di Francesca Maria Corrao
Uscire dalle nostre regole, dai nostri confini è sempre un’esperienza che insegna qualcosa dell’altro, anche quando si crede di conoscerlo. Si tratta di uscire anche dalle nostre certezze stereotipate, dalle notizie che ci fornisce la rete, e a cui crediamo come nuovo vangelo; insomma vedere con i propri occhi, fa la differenza.
Il viaggio è sempre una scoperta, anche quando si torna in un Paese che si crede di conoscere, ma il cui ricordo è fermo nella memoria, per un inganno della mente; immaginiamo che la visione di una volta sia rimasta immobile nel tempo e quando troviamo qualcosa di cambiato restiamo delusi, sorpresi. Nel trascorrere degli anni e delle guerre gli eventi luttuosi hanno segnato il contesto sociale e politico della regione trasformando i Paesi del Medio Oriente in modo significativo.
La guerra deturpa l’animo e il paesaggio, e in particolare l’area che circonda la Giordania è stata devastata dai numerosi conflitti che si sono verificati. Si tratta di guerre le cui origini affondano in tempi non tanto vicini a noi, ma nemmeno troppo lontani per non ricordarli: si parte dalla fine dell’Impero ottomano con gli accordi di Sykes Picot (1916) e la dichiarazione di Balfour (1917) e i conseguenti mandati che hanno diviso la regione secondo gli interessi franco-britannici; si prosegue con il tradimento del patto tra la Gran Bretagna e i rivoluzionari arabi (1919) risolto con la creazione del regno della Transgiordania, e poi Giordania (1946), ma con capitale Amman e non Gerusalemme che restava in territorio che da lì a pochi anni diventerà israeliano.
Da allora le tensioni non si sono mai allentate anzi si sono inasprite con la nascita di Israele (1948) che per i Palestinesi corrisponde alla Nakba (catastrofe) e non alla nascita di un loro Stato, come promesso dalle delibere dell’ONU. A seguire si sono succeduti colpi di stato, rivolte e guerre alla ricerca di un assestamento che fatica a realizzarsi per il complicarsi di alleanze e fazioni locali e del loro intrecciarsi con gli interessi internazionali, di natura sia economica che geopolitica. Le ondate di speranza in una area geografica pacificata, alimentate dall’ideale del nazionalismo arabo, sono implose in seguito ai rovesci militari e alle guerre del petrolio sino a morire sotto i colpi del vento contrario delle aperture al capitalismo liberale. Gli ideali del liberalismo hanno portato con sé nuove speranze di emancipazione politica dalle dittature, stimolando una maturità intellettuale che ha prodotto le rivolte arabe delle dignità del 2011. Le aspettative dei rivoluzionari, non coincidendo con gli interessi della classe dirigente, sono state purgate da violentissime repressioni che hanno interessato l’intera regione, e ancora oggi infiammano l’area mediorientale.
La Giordania, Stato cuscinetto, ancora oggi sopravvive a tutte le turbolenze politiche interne, grazie alla legittima appartenenza del re alla famiglia del Profeta, mentre l’opposizione, che si coagula attorno agli estremisti religiosi, è tenuta sotto controllo. Tuttavia la barbara uccisione del pilota aereo giordano, da parte degli eretici dell’IS, ha dimostrato che anche questo vincolo per i terroristi non è inviolabile. Ma la reazione dei capi delle più influenti famiglie giordane ha portato a un ricompattamento della solidarietà giordana contro le ingerenze straniere interessate a fare saltare la piccola, ma importante, roccaforte del Medio Oriente.
Queste considerazioni sono frutto di studi e letture ma già sono pronte ad essere aggiornate quando si pensa al dramma dell’emigrazione sorvolando il mare Mediterraneo, il bianco mare di mezzo come lo chiamano gli arabi (bahr al-abyad al-mutawassit). Un mare che si arrossa per il sangue degli immigrati, ma è la paura di questi arrivi a far perdere a noi italiani ogni sensibilità di fronte al dolore umano. Il timore di perdere la nostra identità, nel frenetico ritmo quotidiano della nostra esistenza, ingigantisce i mostri e ci fa vedere un’invasione ostile di gente portatrice di norme e costumi estranei. Questa cieca paura ci porta a costruire barricate nei nostri cuori prima ancora che i muri visibili anche all’esterno.
