di Francesco Della Puppa
Ricollegandosi a quanto presentato nel precedente numero della rivista, in questo contributo verrà proposta una periodizzazione della diaspora bangladese in Europa e un’analisi delle sue caratteristiche. L’evoluzione di tale fenomeno è stato fortemente segnato dall’esperienza coloniale britannica che ha portato allo sviluppo di intensi e continui scambi di natura economica, commerciale e culturale tra la periferia e il centro; un sistema di relazioni a cui ha contribuito il British Nationality Act che, nel 1948, ha decretato la possibilità di acquisizione della cittadinanza britannica per i membri del Commonwealth (Dale, 2008; Peach, 1996). È venuto, così, a crearsi un legame privilegiato che ha alimentato i movimenti migratori dal Bangladesh e che continua a orientarli nella contemporaneità.
Per comprendere appieno l’andamento della diaspora, le sue modalità di riproduzione e i percorsi di mobilità migratoria adottati, è necessario inserirla nel quadro dei mutamenti politici e delle trasformazioni economiche che hanno preso forma internamente al Paese. Il turbolento panorama politico che ha caratterizzato i primi decenni di vita del Bangladesh indipendente, oltre ad aver contribuito a un lungo periodo di stagnazione economica – frustrando, così, le aspirazioni di mobilità ascendente dei ceti medi urbani e impoverendo gli appartenenti agli strati più svantaggiati delle aree rurali – ha portato a una continua ridefinizione delle alleanze internazionali e delle relazioni diplomatiche del Paese, in primis quelle con i membri dell’ex blocco sovietico che storicamente hanno ricoperto un’importanza fondamentale nel favorire o nell’ostacolare l’apertura di nuovi canali di accesso all’Europa. Tali cambiamenti vanno messi in relazione con quelli in atto nei Paesi di immigrazione europei e in particolar modo la Gran Bretagna, principale destinazione della diaspora in Europa. Se fino alla fine degli anni ‘60 l’immigrazione dalle ex-colonie significava l’allargamento di un bacino di manodopera a basso costo, indispensabile per il risanamento e il rilancio dell’apparato industriale britannico seriamente compromesso dai due conflitti mondiali, con gli anni ‘70 si apre, invece, una nuova fase caratterizzata da misure restrittive nei confronti dell’immigrazione.
Sono gli anni del primo shock petrolifero e dell’esaurirsi del ciclo di sviluppo economico post-bellico che ha trainato per un trentennio il tasso medio di crescita dei Paesi dell’Ocse: per far fronte alla crisi i maggiori Paesi di immigrazione hanno fatto ricorso a politiche restrittive che hanno praticamente chiuso le frontiere all’immigrazione per lavoro [1] (Castles e Miller, 2003; Basso e Perocco, 2003; Gambino, 2003; Massey, 2002; Massey et alii, 1993; 1998). Sono anche gli anni in cui alcuni Paesi europei emergono come nuove destinazioni dell’immigrazione bangladese, primi fra tutti l’Italia e la Spagna (Della Puppa, 2014; Knights, 1996; 1998; Priori, 2012; Zeitlyn, 2006; 2007).
In termini quantitativi le migrazioni bangladesi dirette in Europa rappresentano solo una componente marginale di tutta la diaspora dal delta (Priori, 2012; Van Schendel, 2009) che, dagli anni ‘80 in poi, si orienta soprattutto verso l’area del Golfo Persico (Abrar, 2008; Abrar and Malik, 2002; Abrar and Seeley, 2009; Adams, 1987; Siddiqui, 1998; 2003; Kibria, 2011; Van Schendel, 2009). Mentre la componente diasporica diretta nell’Europa mediterranea era originariamente composta da giovani celibi di estrazione medio-alta che aspiravano a compiere un’eventuale ulteriore migrazione oltremanica, i migranti diretti in Medio Oriente si configuravano come gastarbeiter provenienti dalle classi medio-basse della società di origine per i quali l’accesso all’Unione Europea si sarebbe tradotto in un miglioramento delle condizioni lavorative e in un ampliamento delle possibilità di realizzazione economico-sociale e familiare. Nel momento attuale, però, le rigidità della stratificazione di quella che, fino ai primi anni 2000, si delinea come una diaspora socialmente gerarchizzata e geograficamente differenziata, sembrerebbero attenuarsi per effetto di una molteplicità di fattori: dall’ampliamento della partecipazione all’esperienza migratoria (che oggi più di ieri coinvolge anche i settori meno privilegiati della società di origine) alle maggiori possibilità di mobilità entro i confini dell’Unione Europea, dal consolidamento delle comunità diasporiche in Italia e Spagna (che fungono ora da centri di riferimento per generazioni di nuovi migranti) agli effetti della crisi internazionale in atto che impongono una ridefinizione delle traiettorie biografiche e migratorie ai bangladesi della diaspora.
I pionieri della diaspora
In Bangladesh gli emigrati sono chiamati londoni o probashi. Il primo termine deriva da una delle prime grandi destinazioni nella storia delle migrazioni dal Bangladesh: Londra e, per estensione, l’intera Gran Bretagna [2]. Il secondo significa “abitanti esterni” o “chi è andato fuori” ed è sostituito di frequente col termine bideshi derivante da bidesh (“la terra straniera”, l’estero) e contrapposto al Bangladesh (“terra dove si parla il bangla”) che costituisce lo shodesh (“la terra natia”, “la madrepatria”) o semplicemente il desh (“il Paese”) (Gardner, 1995; Kibria, 2011).
