di Marcello Carlotti
Scrivo queste righe da sardo di ritorno e lo faccio pensando sopratutto a quanti, come me, hanno dovuto abbandonare la Sardegna per completare il loro percorso umano e professionale. Tanti di noi sono rimasti altrove; alcuni, come me, hanno potuto scegliere di tornare. Il rapporto semiufficiale recita che, a fronte di poco più di un milione e mezzo di abitanti in Sardegna, siano circa settecentomila i sardi sparsi per il mondo. In certi casi si è trattato di una scelta consapevole e calcolata. In altri, purtroppo la maggioranza, la conseguenza sofferta di necessità, determinata da cause che, considerato il potenziale e la posizione della Sardegna, sembrerebbero perlomeno illogiche: la ricerca di un lavoro e di una condizione esistenziale degna.
Da migrante e da antropologo, mi domando spesso come sia possibile che un’isola sottopopolata e con le opzionalità della Sardegna si trovi in una situazione di tale impasse, subendo i processi storici, politici e socioeconomici senza quasi mai essere in grado di giocare un ruolo da protagonista nello scacchiere mediterraneo ed europeo, di cui peraltro è pedina geostrategica fondamentale.
Tutti, ricette in tasca, dicono che la Sardegna potrebbe vivere di turismo, prodotti di eccellenza e erogazione di servizi. La maggior parte, oggi, sostiene che forse la decisione di creare delle cattedrali nel deserto (Sarroch, Portovesme, Portoscuso, Ottana, Porto Torres etc.) non sia stata poi così lungimirante; al pari della scarsa capacità nel riqualificare le aree minerarie, industriali e militari e la formazione delle maestranze e dei vari indotti.
Eppure, dati alla mano, le strategie politiche perseguite si sono finora mosse nella direzione diametralmente opposta a quella delle ricette: si è permesso ad un vettore privato di diventare il principale strumento aereo da e per arrivare nell’isola, mettendolo di fatto in condizioni di monopolio; si è consentito ad un singolo di accorpare i due principali vettori marini; le nostre università non brillano a livello internazionale per la formazione inerente al turismo, e non si ricordano memorabili interventi volti all’incentivo reale rispetto ai settori della produzione di qualità: di fatto la Sardegna importa la maggioranza del cibo che consuma e la bilancia in uscita è complessivamente insoddisfacente. Certo ci sono delle eccellenze, ma il loro essere in Sardegna rappresenta la consueta eccezione che conferma la regola.
Secondo il rapporto della Regione Autonoma della Sardegna del 2012, il totale fatturato dalle circa 160mila imprese in Sardegna ammontava a circa 30 miliardi di €, con una media procapite abbastanza bassa che si aggira intorno ai 185mila €. Il dato diviene agghiacciante se pensiamo che oltre 21 dei circa 30 miliardi di € globali sono fatturati dalle prime 100 aziende sarde e che di questi 21 miliardi quasi 15 sono fatturati dalle prime 3 aziende. Rifacendo pertanto i conti ed escludendo le prime 100 aziende, avremo che il fatturato procapite di tutte le altre 159.900 aziende in Sardegna scende vertiginosamente a poco più di 52.500 € di media. Un vero e proprio caso di nanismo imprenditoriale che rende l’idea dello sfilacciamento del tessuto imprenditoriale, della povertà media diffusa, dei limiti alla mobilità sociale e del blocco sistemico, specie se consideriamo i dati a livello globale.
Per comprendere le dimensioni e le proporzioni di cui parliamo restando però con un piede in Sardegna, basti pensare che il patrimonio personale di Alisher Usmanov, noto frequentatore della Costa Smeralda, ammonta a metà del PIL sardo, mentre la Gazprom (che Usmanov controlla indirettamente con una holding) nel 2014 ha fatturato circa 100 miliardi di €, dando impiego nel mondo a quasi 400mila persone. Il russo-uzbeko Usmanov, come noto, è solo uno dei tanti megamiliardari mondiali che passano parte del loro tempo in Sardegna, intendendo quest’isola come buen retiro estivo dove, ville personali a parte, non ha mai investito nulla.