La paura è nei numeri, ma interrogando i numeri si scopre che negli anni tra il 2013 e il 2018 in Italia venivano regolarmente assunti circa 18 mila lavoratori stranieri (https://it.wikipedia.org/wiki/Decreto_flussi) per sopperire alla richiesta di manodopera. In cinque anni meno di centomila, ma adesso questi stessi numeri terrorizzano, e a legittimare la preoccupazione circolano immagini di immigrati che bivaccano oziosi trastullandosi con i cellulari. Prima ancora di chiederci a chi conviene diffondere la menzogna è utile domandarsi come è possibile che numerosissime attività commerciali cinesi si insediano nel nostro territorio senza suscitare alcuna reazione. Qui dovrebbe venire il dubbio che il problema forse non è l’incontro con l’”altro”, con chi è culturalmente “diverso”.
Forse, dietro alla cultura della paura si celano altri problemi e per spiegarli bisogna guardare al confine mediterraneo con altri occhi. Basta infatti un viaggio ad occhi aperti, non nei paradisi artificiali del divertimento, ma nella realtà a noi tanto vicina. Arrivati ad Amman si fa subito un giro al mercato e si scopre che il mercato tradizionale mediorientale – a parte i vestiti ricamati dalle profughe palestinesi – è invaso dal “made in China”. All’inizio di luglio 2018 sui giornali locali si leggono articoli entusiasti per i generosi prestiti giunti in aiuto dal Governo cinese per sostenere l’economia giordana messa a dura prova dalle richieste del Fondo Monetario Internazionale. Per capire questi articoli è necessario fare un passo indietro, e ricordare quanto pubblicavano i giornali europei poche settimane prima.
Giugno 2018, i giordani tornano in piazza contro le leggi approvate dal Governo. I disordini spingono il re a destituire il primo ministro giordano – ex funzionario del FMI – responsabile dei tagli sulla spesa pubblica e dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, imposti dal FMI per poter elargire un nuovo prestito al Paese. L’emergenza spinge il re a ribadire ai fratelli sauditi la necessità di non tagliare gli aiuti economici che minacciavano di sospendere, e la crisi è risolta. Il nuovo Governo fa anche di più, e i giornali ne esaltano le capacità di trovare risposte adeguate annunciando l’importante aiuto cinese. Agli italiani e agli europei resta da annotare che sugli stessi fogli si condanna l’Italia e l’Europa responsabili della morte dei profughi in mare. Un paese come la Giordania, di 5.9 milioni di abitanti ospita circa 800mila profughi (immaginate 60 milioni di italiani disposti ad ospitare all’improvviso 5 milioni di rifugiati), il che fa capire perché hanno bisogno urgente di aiuti e perché le nostre pretese di difendere diritti e democrazia lì fanno sorridere, quando non li indignano.
Torniamo alla questione relativa alle simpatie per la Cina e le diffidenze per gli “Altri”. Per comprendere l’entusiasmo per gli aiuti cinesi forse sarà bene fare un altro passo indietro e ricordare Macchiavelli che nel VI capitolo del Principe scriveva:
«E debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo a introdurre nuovi ordini. Perché lo introduttore ha per nemici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene e ha tepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene. La quale tepidezza nasce, parte per paura delli avversari che hanno le leggi dal canto loro, parte dall’incredulità delli uomini, li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne veggano nata una ferma esperienza. Donde nasce che qualunque volta quelli che sono nemici hanno occasione di assaltare lo fanno partigianamente e quelli altri defendano tepidamente: in modo che insieme con loro si periclita».
Troviamo così una possibile risposta alle nostre domande sui seminatori di paura, ossia coloro che più hanno da perdere nel cambiamento indotto – per noi – da una più equa apertura dei nostri mercati con quei Paesi (sin qui il più delle volte depredati) e – per loro – dall’apertura reale alle idee di democrazia che dovrebbero riconoscere ai cittadini libertà e parità di diritti e doveri. Questo problema, che così bene descrive Macchiavelli, affligge una parte dell’élite in modo speculare su entrambe le sponde, e spiega l’ostacolo da loro opposto al cambiamento di fronte ai reali pericoli posti dalla globalizzazione. Così noi dimentichiamo di aver colonizzato Paesi, di esserci arricchiti per secoli alle loro spalle comprando a poco prezzo le loro risorse, di aver venduto armi, giusto per ricordare un po’ di quel che sfugge all’orizzonte quotidiano.
