partire dalla prima metà degli anni ’90. In quel periodo frequentavo il Museo internazionale delle marionette di Palermo fondato da Antonio Pasqualino vent’anni prima. Sotto i suoi auspici prima e sotto la guida della moglie Janne Vibaek poi, mi occupai di un progetto di ricerca sull’opera dei pupi nella Sicilia occidentale. Ebbi modo di conoscere così e seguire le ultime compagnie rimaste attive nel palermitano, nel trapanese e nell’agrigentino. Assistendo ad un declino inesorabile di molte compagnie a causa della mancanza di un ricambio generazionale avvertii l’esigenza di scendere in campo con una nuova compagnia sperimentale, composta da giovani non appartenenti a famiglie tradizionali e seguii alcuni dei grandi maestri pupari del ‘900 come Rocco Lo Bianco a Palermo e Agostino Profeta a Licata, che mi insegnarono l’arte dei pupi e i trucchi del mestiere».
Quando hai deciso di fare diventare pupi Falcone, Borsellino e gli altri grandi protagonisti del contrasto a Cosa nostra?
«Questo proposito c’era fin dall’inizio: noi eravamo, infatti, una compagnia totalmente esterna a quelle pochissime superstiti del dopoguerra e quindi pronti a fare la nostra piccola rivoluzione per adattare allo spirito del tempo il repertorio dell’opera dei pupi. L’approdo a temi sociali e di impegno civile e antimafia fu dunque spontaneo, poiché noi eravamo la generazione cresciuta a Palermo negli anni ’80 e nel periodo delle stragi del ’92. Eravamo militanti antimafia, così risultò naturale spogliare i nostri pupi dalle antiche armature e vestirli come noi per poter raccontare le storie dei martiri dell’antimafia come i giudici Falcone e Borsellino, Padre Pino Puglisi, Peppino Impastato e tanti altri».
Come sono stati accolti i tuoi primi spettacoli?
«I primi spettacoli furono accolti con grande sorpresa, poiché per la prima volta veniva utilizzata la grande forza comunicativa dei pupi, il loro linguaggio essenziale e diretto, per diffondere le storie migliori della contemporaneità siciliana. Storie di cui noi andiamo fieri e che hanno segnato la nostra scelta di divenire una compagnia militante e innovativa. Ricordo il primo spettacolo dei pupi antimafia effettuato a Cinisi nel maggio del 2002 con la piazza gremita di partecipanti al Forum Sociale Antimafia e le attestazioni di stima ricevute da tutti».
A chi è rivolto il teatro dei pupi antimafia?
«I pupi antimafia nacquero anche per una scelta ben precisa di rivolgersi ad un nuovo pubblico che accogliesse il messaggio di legalità e di resistenza dei nostri pupi. È per questo che per i primi dieci anni di attività la nostra compagnia ha operato quasi esclusivamente con il pubblico di giovani e giovanissimi delle scuole e delle università, proprio perché si trattava di generazioni che perlopiù erano nate dopo le stragi del ’92 e di fatto non conoscevano le tensioni e l’impegno che vivemmo invece noi in prima linea. Successivamente la compagnia decise di occuparsi anche di spettacoli per un pubblico di adulti poiché pensavamo che anche nei più grandi si stavano smarrendo la memoria di quegli anni e il messaggio di uomini come Pio La Torre, Rosario Livatino, Rocco Chinnici e delle altre vittime di mafia».
I tuoi spettacoli sono stati rappresentati anche fuori dalla Sicilia, nel “continente” o anche fuori l’Italia? Se sì, come sono stati accolti?
«I nostri spettacoli negli ultimi anni sono stati rappresentati più fuori dalla Sicilia che nell’Isola, questo perché abbiamo notato un grande interesse per la storia e la cultura siciliana come storia nazionale. Per il ventennale della strage di Capaci a Vicenza degli studenti liceali ci ringraziarono per il messaggio unitario e condiviso di Giovanni Falcone e questa è stata per noi una grande soddisfazione. I pupi antimafia hanno comunque girato l’Europa: dalla Svizzera alla Germania, alla Russia».
Quanto è stato difficile trasformare in marionette gli attori dell’antimafia? Non è assai più facile farlo con i mafiosi che sono dei “pupi” viventi?
«È stato naturale trattare personaggi come i martiri della mafia come novelli paladini. Il messaggio è stato integralmente recepito dal pubblico in ogni luogo in cui siamo stati. Quando parlano Giovanni Falcone o Paolo Borsellino o Don Puglisi i teatri e gli auditorium scolastici restano in un religioso silenzio mostrando una partecipazione commossa. I personaggi negativi, i mafiosi, rappresentano una necessaria presenza, colorita e perché no urtante, nella narrazione. Anche nel loro caso il pubblico ascolta con grande attenzione, spesso disapprovandone l’azione come nel caso degli studenti più piccoli e coinvolti emotivamente. Insomma diventa un’opera dei pupi interattiva».
Quanto e che cosa rimane della tradizione nei tuoi spettacoli?
«I nostri spettacoli sono interamente fedeli alla tradizione, sennò avremmo creato un tipo diverso di marionetta o di rappresentazione. A noi interessava rinnovare l’antica arte dei pupi adeguandola ai tempi e trovare un nuovo pubblico di giovani capace di riconoscersi in Peppino Impastato, in Giovanni Falcone, in Don Puglisi, così come i loro nonni si immedesimavano in Orlando, Rinaldo e Astolfo. Tutto il nostro teatro è costruito secondo la tradizione: i pupi, gli scenari, le tele, la messa in scena. Anche la manovra è fedele a quella tradizionale e la recita come da tradizione è affidata ad un’unica voce, quella del capocomico. Le uniche modifiche riguardano il repertorio antimafia, mai trattato prima dalle compagnie dell’opera dei pupi siciliani, e le voci femminili, che vengono recitate da attrici».
Spazio quindi, per rinnovare l’arte dei pupi, alle nuove generazioni che strizzano l’occhio a destinatari diversi da quelli tradizionali, a un pubblico giovane e a un pubblico internazionale che nella Sicilia vuole scoprire non la solita immagine da cartolina ma una terra che, nella sofferenza per mali atavici, tenta il riscatto aggrappandosi ai valori della legalità e di una cultura popolare capace d’imporsi oltre i propri confini: una cultura in cui affondano le nostre radici e che non morirà mai fino a quando ci sarà chi saprà alimentarne e rinnovarne la linfa vitale.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia, col quotidiano on-line BlogSicilia.
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