Questo fatto dovrebbe darci da pensare: come è possibile che queste persone – che potrebbero andare dove meglio li aggrada – passino parecchie settimane all’anno in Sardegna, mentre molti di quelli che nascono e vivono in Sardegna non riescono a valorizzare la loro terra e trarne commisurati benefici? Perché gente come Usmanov, che investe ovunque nel mondo, qui si è limitata ad acquistare e donare un’ambulanza e poco più? Perché in Sardegna si assiste ad una disoccupazione che sfiora cifre da epoca bellica, e ogni anno circa 10mila nostri conterranei (parecchi dei quali plurititolati) sono costretti a migrare per cercar la fortuna che qui non arride loro? Possibile che non si riesca a far nulla di concreto e tangibile per cambiare le cose, per quanto a parole tutti dicano di volerle cambiare?
La verità è che non tutti in Sardegna stanno male, anzi, un gruppo residuale – con annessi e connessi clientelari e diramazioni nelle varie tipologie del Pubblico impiego – vive benissimo e non avrebbe alcun interesse ad un mutamento dello status quo. Basta incrociare i dati della drammatica condizione impren- ditoriale con quelli del pubblico impiego per comprendere cosa non funzioni. Cominciando dall’alto, in una delle regioni italiane più povere, i consiglieri regionali nel 2011 rappresentavano quelli più pagati d’Italia con un reddito aggregato di 11.417,00€ mensili; proseguendo verso il basso è necessario valutare come, a fronte di poco più di un milione e mezzo di abitanti, si è arrivati a contare 8 provincie e oltre 105mila dipendenti pubblici.
La risposta più tipica di un sardo al perché le cose in Sardegna non funzionino né cambino, è riassunta in due formule, ormai proverbiali, che recitano “Pocos, locos y malunidos” e “Kentuconcasa, kentuberritasa” (cento teste, cento cappelli). Ma è davvero così? Siamo davvero ontologicamente e culturalmente locos y malunidos vittime di un individualismo postcampanilista radicale e, allo stato attuale, suicida? Sono tornato in Sardegna da Israele per cercare di dimostrare che, anche se in apparenza le cose stanno così, una via alternativa potrebbe essere possibile, per quanto difficile.
Il mio rientro in Sardegna è coinciso con un posto pubblico di ricercatore a contratto presso l’Università di Cagliari. Dopo un’entusiasmante esperienza alla Tel Aviv University, al fianco di mostri sacri internazionali del calibro di Marcelo Dascal, Itamar Evan-Zohar, Hilary Putnam, scegliere di tornare a casa significava per me migrare al contrario, rientrando con il bagaglio di energie, stimoli e competenze acquisiti all’estero. Nel mio piccolo, infatti, ero fortemente motivato a dare un modesto contributo alla causa isolana. Devo ammettere, cercando di evitare polemiche sterili, che l’esperienza di ritorno presso l’ateneo cagliaritano è stata fin da subito poco confortante (erano i mesi della famosa legge 133), e ho potuto vedere e toccare con mano le cose che Nicola Gardini ha ben descritto nel suo libro I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana.
Anche qui, al netto di alcune miracolose ed eccellenti eccezioni a confermare la regola, il livello medio di preparazione ed engagement rasentava livelli imbarazzanti di approssimazione, invidia, individualismo e spregio feudale della missione pubblica che le Università pubbliche dovrebbero svolgere. Mi accorsi nelle prime settimane che molti problemi erano determinati dal mix retrogrado di nepotismo e volgare rampantismo. Il risultato era l’incapacità per i dipartimenti e le facoltà di andare oltre il banale affastellamento di concetti (spesso anacronistici) nella memoria a breve termine degli studenti concepiti come polli da batteria e non come risorse da aiutare a venir fuori dalla fase di crisalide.
Nella mia breve e singolare esperienza, l’Università che ho visto non era a mio giudizio quello spazio di ricerca e creazione culturale che, da solo, sarebbe stato in grado di insegnare ai discenti l’unica cosa che, secondo me, vale la pena trasmettere ad uno studente universitario: imparare a sforzarsi di pensare con la propria testa, ricercando costantemente l’autonomia intellettuale, al di là degli specifici campi di competenza.