Dall’altra sponda non si dimenticano le complicità con i nostri commerci e altri mali, non meno gravi, denunciati da intellettuali esuli (in Europa), poeti e scrittori imprigionati. È noto che i ricchi – ma anche i meno ricchi – Paesi arabi investono in armi molto di più che nella ricerca scientifica, promuovono guerre invece che scambi economici e strumentalizzano la già tragica questione palestinese per distrarre l’attenzione dalla politica interna. Ricordare la storia, e conoscere quella altrui, sarebbe utile per le popolazioni di entrambe le sponde, ma per lo più i manuali di storia narrano nel dettaglio fatti relativi ai singoli Stati, perdono di vista le connessioni e si limitano ad esaltare alcuni momenti “fondanti”. Un evento, quando è decontestualizzato, assume aspetti idilliaci, ma nel complesso riproduce una visione parziale; una immagine distorta del passato si presta alla manipolazione e alimenta l’illusione che in quella storia si possano trovare le risposte utili per risolvere i problemi del presente. Tutti hanno nel cassetto il sogno che «un tempo avevamo un impero» o la battuta facile del «si stava meglio quando si stava peggio».
La memoria collettiva – come scrive Le Goff in Storia e Memoria – costituisce un’importante posta in gioco nella lotta per il potere. Impadronirsi della memoria, e dell’oblio, costituisce la massima preoccupazione delle classi al potere e degli intellettuali che le legittimano. Anche per questo in Europa i sovranisti esaltano il passato idilliaco, che non tornerà mai più, mentre i conservatori nel mondo islamico (wahhabiti, alcuni salafiti e non solo) vietano la letteratura delle civiltà più antiche declassandola a folklore – da cui ci si deve guardare – e per le stesse ragioni imprigionano gli epigoni di Averroè, ossia i traduttori di certo pensiero occidentale moderno che preoccupa oggi quanto nel Medioevo spaventava Aristotele. E lo si censurava su entrambe le sponde. Ora queste barriere sembrano cadute, si parla a ogni piè sospinto della cultura greco-latina e delle origini giudaico-cristiane, cancellando in un sol colpo secoli di vessazioni e ingiustizie. A quell’orizzonte manca ancora il contributo dell’Islam. Eppure basterebbe poco per ricordare gli aspetti positivi che, le civiltà nate dai tre monoteismi, seppero realizzare collaborando insieme; anche questo al momento è un tabù perché riaprirebbe la porta delle antiche polemiche su Aristotele e sul contributo dato all’umanesimo italiano dai traduttori ebrei e musulmani prima della Reconquista.
Torniamo all’attualità e alla politica di non ingerenza dei cinesi e troviamo che non chiede di rispettare né la democrazia né i diritti umani, ma si adatta al sistema vigente senza pretendere cambiamenti e quindi, apparentemente, non crea problemi.
Si lasciano da parte queste riflessioni insieme al traffico di Amman – una città dai rari mezzi pubblici – per immedesimarsi su un’altra realtà locale: il silenzio del deserto. Un percorso in cui la modernità è segnata dall’asfalto della strada e da grandi pali dell’elettricità; viene spontaneo chiedersi come mai questi paesi flagellati dal sole ancora non usino i pannelli solari. Alcuni posti di ristoro assomigliano alle stazioni di benzina europei, ma qui sono per lo più casette di pietra mascherate da immensi cartelli che richiamano l’attenzione dei turisti. Piccoli hangar dove si trovano in vendita i prodotti dell’artigianato locale; la merce è esposta come nei supermarket. Anche qui, come al mercato di Amman, le più autentiche ceramiche locali sembrano prodotte in serie, mentre i tessuti sono in gran parte made in China. Al bar si beve il caffè al cardamomo o la coca cola, almeno sulle bevande tra Oriente e Occidente sembra essere stata raggiunta una coesistenza pacifica.
Tre ore di viaggio e si arriva alla mistica visione delle montagne rosa di Petra. Il senso del business dei beduini si è adattato alle richieste del mercato turistico internazionale. Al posto del baracchino di pietra ora si apre davanti al turista uno scenario da set cinematografico affollato da un gran numero di baracchette fasciate da coloratissimi tappeti locali che vendono materiale turistico di provenienza diversa. Il Governo locale con il contributo del Ministero del turismo ha realizzato un ingresso funzionale, ha messo in esposizione alcuni reperti archeologici e affisso ampi cartelloni che narrano la storia dell’antica capitale nabatea.