I movimenti migratori dall’area dell’odierno Bangladesh hanno origine sin dal XVII secolo, momento in cui un numero elevato di soggetti emigrarono verso l’Inghilterra. Già dal 1600, infatti, la Compagnia delle Indie decise di importare manodopera a basso costo per i lavori più umili sulle sue imbarcazioni in qualità di laskar [3]. Il profilo dei migranti bengalesi era allora di uomini, soprattutto celibi, originari delle province orientali del Bangladesh, dalle zone marittime di Chittagong, Noakhali e, soprattutto, da quella continentale del Sylhet.
Nel corso del XIX e del XX secolo i lascari iniziano ad abbandonare le “fabbriche galleggianti” per trovare occupazione sul territorio britannico. Le destinazioni dei primi immigrati furono principalmente i porti di Londra, il quartiere Tower Hamlets, situato a est della capitale britannica, ma anche i vecchi centri industriali della metropoli coloniale.
Questa costituisce la prima delle fasi della migrazione bangladese generalmente individuata in letteratura e chiamata “dei pionieri” (Kibria, 2011). Si tratta di uno stadio dalla lunga durata (fino al decennio compreso tra il 1950 e il 1960) ma che, complessivamente, ha visto coinvolto un numero ancora limitato di migranti. Esclusivamente uomini, generalmente non sposati, essi riuscivano, grazie all’adesione al Commonwealth. [4] a lavorare e vivere in Gran Bretagna senza grandi problemi di ordine burocratico o limitazioni di tempo, su incoraggiamento delle autorità britanniche che cercavano, così, di sopperire alla mancanza di forza-lavoro successiva alla Seconda Guerra Mondiale (Adams, 1987; Chowdhuri, 1993). Erano uomini “transnazionali” per eccellenza: lavoravano e vivevano in Gran Bretagna, ma tornavano a casa il più spesso possibile, dove erano ancora strettamente coinvolti in reti sociali di parentela e di villaggio (Gardner, 2010).
Dai primomigranti transnazionali alla familiarizzazione della migra- zione
Una seconda fase si apre a partire dal 1962, quando in Inghilterra venne promossa una serie di politiche restrittive volte a stabilizzare le quote degli immigrati: in linea con i cambiamenti delle politiche migratorie europee (Ambrosini, 2005; Castles and Miller, 2003; Basso e Perocco, 2003), il sistema del labour voucher (documento di lavoro), prima, e l’Immigration Act del 1971, resero sempre più difficile partire senza essere già inseriti all’interno della rete migratoria. Secondo questo sistema, un immigrato poteva entrare nel mercato del lavoro unicamente attraverso i permessi di lavoro rilasciati dal Ministero dell’Interno [5] ed era necessario avere degli intermediari ovvero parenti e amici già residenti all’estero oppure dalal, un termine bangla che designa dei veri e propri broker della migrazione che conoscono i percorsi burocratici da seguire per entrare nel mercato del lavoro e possono fornire le corrette indicazioni di come e dove stare una volta arrivati a destinazione (Abrar and Seeley, 2009; Ambrosini, 2008; Bruyn and Kuddus, 2005; Zeitlyn, 2006).
Ancora oggi le esperienze migratorie di gran parte dei primomigranti bangladesi diretti in Europa e in Italia hanno avuto avvio attraverso l’intermediazione di un “broker della migrazione”. Il dalal è solitamente un immigrato da tempo radicato nel contesto o un emigrato di ritorno. Inserito in una catena che unisce il Paese di destinazione con quello di origine, egli è in possesso delle informazioni, dei contatti istituzionali e delle conoscenze informali per avviare con successo nuovi percorsi migratori e può svolgere la sua intermediazione per conto proprio, lavorare per agenzie governative o sub-agenzie non governative (utilizzate da circa il 60% dei migranti diretti verso il Golfo Persico) impegnate nel reclutamento di forza-lavoro o far parte di organizzazioni che si muovono al di fuori dei circuiti ufficiali. La mediazione di un dalal – spesso appartenente alla cerchia familiare estesa del migrante – può permettere il reclutamento di nuova manodopera da parte dell’azienda presso la quale egli stesso è occupato; per tale servizio il dalal chiede un compenso economico corrispettivo all’incirca a uno stipendio annuale del connazionale. Da un lato, questa può essere letta come una speculazione, agita in forza della condizione di vulnerabilità di un connazionale neo-arrivato, dall’altro lato, rappresenta l’unica possibilità per emigrare di molti potenziali migranti: in questo modo essi possono, infatti, dilazionare nell’arco di qualche anno il pagamento del debito contratto per il viaggio, attraverso il prelievo mensile di una piccola quota del salario percepito nel Paese di immigrazione, e non devono anticipare nulla alla partenza dal Paese di origine.
Di fronte all’innalzamento delle barriere, coloro che erano già nel territorio inglese optarono per la via della “naturalizzazione” (l’ottenimento della cittadinanza britannica) e della sedentarizzazione attraverso il ricongiungimento con la moglie e i figli rimasti in patria. Dagli anni ‘70 ai primi anni ‘90, quindi, la maggior parte degli ingressi “regolari” fu costituita dalle mogli e dai figli dei lavoratori già residenti. Oggi la popolazione di origine bangladese residente in Gran Bretagna è una delle più giovani e in più rapida crescita anche in conseguenza ai numerosi ricongiungimenti familiari (Gardner, 2010) [6].