Date queste premesse, ho riflettuto per qualche mese considerando che da un lato ero tornato per lavorare nell’Università e dall’altro che un simile contesto non avrebbe di certo agevolato il compimento del mio progetto, ovvero contribuire a creare reti di conoscenza, consapevolezza e valore rendendo l’antropologia culturale una disciplina applicata alla realtà culturale circostante, con l’obiettivo focalizzato sulla necessità di andare oltre l’apprendimento meccanico di nozioni vuote. Insomma, dal mio punto di vista era insensato ridurre l’antropologia al suo mero studio, finalizzato al massimo al superamento di qualche esame esotico in qualche corso di laurea ritenuto un parcheggio, o comunque più velleitario che utile.
Procedendo con ordine, il primo progetto intrapreso come ricercatore universitario, con la collaborazione di un musicista fotografo, riguardava le migrazioni e il razzismo, e prese il titolo di “Ri-tratta”. Quella bella esperienza di esplorazione e collaborazione mi servì per testare le possibilità di divulgazione dell’antropologia visuale e le sue applicazioni digitali sia con l’utilizzo delle macchine digitali capaci di filmare, sia con il ricorso al medium del blog: era il 2009.
Fatto il rodaggio, il secondo progetto entrò in media res. Ricevetti mandato per scrivere ed occuparmi di tutela e salvaguardia delle conoscenze tradizionali. Invece di dedicarmi alla stesura di un saggio generico che, con tutta probabilità, sarebbe finito in qualche scaffale a prendere polvere, pensai che sarebbe stato più interessante trovare un modo per circoscrivere il campo sconfinato delle conoscenze tradizionali, ed individuarne una applicazione specifica per la Sardegna. Nacque così il mio più grande, ambizioso e, purtroppo, fallimentare progetto: realizzare un documentario sull’artigianato mediterraneo e contribuire alla costruzione di una rete associativa reale e virtuosa fra gli artigiani sardi.
L’idea antropologica alla base del progetto era semplice ma rivoluzionaria. La Sardegna, fin dalle intuizioni di Tavolara e Badas che portarono alla istituzione dell’I.S.O.L.A., è stata terra di avanguardia per l’artigianato. Molti testi e molti documentari sono stati realizzati sul tema. Ci sono case editrici che hanno costruito il loro core business editoriale sui libri legati al mondo delle tradizioni artigianali, e documentaristi come Fiorenzo Serra che hanno realizzato ottimi lavori. Tuttavia, tanto i libri quanto i documentari erano tutti accomunati da un punto: le foto o le riprese mostravano l’artigiano lavorare, o si soffermavano sul prodotto finito, ma era sempre una voce esterna a raccontare e spiegare il senso dell’artigianato, delle tradizioni e del loro mondo. Con il lavoro Del sapere, delle mani: le voci scelsi di eliminare questa intermediazione: sarebbero stati direttamente gli artigiani a parlare di se stessi e del loro mondo, con un racconto in prima persona che avrebbe spaziato dal passato al presente, cercando di delineare un futuro.
Individuato il campo di applicazione, mi misi a cercare gli artigiani e, facendo oltre 160mila km in giro per la Sardegna, raccolsi le testimonianze di circa 60 artigiani che si prestarono ad aprirmi le porte di casa per rispondere alle mie domande. Mi colpì subito un fatto: ciascuno di loro mi raccontava più o meno le stesse cose degli altri, esprimendo identici bisogni e sostenendo che la maggior parte dei problemi avrebbero potuto essere superati facendo rete. Tuttavia, dato che nessuno di loro parlava con tutti gli altri, e ciascuno credeva di essere il solo a pensarla in quel modo, ogni intervista si concludeva con il medesimo ritornello: sai come siamo in Sardegna “Pocos, locos y malunidos”.
Alla decima intervista di seguito conclusa in quel modo, mi venne l’idea di realizzare un montaggio sommario delle interviste precedenti e così, quando l’undicesimo artigiano mi ripetè le stesse cose dei dieci precedenti, invece di andarmene in perplesso silenzio, gli feci vedere quel video, frutto delle dieci interviste precedenti. Potei cogliere sul volto di quell’artigiano una venatura di sorpresa e sospensione e nacque quel giorno un progetto collaterale: riunire tutti gli artigiani che sarei riuscito a contattare in una associazione. Dopo oltre un anno di su e giù per la Sardegna, l’impresa sembrò riuscire: 98 artigiani sardi si riunirono a Macomer e, stimolati dal documentario Del sapere, delle mani: le voci, fondarono assieme a me l’associazione culturale “Artimanos”.