Superato il muro delle guide e dei beduini che offrono un passaggio in calesse, si apre la strada che porta al lungo canyon. L’impatto è forte ed estraniante: il percorso si snoda tra altissime pareti di varie gradazioni di rosso e uno stretto tetto di cielo. I sandali affondano tra i ciottoli e la sabbia. I beduini locali, che dall’esperienza dei millenari commerci hanno conservato la capacità e l‘astuzia, non offrono merci all’altezza del luogo; adesso vendono falsa bigiotteria cinese a stranieri storditi dalla bellezza del sito e rapiti, come gazze, dal luccichìo delle pietre. I bambini vendono polverose cartoline a prezzi esosi, ma il magico sorriso dei loro sguardi commuove anche i più abili nel contrattare i prezzi. Le astute moine dei mercanti riescono a convincere il turista, mostrano la differenza tra il prodotto locale “naturale” e quello “artificiale” degli indiani che si trova sul mercato a poco prezzo. Business is business e quindi anche qui si sono attrezzati per rispondere alle esigenze del sofisticato consumatore europeo.
Un asino raglia e riporta ad un piccolo mondo antico, quello di chi ha trascorso l’infanzia in campagna. Un ricordo lontano di cui molti giovani non conservano memoria, spesso perché sono assorti da altri paesaggi d’Occidente, la playstation. Per sfuggire al caldo bruciante si può trovare rifugio in un lussuoso ristorante occidentale; anche qui le mosche incalzano i commensali e l’unico modo per sfuggire al tormento è “la chiusura di ogni porta” per godere della gelida atmosfera artificiale dell’aria condizionata. Il caldo alle 14 è insopportabile, e solo sperimentandolo si possono capire le sofferenze che si patiscono nel campo profughi di Zaatari.
Questa non è la sola traccia di innovazione nell’area archeologica, anche qui il progresso ha creato vie d’uscita dall’antico mercato irregolare. L’affascinante e misterioso parco archeologico rivela la porta laterale, quella da cui accedono i fornitori e i ricercatori, per non disturbare “gli ospiti stranieri”. Da lì si attraversa il villaggio di cemento che accoglie i beduini strappati dalla zona archeologica e alle cui tende piene di vento si è sostituita la palazzina modello occidentale. Una squallida costruzione che – come le case in molte delle regioni meridionali italiane – non è completata e mostra i ferri che annunciano la futura costruzione di un secondo piano, e le fasce di legno che anticipano una scala e un ingresso che già si dichiarano eterni provvisori. Anche qui i bambini in buona salute sorridono felici, con gli abitini in ordine si assiepano accanto ai turisti cercando di vendere le loro mercanzie. La scuola è chiusa e così si intrattengono imparando il mestiere dei padri. A qualche distanza le bambine guardano, loro non vendono, hanno bacinelle di ferro forse per portare il bucato o per le verdure. La differenza dei ruoli è evidente, anche se nel paese sia i maschietti che le femminucce hanno lo stesso dovere\diritto di frequentare la scuola.
Usciti dal villaggio si attraversa il nuovo centro di Petra che decenni fa era soltanto un piccolo avamposto di case, e ora è un vasto quartiere di costruzioni dai tetti incoronati da bidoni di acqua e antenne paraboliche. I due problemi vitali per chi vive ai confini del deserto: l’acqua e la comunicazione. La pulizia e l’ordine per le strade sono un segno tangibile della civiltà dei beduini e anche dell’apporto positivo dell’Unesco. Petra è patrimonio dell’umanità e quindi deve rispettare alcune regole di decoro. Tra queste la giusta chiusura di un albergo, il solo che alcuni decenni fa potesse ospitare gli stranieri. Un posto incantevole ma illegalmente costruito sulle antiche costruzioni nabatee, di cui si sfruttavano le stanze per ospitare il ristorante. Anche qui i tempi sono cambiati, si impara a proteggere il patrimonio e i nuovi e numerosi alberghi di stile occidentale rispettano le norme.
Da lì si torna ad Amman in un viaggio di chilometri lungo il Mar Morto. Dopo chilometri di pietra e rocce appaiono rovi e alberelli isolati, lì si scorge a breve distanza un grande bidone di plastica che un’autobotte rifornisce regolarmente del vitale liquido per dare da bere a pecore e pastori della zona. Più avanti al deserto si alternano appezzamenti di terra attrezzati con l’irrigazione artificiale, poi anche alberghi e villaggi sul bordo del mare per ospitare villeggianti.