Alla trasformazione dei movimenti migratori bangladesi in Gran Bretagna – da brevi e per motivi di lavoro a più lunghi e tendenti al radicamento – seguì, a partire dagli anni ‘80, lo sviluppo dell’attività imprenditoriale bangladese [7], soprattutto nei settori dell’ abbigliamento, del commercio e della ristorazione. Nuovi legami con il desh venivano stabiliti attraverso i matrimoni transnazionali: le nozze con un residente sul suolo britannico, infatti, erano una delle modalità più agevoli per fare ingresso nell’“ex” capitale dell’impero (Charsley, 2005; Dale, 2008; Kibria, 2011). Se, negli anni ‘70 e ‘80, erano soprattutto le mogli a essere ricongiunte nel Paese di immigrazione, oggi quasi lo stesso numero di uomini fa richiesta di permesso di soggiorno al fine di riunirsi alla moglie, di seconda, terza e quarta generazione, presente in Londoni e sposata in seguito a un matrimonio combinato transnazionale [8]. Una tendenza consolidata per i Paesi di più antica immigrazione (Schmidt, 2007) che sta emergendo anche per le destinazioni più recenti come l’Italia (Della Puppa, 2014).
La stratificazione della diaspora
Dagli anni ‘70, contemporaneamente alle politiche di chiusura della Gran Bretagna e dei Paesi di immigrazione europei, si sono aperte nuove destinazioni migratorie: i Paesi del Medio Oriente le cui economie stavano vivendo una forte espansione e necessitavano di forza-lavoro a basso costo. Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, Iraq, Libia e alcuni Stati di recente industrializzazione del Sud-Est asiatico, come Malesia e Singapore, videro l’emigrazione di milioni di lavoratori tra gli anni ‘70 e la fine degli anni 2000. Si trattava di movimenti che, oltre a interessare altri distretti del Bangladesh (e non più solamente lo Sylhet) come Chittagong, Noakhali, Comilla e Dhaka, erano di breve durata e basati su contratti di lavoro letteralmente acquistati in Bangladesh prima della partenza per svolgere specifici lavori in terra d’emigrazione, specie di bassa qualifica [9] e relegati in settori professionali di scarso profilo e riconoscimento sociale (Abrar, 2000; 2008; Abrar and Malik, 2002; Mannan, 2001; Priori, 2012; Siddiqui, 1998; 2002; 2004; 2006; Siddiqui et alii, 2005; Del Franco, 2010) [10].
Il sistema dei “contratti di lavoro” in vigore nei Paesi dell’area del Golfo Persico è sensibilmente differente rispetto al sistema dei voucher vigente in Gran Bretagna: se in Inghilterra coloro che decidevano di affrontare il percorso migratorio potevano trovare un’opportunità lavorativa nel territorio britannico, i Paesi dell’area mediorientale richiedono che i potenziali immigrati acquistino prima della partenza un posto di lavoro il cui contratto può essere stipulato col governo o con compagnie private del Paese di destinazione. Nella migrazione verso questi Paesi i visti di ingresso sono strettamente legati allo specifico contratto di lavoro ed è direttamente l’impresa reclutatrice a gestire il visto del lavoratore. Essa requisisce il passaporto al lavoratore che rimane, così, alla mercè dell’impresa ed è sottoposto a condizioni lavorative, abitative e sociali paraschiavili (Longhi, 2012). Nel caso in cui il rapporto lavorativo cessi per qualsiasi motivo, l’immigrato perde la possibilità di risiedere entro il territorio del Paese “ospitante” (Siddiqui, 2002; Siddiqui et alii, 2005).
Il costo proibitivo dei contratti e dei documenti necessari al viaggio e all’ingresso nei Paesi del Medio Oriente, tuttavia, ha di fatto limitato e filtrato il numero dei potenziali fruitori, tant’è che la maggior parte dei bangladesi si è avvalsa di canali di immigrazione informale o irregolare. I costi di un contratto biennale in Arabia Saudita, infatti, variavano, all’inizio degli anni ‘80, tra i 40 mila e i 60 mila taka corrispondenti all’epoca alle 8 mila-12 mila sterline.
Analogamente ai movimenti migratori che riguardavano la Gran Bretagna degli anni ‘50 questo segmento della diaspora bangladese si configura come una migrazione temporanea, caratterizzata dagli accordi tra le aziende private dei Paesi di reclutamento e quello di origine e agita da veri e propri gastarbeiter, solitamente possessori di un modesto capitale economico e culturale di partenza, che – sopportando difficili condizioni di lavoro per un periodo della durata compresa tra tre e i dieci anni, nell’edilizia, nella ristorazione o nel settore alberghiero – tentano di accumulare risorse sufficienti per ripagare il debito contratto per la partenza e per dare avvio a piccole attività commerciali nel Paese di origine (Abrar, 2000; 2008; Abrar e Malik, 2002; Mannan, 2001; Siddiqui, 1998; 2002; 2004; 2006; Siddiqui et alii, 2005).
Dal nuovo millennio, l’emigrazione bangladese si è caratterizzata per l’individuazione di nuove frontiere migratorie, tra cui alcuni Stati dell’Asia orientale (Corea del Sud e Giappone) e dell’Europa centrale (Germania, Francia, Paesi Bassi e Belgio) e mediterranea (Italia e Spagna).
Il costo dell’immigrazione non regolata dai canali governativi ufficiali, anche se comunque elevato per molte famiglie lavoratrici bangladesi, ha un prezzo più accessibile rispetto a quella regolare. Ogni destinazione ha una sua tariffa proporzionata alle possibilità di guadagno e invio di rimesse offerte dai diversi Paesi di immigrazione: emigrare in Francia o Germania “costa” circa 15 mila euro, mentre l’Italia costituisce una tra le destinazioni più economiche dell’Europa Occidentale poiché il costo si aggira intorno ai 10 mila euro. Per comprendere la sproporzione fra il reddito medio familiare e il costo del percorso migratorio e per riuscire a soppesare l’entità di tali cifre per una famiglia bangladese con un componente emigrato basti pensare che sei o sette persone in Bangladesh vivono un anno con circa 60 mila taka, l’equivalente di 10 mila euro, anche se dall’osservazione etnografica svolta in alcune aree rurali del Paese emerge che un nucleo familiare di circa quattro persone può vivere con l’invio di circa 200 euro al mese da parte di un familiare emigrato.
Lo spostamento delle destinazioni migratorie descritto, spesso spiegato con la diminuzione dei guadagni possibili e, quindi, delle rimesse a causa di crisi economiche e politiche in Medio Oriente [11], potrebbe comunque sembrare inspiegabile a fronte degli alti tassi di disoccupazione in Europa meridionale. Gli Stati che costituiscono le “nuove mete” della diaspora dal delta sono accomunati alle “vecchie destinazioni” dalla stessa “sete” di forza lavoro immigrata, da arruolare all’interno dell’economia informale e di nicchie ormai abbandonate dalla manodopera autoctona in seguito al sensibile peggioramento delle condizioni lavorative e salariali.
Alcuni testimoni privilegiati sottolineano come molti probashi emigrati nei Paesi del Medio Oriente aspirino a intraprendere una nuova migrazione dall’esito imprevedibile in direzione dell’Europa (soprattutto meridionale) dove, sfruttando reti sociali e network estesi a livello transnazionale, vengono a conoscenza di migliori condizioni lavorative, sociali e di vita. Se molti di questi lavoratori sono irregolari nei Paesi che costituiscono il primo approdo migratorio (ed è, quindi, facile comprendere la frustrazione che li spinge a cercare un miglioramento in Italia, Spagna e Grecia), molti altri godono di una situazione amministrativa regolare e di inserimenti lavorativi stabili. È il ricongiungimento con la moglie e gli eventuali figli, la cui possibilità – al pari del matrimonio con una donna autoctona – è negata nei Paesi del Medio Oriente, a spingere questi lavoratori a compiere un ulteriore passaggio migratorio.
La consapevolezza della dilatazione della loro permanenza nel bidesh arabo (per la necessità di riscattare il debito contratto, per l’impossibilità di sospendere le rimesse in patria a causa del vertiginoso aumento del costo della vita che sta prendendo forma in Bangladesh e dell’acquisita qualità di vita a cui la famiglia del probashi non è più disposta a rinunciare) renderebbe maggiormente gravose la solitudine, la lontananza degli affetti, le responsabilità genitoriali verso i figli rimasti nel Paese di origine. Consapevoli del periodo di precarietà e irregolarità che li attenderà in Italia e in Spagna, ma anche della possibilità del ricongiungimento che la normativa nazionale di questi Paesi concede agli immigrati “regolari”, affrontano una nuova migrazione nella speranza di ricongiungere il coniuge e gli eventuali figli e di compensare in tempo breve la sospensione dell’invio delle rimesse alla luce dei differenziali salariali tra Europa e Paesi arabi (Mazzucato and Schans, 2008; Del Franco, 2010). È necessario, però, sottolineare il peso dell’appartenenza di classe dei migranti e della presenza o meno di altri familiari nel bidesh in questa dinamica di spostamento, anche se quantitativamente poco influente, del baricentro della migrazione dal Medio Oriente all’Europa meridionale. Per chi proviene dalla classe medio-alta urbana, infatti, le rimesse in patria non costituiscono una risorsa economica necessaria per la famiglia di origine che, anzi, talvolta può sostenere il familiare all’estero nelle prime fasi del suo progetto migratorio. Chi proviene dalle aree rurali più deprivate o dalla classe media impoverita della città e nonostante ciò è riuscito a intraprendere la migrazione, invece, non può esimersi dal fornire un supporto necessario ai propri familiari specialmente se primogenito.
I cambiamenti registrati nei movimenti migratori sono relativi non solo ai Paesi di arrivo, ma anche al numero di coloro che affrontano la migrazione: mentre i pionieri erano assimilabili all’esigua élite bangladese, attualmente si assiste a una maggiore partecipazione all’esperienza migratoria da parte delle fasce meno privilegiate della società bangladese.
Una diaspora eterogenea e stratificata
Questa breve ricostruzione dei flussi migratori bangladesi non deve indurre a pensare che si siano avvicendati seguendo una successione temporale netta ben scandita. Più movimenti migratori sembrano caratterizzare il Bangladesh contemporaneo, anche in virtù del fenomeno della segregazione socio-economica dei migranti (Knights, 1996; 1998). Questo significa che componenti di migranti differenti dal punto di vista dell’origine regionale o della collocazione socio-economica possiedono forti legami con certe destinazioni migratorie e non con altre. Sono soprattutto uomini semi-qualificati e non qualificati, tra i 20 e i 45 e provenienti da Dhaka, Chittagong, Noakhali, Shariatpur e Comilla coloro che emigrano con contratti di lavoro in Medio Oriente e in Asia sud-orientale. Le esperienze di questi “colletti blu” sembrano molto diverse da quelle di chi raggiunge i Paesi dell’Europa e dell’America (Ashraf, 2010). A differenza di quella diretta nei Paesi asiatici, quest’ultima migrazione prevede maggiori tempi di permanenza, anche se spesso non definitivi.