Ad Amman i rappresentanti, i docenti e gli studenti della moderna Università di Petra accolgono la delegazione della LUISS e della Fondazione Terzo Pilastro che, grazie alla lungimiranza del presidente Emanuele, offre borse di studio per studenti di un corso di laurea congiunto in Management. Nei discorsi ufficiali si valorizza l’importanza dell’accordo per l’esperienza di formazione congiunta e si presentano i dati sulla scolarizzazione dei profughi e sulla difficoltà che incontrano nel trovare lavoro. Il progetto è generoso ma è ancora come una goccia d’acqua in un mare. Eppure è importante, si spera possa avviare un meccanismo virtuoso di emulazione che contamini altri Atenei, Fondazioni e Istituti. Su questo piccolo gruppo di giovani decine di persone ripongono aspettative immense. Il peso della responsabilità di essere i pochi privilegiati tra migliaia di giovani esclusi deve essere enorme.
Vengono in mente i versi del grande poeta palestinese Mahmud Darwish dedicati alla memoria dell’amico Edward Said, l’autore del celebre Orientalismo. In quel poema Darwish reclama il diritto dei vinti a raccontare la loro versione della storia, perché rimanga traccia della loro memoria. Questi giovani con i loro studi possono contribuire a scrivere pagine importanti di una nuova storia che non dimentica la loro gente. Un po’ come le storie di Giufà, testimonianza della presenza araba in Sicilia le cui tracce sono state radicalmente cancellate dai nuovi conquistatori dell’Isola. Tutto svanito e tutto passato ai posteri sotto il nome dei Normanni, salvo le povere storie della tradizione orale; la cultura popolare ha conservato la memoria della civiltà araba nei secoli. Un aneddoto in particolare si adatta a questa situazione perché dà coraggio con il suo riso beffardo nonostante il destino maligno. É una delle storie di Giufà, quella in cui si narra che va al mercato a vendere gli asini. Ne ha 11 e li guida montando il più aitante. Ad un certo punto li conta, sono dieci. Scende preoccupato dall’asino e li riconta; sono undici. Tranquillizzato torna a montare l’asino. Passa un po’ di tempo e ripete la stessa operazione, e poi di nuovo per un paio di altre volte fintanto che non decide di fare la strada a piedi. Lo incontra un amico e gli chiede perché non monta l’asino e lui serafico risponde: “Meglio andare a piedi che perdere un asino”. Dietro la dabbenaggine dello stolto briccone si cela un insegnamento che non è banale: Giufà esorta i giovani a contare/valutare, tenere a mente la propria posizione di partenza, lì dove ci si trova (incluso l’asino che si cavalca), altrimenti si finisce per faticare di più per ottenere lo stesso risultato e si passa pure per stolti. Il racconto è una metafora per esortare i giovani ad avere fiducia in sé stessi: la paura porta a contare quello che è esterno a noi e fa perdere di vista ciò su cui si basa la nostra forza (l’undicesimo asino), ma è a partire dalle proprie capacità che si costruisce la fiducia e la speranza.
Le giovani che partecipano al progetto sembrano le più determinate a sfidare il destino, alcune studiano per emanciparsi e cambiare la condanna di eterne minori, dipendenti dall’uomo di famiglia. Non lo dicono ma nei loro occhi brilla il desiderio di partire e di sentirsi libere. Non tutte però condividono tanto ardire, tra loro ci sono anche ragazze che temono la distanza, i luoghi estranei in cui non si sentono protette, al sicuro da sguardi indiscreti che possono violare il loro “candore”. I giovani trattengono la loro impazienza, vogliono dimostrare a sé stessi e ai loro méntori di essere all’altezza della sfida e nei loro sguardi sprizza energia e speranza.
La visita continua a Zaatari, nel campo profughi ai confini con la Siria che ospita 80mila persone. Non è stato facile avere il permesso per entrare a causa della pressione ai confini di una nuova ondata di povera gente in fuga dalle purghe di Asad dopo la conquista di Dera‘a. La piccola città che per prima aveva dato il via alla rivolta in Siria con le proteste di un gruppo di cittadini che chiedevano la liberazione di alcuni minorenni imprigionati per aver scritto sui muri degli slogan contro il presidente. A Dera‘a la resistenza ha contrastato l’esercito più che ogni altro paese siriano e solo alla fine ha ceduto; per questa ostilità verso il regime, temendo una impietosa repressione, chiedono rifugio in Giordania. Agli inizi di luglio le trattative con la Russia sono in corso e i profughi minacciano di sfondare il confine.