Tra le “comunità” bangladesi più stabilizzate e di lungo termine vi sono quelle in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma anche quelle più piccole del Canada o dell’Australia (Asharaf, 2010; Kibria, 2011). Si tratta, comunque, di destinazioni con flussi differenziati al loro interno: a diaspore di soggetti istruiti e di classe medio-alta, si affiancano quelle costituite da soggetti con bassi stipendi e alti tassi di disoccupazione in Bangladesh. La stessa differenziazione delle presenze nei Paesi occidentali fa pensare a motivazioni eterogenee alla base dei progetti migratori, quali il desiderio di innalzamento dello status sociale per alcuni, o la fuga dalla povertà per altri. Accanto alle diaspore tradizionali, alcuni Stati dell’Asia orientale, dell’Europa e i Paesi anglofoni di altri continenti stanno sperimentando la stabilizzazione dei flussi bangladesi.
Un’ulteriore componente della migrazione dal Bangladesh è costituita dalle nuove generazioni della upper class più cosmopolita e benestante bangladese (Kibria, 2011), dirette verso le città che ospitano importanti centri universitari per conseguire una formazione universitaria in Occidente (soprattutto Stati Uniti, Canada, Australia e, ovviamente, Gran Bretagna) finalizzata alla riproduzione e l’innalzamento del posizionamento sociale nel Paese origine. La Dhaka University, dove si sono formati i loro genitori ed esaltata fino a quindici anni fa come “l’Oxford d’Oriente” non è più sufficiente per questa generazione di migranti che, alimentata con le immagini ritraenti il benessere della classe media occidentale, desidera ardentemente una vita lontana dalle restrizioni del Bangladesh (Ashraf, 2010).
Longitudinalmente a questi segmenti della diaspora, non sono mai cessati i flussi migratori che collegano le aree rurali del Paese ai grossi centri urbani (soprattutto Dhaka) e gli attraversamenti irregolari della frontiera tra Bangladesh e India (iniziati con la ripartizione del ‘47 e continuati dopo il ‘71) (Van Schendel, 2005) nonostante la recente costruzione di un muro, finanziata dal governo indiano e finalizzata a impedire gli ingressi. La costruzione di tale barriera, presidiata da 60 mila soldati del terzo esercito di terra del mondo che non esitano a sparare su chi tenta di scavalcarla, si chiama Zero line, è lunga oltre 4 mila chilometri e sta costando al governo indiano oltre 900 milioni di euro. Queste migrazioni interne o transfrontaliere coinvolgono gli strati più bassi e meno istruiti della popolazione bangladese, destinati a inserirsi nei segmenti più umili del mercato del lavoro (Abrar and Seeley, 2009; Afsar, 2000; Ghosh, 2006; Hasan, 2006; Katiyar, 2006; Siddiqui and Sikder, 2007; Sikder and Khan, 2008), fra cui molte donne e bambine che trovano occupazione nel settore domestico (Aminuzzaman, 2008; Hossain et alii, 1990; Siddiqui, 1999; 2001, 2008; Siddiqui and Sikder, 2007; Siddiqui et alii, 2006a; 2006b; Sikder, 2004; Sobhan and Khundher, 2001).
Un bidesh chiamato Italia
Quella bangladese è oggi la sesta comunità nazionale immigrata per numero di presenze in Italia (Demaio, 2013). Anche se i primi arrivi di bangladesi in Italia risalgono agli anni ‘70, anni in cui la Penisola stava attraversando la trasformazione da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione, è a partire dagli anni ‘80 che molti giungono in Italia, anche a causa della chiusura delle frontiere francesi e della Repubblica Federale Tedesca, in concomitanza con le profonde trasformazioni economiche e sociali e il turbolento scenario politico che si stava delineando nel Paese di origine.
Una delle mete più ambite della diaspora bangladese in Europa fu, in principio, proprio la Germania Federale, dove era relativamente facile ottenere il riconoscimento del diritto di asilo politico in seguito agli eventi del 1975 che hanno portato all’instaurazione del regime militare di Zia ur Rahaman. Nel 1979 il governo tedesco impose nuove restrizioni alla concessione dell’asilo e i flussi migratori dal Bangladesh si spostarono verso la Francia, in virtù dell’atteggiamento relativamente accogliente del Paese nei confronti dei rifugiati politici. L’elezione di un presidente socialista all’Eliseo del 1981, inoltre, faceva sperare in una rapida sanatoria e provocò un consistente riversamento di bangladesi sul territorio francese. Rispetto a Paesi come la Germania e la Svizzera, che «nel volgere di pochi anni si erano trasformati da facili obiettivi a impenetrabili fortezze» (Priori, 2012, 58), la Francia era caratterizzata da una legislazione relativamente permissiva, attirando cospicui contingenti di probashi (Knight and King, 1998), almeno fino al 1989, anno in cui l’arrivo di Charles Pasqua al Ministero dell’Interno ha comportato un giro di vite sugli ingressi.
Contemporaneamente alla trasformazione del panorama politico e legislativo francese prende avvio anche quella che è ricordata come la prima Guerra del Golfo che rese, così, impossibile la migrazione verso gran parte dei Paesi petroliferi del Medio Oriente. Ciò comportò un ri-orientamento dei flussi migratori verso l’Europa mediterranea e il blocco sovietico. Il crollo del “socialismo reale” rendeva i Paesi dell’Europa orientale permeabili all’immigrazione, configurandoli, al contempo, come contesti emergenti in cui molti bangladesi aspiravano a giocare le proprie doti imprenditoriali. I rapporti fra la Repubblica Popolare del Bangladesh erano intensi sin dai primi due governi filo-socialisti dell’Awami League. Tali relazioni permisero l’istituzione di borse di studio attraverso le quali migliaia di giovani bangladesi si recavano in Unione Sovietica o in altri Paesi de Patto di Varsavia per frequentare l’università. Fra questi molti rimasero per dedicarsi ad attività imprenditoriali e commerciali negli anni successivi all’implosione sovietica formando cospicue comunità di connazionali. Nonostante una iniziale crescita delle presenze bangladesi, il ristagno economico che caratterizzava l’alba dell’era post-sovietica e il crescente razzismo che colpiva i migranti nelle grandi città finirono per scoraggiare molti bangladesi, i quali, dando ascolto alle insistenti voci sulle alte possibilità di sviluppo economico che caratterizzavano le nuove mete dell’Europa mediterranea, abbandonarono la Russia per dirigersi verso la Spagna, la Grecia e, soprattutto, l’Italia (Della Puppa, 2014; Priori, 2012; Zeitlyn, 2006; 2007).
Per tutti gli anni ‘70 e ‘80, la loro presenza rimane comunque irrisoria e concentrata nella capitale: molto spesso si tratta di migranti di passaggio (con la speranza di transitare verso altre nazioni europee o oltreoceano, in Canada o negli Stati Uniti) e comunque di “pionieri”. Le loro possibilità economiche fuori dal comune, ne fanno una migrazione d’élite, costituita da persone benestanti in Bangladesh, proprietari di terre o industrie, spesso ipotecate o cedute per affrontare l’esperienza all’estero.
Sono gli anni ‘90 che qualificano l’Italia come destinazione importante e i numeri dei permessi di soggiorno in mano a bangladesi ne sono tangibile dimostrazione: dal 1986 alla fine del 1991 essi lievitano – anche per l’effetto della legge 39 del 1990, conosciuta come Legge Martelli – da 101 a 4.296 e riguardano immigrati relativamente ben istruiti di estrazione medio-alta. Gli ultimi dati disponibili sulle presenze bangladesi nella Penisola risalgono a quelli offerti dall’Istat nel 2008, registrano 65.529 immigrati di cui un terzo donne, anche se stime più accurate contano una popolazione di almeno 100 mila individui sul territorio nazionale. La maggior parte di questi immigrati ha fatto ingresso nel Paese irregolarmente, sull’onda dell’incremento della migrazione dal Bangladesh verso l’Italia registrato all’inizio degli anni 2000 in seguito al ri-orientamento delle “tradizionali” rotte migratorie verso i Paesi del Golfo.
Quanto alla distribuzione territoriale di questi migranti, essa è tutt’altro che omogenea, tant’è che essi si concentrano quasi esclusivamente a Roma dove, secondo il Censimento del ‘91, risiede il 92% dei bangladesi in Italia. In questi anni l’insediamento dei bangladesi nella capitale è tanto rapido da rendere tale “comunità” una delle più grandi in Europa, seconda solamente a quella di Londra. Roma è luogo di primo passaggio, dove molti bangladesi possono incontrare, se non conoscenti, compatrioti ed essere informati sulle ultime opportunità di lavoro o di soggiorno in altri Stati europei. La capitale costituisce tutt’oggi uno degli Adam Bepari, un centro di smistamento e irradiazione della diaspora bangladese nel mondo (Knigts, 1996; Priori, 2012; Zeitlyn, 2006).
La comunità bangladese, all’inizio degli anni ‘90, è composta ancora quasi esclusivamente da uomini (Montuori, 1997; Casu, 2008); la presenza delle donne è pressoché inesistente nei primi flussi migratori bangladesi, essa è diventata più consistente con il passare del tempo e il processo di stabilizzazione della comunità. Tuttavia, è possibile affermare che, fra le prime generazioni di migranti, non esiste quasi nessuna donna che tenti autonomamente la via della migrazione in Europa e che la presenza femminile in Italia, anche se ancora bassa, appare quasi esclusivamente legata ai ricongiungimenti familiari a seguito del marito.
Il consolidamento della diaspora in Italia
La comunità bangladese che si consolida negli anni ‘90 presenta una struttura propria dal punto di vista economico e lavorativo, frutto delle stesse condizioni poste dall’Italia degli anni ‘90. Imprenditori, lavoratori subordinati e, infine, venditori ambulanti, erano i tre gruppi in possono essere ricondotti i migranti presenti sul suolo italiano. Già alla fine del 1991, gli imprenditori – minoritari a livello numerico e costituiti soprattutto da leader politici e delle associazioni – hanno aperto negozi ed esercizi miranti a incontrare le domande della comunità stessa. Attività di import-export (necessarie per approvvigionare i connazionali che vivono di commercio al dettaglio), phone center, rivendite alimentari, di abbigliamento, di gioielli o dvd, oltre a rappresentare luoghi di incontro, sono anche punti informativi indispensabili per ottenere indicazioni sulla burocrazia italiana, i servizi, le possibilità lavorative o abitative. Anche il gruppo dei lavoratori subordinati riveste una funzione di primaria importanza, non solo per il loro consistente numero, ma perché rappresentano una sorta di “ombrello protettivo” nei confronti di chi è sprovvisto di lavoro e di permesso di soggiorno. Molti bangladesi, inoltre, trovano occupazione procurando i cosiddetti migration service, ovvero aiutando i connazionali a trovare un alloggio, un lavoro, cibo, telefonate a basso costo o contatti internet con amici e parenti, oppure diventando intermediari del sistema hundi o hawala (Zeytlin, 2006).
Si consolidano, dunque, anche le reti migratorie che uniscono il Bangladesh all’Italia e la migrazione diventa un progetto appetibile per strati sempre più ampi e diversificati della società bangladese. Rispetto agli anni ‘80 e ai primissimi anni ‘90, in cui migrava solo un’elite desiderosa di innalzare il proprio status sociale, ora il fenomeno migratorio appare più esteso e riguardante anche quella esigua classe media e persino medio-bassa presente in Bangladesh, formata da piccoli commercianti, ma anche agricoltori. Nonostante alle classi posizionate in fondo alla stratificazione sociale (quanto a disponibilità di risorse) sia comunque preclusa la chance migratoria, essa è diventata aspirazione di un maggior numero di persone. Le ricerche citate individuano la presenza in Italia di migranti appartenenti non tanto alla classe media tradizionale, ma a una classe costituita da soggetti con medie entrate e collocata in una posizione ottenuta grazie alla migrazione e alle conseguenti rimesse (Gardner, 2010; Priori, 2012).