Una ONG finlandese, che si occupa di insegnare un mestiere ai giovanissimi profughi, si è offerta per accompagnare la nostra missione nel campo. Prima di arrivare si attraversano chilometri di deserto interrotti da grossi centri urbani in prossimità di due campus universitari. Oasi di verde e di sapere in mezzo a un mare di sabbia, sembrano miraggi. Infine dopo un paio di ore si avvista Zaatari.
Dal nulla appare un muro di filo spinato, dietro si intravedono piccole baracche di lamiera. Ricordano vagamente quelle della valle del Belìce dopo il terremoto del 1968, qui però non siamo nel villaggio di Rampinzeri perché le baracche sono circondate dal filo spinato e all’ingresso del campo l’esercito controlla i documenti di chi arriva e di chi esce. Forse sono più simili ad Aushwitz. Si risveglia la rabbia di sempre di fronte alla sofferenza della povera gente tre volte vittima: del cataclisma, del cinismo della politica e dei meccanismi lenti della burocrazia. La disperazione nel volto dei profughi richiama alla memoria quella della povera gente che ha vissuto i bombardamenti della seconda guerra mondiale, non diversi da quelli subìti in questa regione dalle forze governative prima, poi da quelli dell’Isis, e infine quelli dei “liberatori” stranieri. Chi ha vissuto la guerra dovrebbe sentire il dovere di fare qualcosa per porre rimedio a tanta dolorosa ingiustizia. Chi può deve dare una mano, anche un semplice gesto di solidarietà per quella gente che oggi soffre come hanno sofferto tante generazioni vittime delle guerre. Non ci si può illudere di avere pace nel proprio paese se ai quattro angoli di questo la gente soffre, così ammonisce un saggio orientale. C’è molto da fare, ma di certo lo studio offre a questi giovani profughi la possibilità di avere una vita migliore e assicurare una vita dignitosa alle loro famiglie. Queste guerre hanno cancellato anni di diritto allo studio garantito, oggi la speranza di poter cambiare la propria condizione sociale attraverso lo studio è quasi nulla e per alcuni è un miraggio.
La ONG finlandese intrattiene un gruppo di bambini nel gioco del calcio; sono le 14 e il sole brucia, è impossibile accontentare tutti i bambini del campo e il massimo sforzo che si può fare consiste nell’aumentare i turni nel corso della giornata. I bambini di 7 anni sono nati nei campi, sono abituati alla polvere e al duro clima delle baracche nel deserto, bruciante d’estate e gelido in inverno. Il campo non ha ancora l’acqua corrente. Accanto alle baracche troneggiano enormi contenitori di plastica che forniscono l’acqua, bollente, che le donne usano con parsimonia per mantenere casa e figli puliti. Soltanto l’anno scorso erano arrivati pochi fondi per creare un grande serbatoio di raccolta di acqua piovana, necessario per provvedere alla distribuzione in tutto il campo. In autunno hanno scavato una pozza per preparare la vasca, poi i soldi sono finiti e nel frattempo è sopraggiunta la stagione delle piogge e l’enorme fossa, come una grande crepa si è colmata di acqua. L’acqua ha attratto i bambini e per gioco due piccole sono scivolate nel fango, inghiottite per sempre dalla melma.
Il campo ospita una scuola elementare, alla fine delle lezioni i giovani dell’ONG finlandese si occupano di intrattenere i bambini nel tempo libero. I maestri sono scelti tra i rifugiati; vi sono calciatori, musicisti, ginnasti, parrucchieri e insegnanti di inglese. Un grande capannone è diviso in due ampi spazi dove i maschietti e le femminucce, rigidamente separati, imparano a fare esercizi di ginnastica artistica che si prestano anche a intrattenere un pubblico come se fossero artisti di un circo. Mentre gli allenatori li fanno calciare con la speranza di trovare nuovi talenti, altri insegnano la musica. I ragazzi sperano di formare un piccolo gruppo di musicisti per suonare in occasione delle feste e dei matrimoni. Un barbiere insegna il mestiere a dei giovani che si allenano tagliando le chiome dei loro compagni di ventura. In quella parte del campo si stupisce nel vedere tanti giovani in ordine e ben pettinati. Anche le ragazze si esercitano, ma fuori dalla baracca sono tutte velate e solo quelle che si immagina siano cristiane, sfoggiano acconciature molto sofisticate, quasi eccessive in quel contesto così poco ospitale.
La polvere ingoia ogni cosa. Se a qualcuno è permesso di lavorare i soli mestieri concessi sono quelli di manovale e contadino. Alcuni mercanti si sono prestati a fare i contadini per mettere da parte i soldi necessari ad avviare un piccolo commercio. Grazie alla loro iniziativa adesso nel campo si possono comprare vari prodotti. Numerosi piccoli negozietti rallegrano con le colorate mercanzie il tetro grigiore delle baracche rappresentando l’unico punto vitale del campo. I negozi si trovano in una strada che ironicamente i profughi chiamano Champs Elisées, una versione povera dei prestigiosi viali parigini, i campi elisi dei profughi siriani. Il mito della città delle luci, la patria dell’illuminismo in Medio Oriente si è trasformato in una baraccopoli senza diritti.
Zaatari è solo uno dei numerosi campi profughi della Giordania, nella periferia dell’antica città romana di Gerasa, la moderna Gerash si trova un altro campo che ospita 30mila rifugiati palestinesi scappati da Ghaza al tempo della guerra del 1967. Sono ancora lì, in un dedalo di viuzze segnate da casette basse in pietra, coperte da un tetto di eternit. C’è una scuola in cui si fanno i doppi turni per garantire alle bambine di studiare separate dai maschietti. Un piccolo ospedale e il centro dell’UNHCR che distribuisce gli aiuti. Tra i rifugiati palestinesi in Giordania sono gli unici a non avere acquisito la cittadinanza e non avere il passaporto. I soli lavori che possono fare sono generalmente nell’edilizia e in campagna. Tutta questa precarietà è motivata da una politica che tende ad ostacolare l’estensione del diritto di cittadinanza a vecchi e nuovi profughi. Le famiglie si tassano per mandare i figli alle scuole superiori, su una popolazione di 1500 studenti soltanto in 30 riescono a laurearsi e 9 finiscono il dottorato. La gran parte dell’abbandono scolastico è dovuto alla mancanza di soldi. Quando riescono ad ottenere degli aiuti dai parenti all’estero sono costretti a scegliere solo certe facoltà, non tutte. Ad esempio non possono iscriversi ad agraria o ad ingegneria, non possono ambire a fare un lavoro nella pubblica amministrazione. Se insegnano nella scuola locale è perché è gestita dall’UNHCR. Riuscire a portare a termini gli studi è un’impresa, una speranza in cui tutta la famiglia ripone aspettative importanti per assicurare un futuro migliore a tutte le componenti, dagli anziani ai bambini. A dare un segno tangibile di queste aspettative è un festone all’ingresso del campo che sventola in onore di un giovane che ha conseguito il diploma di laurea. Le ragazze che riescono a superare queste barriere, oltre a quelle della mentalità patriarcale, sono pochissime, tra queste l’architetto che ci accompagna. Una studiosa che promuove tesi di laurea che sviluppano progetti di costruzione di abitazione ecologicamente sostenibili utilizzando materiali da riciclo.
Le maquette esposte nella mostra permanente al pian terreno della facoltà di Arte, dell’Università di Petra, sono molto colorate e avveniristiche, adesso bisogna fare un altro sforzo, trovare un investitore per realizzare delle abitazioni più decenti per i profughi che da cinquanta anni vivono in una squallida periferia. L’arte può aiutare a dare nuovo senso e valore alla vita, perché indica un percorso creativo di bellezza e di bontà, per sé e per gli altri, in una prospettiva di un nuovo umanesimo.
Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
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Francesca Corrao, ordinario di Lingua e Letteratura Araba, alla Luiss Guido Carli Roma, ha studiato in Italia e al Cairo la cultura del mondo arabo e islamico. Tra le sue pubblicazioni numerosi articoli in sedi internazionali e nazionali e gli approfondimenti su: La rinascita islamica (ed. Laboratorio antropologico, Università di Palermo 1985); Poeti arabi di Sicilia (Mondadori 1987, Mesogea 2001) Le storie di Giufà (Mondadori 1989, Sellerio 2002), Adonis. Ecco il mio nome (Donzelli 2010), Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea (Mondadori università 2011).
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