I salari ottenuti dai bangladesi all’estero, o da coloro che hanno lavorato nel business collegato alla migrazione, hanno aumentato i guadagni delle persone e il loro interesse verso la migrazione in Occidente, spesso idealizzato come culla del benessere e della libertà a causa delle social remitances e della “socializzazione anticipatoria” alla migrazione (Anthias, 2014; Levitt, 1998); ciò contribuisce a creare delle grandi aspettative in chi parte – spesso facilmente disattese una volta approdato in terra di destinazione. Invece di essere proprietari terrieri con capitali da investire nella migrazione, con figli istruiti e propensione al rischio (Knights, 1996; 1998; Zeitlyn, 2006), i bangladesi del XXI secolo sembrano avere originariamente un basso status socio-economico (agricoltori non molto istruiti). Sono le esperienze migratorie in Medio Oriente, in cui i probashi lavoravano spesso nelle costruzioni o come operai dell’industria, che permettono loro di fare gli stessi investimenti e di assumersi gli stessi rischi della classe media urbana. In tal modo questi probashi raggiungono un livello di ricchezza materiale e di conoscenza del mondo tale da rendere accessibili alcune destinazioni europee, come Italia e Spagna.
Non solo il profilo dei bangladesi in Italia è mutato nel tempo, ma anche la loro distribuzione territoriale. A partire dagli anni ‘90, infatti, si delinea un nuovo fenomeno: la dispersione territoriale nella Penisola. Sarebbero i soggetti con regolare permesso di soggiorno e regolare impiego a essere tentati di lasciare Roma per conseguire migliori condizioni sociali, lavorative e abitative (Della Puppa e Gelati, 2015; Knights, 1996; Zeitlyn, 2006). Se è pur vero che la capitale continua a vedere una forte presenza di bangladesi (Casu, 2008; Fioretti, 2011; Pompeo, 2011; 2012; Pompeo e Priori, 2009; Priori, 2012), molti di essi cominciano a spostarsi in altre città italiane, alla ricerca di posti di lavoro più stabili e sicuri, più difficili da trovare nella capitale (Della Puppa e Gelati, 2015). I probashi presenti sul territorio italiano provengono soprattutto dal distretto di Dhaka, ma anche da alcuni centri urbani di piccole e medie dimensioni delle comunità rurali disperse nel Paese di origine come Madaripur (particolarmente numerosi a Milano), Shariatpur (soprattutto a Roma), ma anche da Comilla, Noakhali, Chittagong, Faridpur e Sylhet.
Questo processo di frammentazione della comunità può essere correlato al titolo di soggiorno posseduto dagli immigrati (Knights, 1996; 1998): sarebbero i soggetti con regolare permesso di soggiorno e regolare impiego a essere tentati di lasciare la città per conseguire migliori condizioni occupazionali e abitative; viceversa, i soggetti privi di documenti, sarebbero accomunati da una maggiore stanzialità nella capitale, in quanto dipendenti dalla comunità bangladese e dal sostegno che essa assicura.
Conclusioni
La diaspora bangladese è costituita da diverse componenti, spesso corri- spondenti alle diverse collocazioni sociali dei migranti coinvolti e inserite nella lunga tradizione di migrazione del Paese (Kibria, 2011; Van Schendel, 2009). Va ricordata innanzitutto l’emigrazione per lavoro inaugurata dai laskars sulle navi dirette verso i porti di Londra e New York che ha portato alla formazione delle prime comunità probashi e alla stabilizzazione dei migranti che trovavano inserimento lavorativo nel tessuto industriale dei Paesi di destinazione (Eade and Garbin, 2005; Gardner, 1993; 1995; 2002; 2010; Kibria, 2011; Van Schendel, 2009). Accanto a questa consolidata catena migratoria si inseriscono i flussi di lavoratori unskilled diretti verso il Medio Oriente (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Oman, e, prima dei conflitti bellici di cui sono stati teatro, anche Iraq e Libia) e verso alcuni Paesi asiatici di recente industrializzazione (Malesia e Singapore) (Abrar, 2008; Abrar and Malik, 2002; Abrar and Seeley, 2009; Adams, 1987; Ahmed, 2000; Mahmood, 1991; Siddiqui, 1998; 2003; Kibria, 2011; Van Schendel, 2009).
I Paesi anglofoni extraeuropei come Stati Uniti, Canada e Australia costituiscono le principali destinazioni di una ristretta élite che, pur continuando a coltivare intensi legami con la madrepatria, emigra per il conseguimento di una formazione universitaria di eccellenza (Ashraf, 2010; Siddiqui, 2004a). Al contrario, sono principalmente gli appartenenti alle classi subalterne ad affrontare la migrazione transfrontaliera inserendosi nell’economia sommersa del mercato del lavoro indiano (Siddiqui and Sikder, 2007; Siddiqui et alii, 2005; Sikder, 2004).
Quella diretta verso l’Europa mediterranea, soprattutto Italia e Spagna, costituisce una componente della migrazione dal Bangladesh relativamente recente ma in esponenziale aumento ed è principalmente costituita da uomini della classe media bangladese, ma sempre più anche da giovani di estrazione popolare. Nel corso degli anni ‘90 l’Italia si conferma, così, una delle principali mete della diaspora dal delta in Europa (in virtù della convergenza tra i bisogni economico-produttivi del Paese, la disponibilità lavorativa dei migranti e le possibilità di regolarizzazione offerte dalle prime legislazioni in tema di immigrazione) e Roma uno dei suoi centri nevralgici (Knights, 1996; 1998; Montuori, 1997; Quattrocchi et alii, 2003; Zeitlyn, 2006; 2007). A seguito di tale progressiva acquisizione di importanza, l’insediamento bangladese nella Penisola è andato incontro a profonde trasformazioni sia in termini quantitativi – con un’esponenziale crescita degli ingressi – che in termini qualitativi – con una stratificazione sociale della sua composizione e, soprattutto, con una crescente tendenza alla familiarizzazione. Ciò ha coinciso con la dispersione di componenti sempre più ampie della comunità, da tempo stabilitesi nella capitale, verso altri contesti nazionali alla ricerca di una maggiore stabilità lavorativa e residenziale. Questa mobilità interna si è orientata soprattutto verso le regioni settentrionali, investendo sia i grossi centri urbani, come Milano o Bologna, che i piccoli contesti locali a ridosso di grossi impianti industriali, in particolar modo nella fascia Nord orientale del Paese.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] Rimane aperto, però, il canale costituito dal ricongiungimento familiare grazie al quale un numero crescente di lavoratori bangladesi cominciò a portare mogli e bambini nel Regno Unito (Peach, 1996).
[2] Allo stesso modo vengono definiti i villaggi bangladesi caratterizzati da un’alta percentuale di emigrati.
[3] Questo termine è stato utilizzato genericamente per designare i marinai provenienti dalle colonie dell’impero britannico (soprattutto dal subcontinente) e arruolati in epoca coloniale sulle navi occidentali.
[4] Il British National Act del 1948 diede la cittadinanza britannica a tutti i residenti in India e Pakistan come membri dell’“ex” impero britannico (Dale, 2008; Peach, 1996). Due decenni dopo, nel 1962, il Commonwealth Immigrant Act impose severe restrizioni agli ingressi ai migranti provenienti dal sub-continente, trasformando chi già si trovava entro il territorio dello Stato in “permanent settler” (Adams, 1987; Ansari, 2004; Kibria, 2011).
[5] Nella fase dei voucher di lavoro, che si esaurisce alla fine degli anni ‘60, i bangladesi sono impiegati nelle industrie e vivono in Gran Bretagna per brevi periodi (mesi o qualche anno), con l’obiettivo di rientrare quanto prima in Bangladesh, con capitali sufficienti per l’acquisto di una casa in muratura, di un terreno agricolo o per avviare un’attività imprenditoriale propria.
[6] Il censimento del 2001 stimava una popolazione totale di 283.603 residenti, di cui il 38% sotto i sedici anni.
[7] La fioritura dell’attività imprenditoriale bangladese in quegli anni, oltre a essere resa possibile grazie alla stabilizzazione nel territorio inglese sembra essere anche collegata alla crisi del settore industriale che ha colpito in modo particolare gli stranieri ivi occupati.
[8] Su questo aspetto si veda il documentario di S. Chambers, Every Good Marriage Begin With Tears, Storiville-Bbc Four, London, 2007.
[9] Sebbene inizialmente (1976-1981) i Paesi mediorientali richiedessero categorie professionali elevate come medici, infermieri, insegnanti, dagli anni ‘90 l’offerta è rivolta a manodopera poco specializzata e con scarsa retribuzione.
[10] In queste stesse destinazioni, si assiste anche all’arrivo e all’occupazione di donne bangladesi, per la prima volta protagoniste autonome della migrazione. Per un approfondimento sulle migrazioni femminili dal Bangladesh si rimanda a Aminuzzaman, 2008; Hossain et alii, 1990; Siddiqui, 1999; 2001, 2008; Siddiqui and Sikder, 2007; Siddiqui et alii, 2006a; 2006b; Sikder, 2004; Sobhan and Khundher, 2001. Su questo tema si veda anche il documentario Rmmru and Media Mix, Another Orizon: Female Labour Migration from Bangladesh, Rmmru, Dhaka, 2004.
[11] Le capacità di assorbimento della forza-lavoro immigrata da parte delle economie mediorientali, infatti, sta cambiando sensibilmente in seguito alla crisi economica globale che coinvolge anche queste società. Molto spesso i lavoratori immigrati vengono “scaricati” dalle imprese arabe prima dei termini contrattuali, espulsi forzatamente dal Paese di immigrazione e costretti a rientrare in Bangladesh più impoveriti della partenza. Ciò avviene per il mancato rispetto degli accordi contrattuali da parte dei reclutatori, per l’improvvisa mancanza di liquidità da parte delle imprese o per la disonestà dei dalal che speculano sulle speranze dei lavoratori bangladesi assicurando loro un contratto di durata superiore a quanto in realtà accordato con l’impresa appaltatrice. Su questo aspetto si veda il documentario di D. Muñoz e S. Rahaman, Tres tristes tigres, Six Oranges, Cambridge, 2010.
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Francesco Della Puppa, dottore di ricerca in Scienze Sociali e assegnista di ricerca senior presso l’Università di Padova, è membro del Master su Fenomeni Migratori e Trasformazioni Sociali e del Laboratorio di Ricerca Sociale dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Da anni studia i processi di migrazione dal Bangladesh, i suoi attuali interessi di ricerca sono relativi alla famiglia immigrata e al processo di ricongiungimento familiare, alle onward migration e alla mobilità migratoria intraeuropea, ai giovani di origine immigrata e all’Innovazione sociale.
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