Sembrava di aver scoperto l’uovo di Colombo, e invece in pochi mesi il lavoro associativo fatto nei quasi due anni precedenti saltò in aria. L’egoismo miope e carrierista di pochi riuscì, nell’acquiescenza dei molti, a minare dalle fondamenta tutti gli sforzi fatti da un piccolo nocciolo avanguardista, e il numero di associati calò vertiginosamente, riducendo drasticamente la capacità del gruppo di incidere nel proprio settore di competenza.
Ricordo ancora l’incontro fatto a Nuoro con l’allora assessore regionale che, nel corso della manifestazione organizzata da Artimanos, disse che per la prima volta parlava con una associazione e non con singoli che chiedevano favori personali disconnessi dall’interesse generale e che questo era un significativo passo avanti, tanto significativo che lui avrebbe dato alla associazione un mese di tempo per presentare una proposta specifica da convertire in legge sull’artigianato regionale. Il sottoscritto ed un noto avvocato barbaricino ci rendemmo disponibili pro bono per aiutare gli artigiani nella redazione del testo da inviare in assessorato, eppure nei trenta giorni successivi, nonostante un paio di nostre sollecitazioni, nulla pervenne né a noi, e neppure all’assessore competente perdendo il treno di quell’occasione.
Poche settimane dopo alcuni associati di Artimanos mi contattarono in privato per dirmi che avrebbero abbandonato quella che, nata come associazione culturale, si stava rivelando essere il solito teatrino sardo, dove ognuno pensa per sé, possibilmente alle spalle degli altri, con agguati 2.0, non più nascosti dietro i muretti a secco, ma trincerati dietro i profili social: eravamo tornati ancora una volta al detto spagnolo “pocos, locos y malunidos”, con l’aggiunta della variante nostrana “kentuconcasa, kentuberritasa”.
Grazie a quell’esperienza fallimentare, una volta metabolizzate le scorie, maturai la convinzione che, per perseguire il mio progetto, avrei dovuto trasformarlo in lavoro e invece di presentarmi nei luoghi e alle persone a proporre documentari finanziati dalla Regione o dall’Università, avrei dovuto presentarmi come il titolare di un’azienda che svolgeva un mestiere ben preciso e, a fronte di una remunerazione economica contrattualizzata, erogava servizi professionali di carattere antropologico.
In fondo un fallimento non è necessariamente un male in sé. Diviene un male solo se ci dimostriamo, nel tempo, incapaci di apprendere alcunché da esso. A volerci pensare bene, infatti, quando qualcosa va bene, siamo portati a reiterare i comportamenti che si sono dimostrati efficaci e diventiamo, almeno in parte, conservativi. Al contrario, quando qualcosa non funziona o addirittura fallisce, siamo indotti a diventare, almeno in parte, creativi per analizzare le nostre azioni e il loro contesto, sia per comprendere meglio quest’ultimo sia, contemporaneamente, per valutare in che modo siamo stati corresponsabili nel non raggiungimento degli obiettivi che ci eravamo prefissi. Inoltre, quando nella vita abbiamo successo in qualcosa, tutti vogliono starci vicini ed è difficile distinguere chi ha secondi fini da chi non ne ha. Quando, per qualunque ragione, ci troviamo a dover fronteggiare un rovescio, la selezione naturale è spietata ma salutare: capiamo subito su chi possiamo fare veramente affidamento.
Alla luce dell’esperienza maturata con gli artigiani, posso dire che quell’esperienza, scomposta ed analizzata in tutti i suoi aspetti, mi ha insegnato tanto sia sulla natura umana in generale, sia sulle dinamiche culturali e sociocomportamentali sarde, sia sui miei limiti relazionali e professionali, sia su chi veramente credeva in me e nel mio progetto. Se il proverbio recita meglio soli che male accompagnati, potevo considerarmi fortunato: non ero solo a continuare a credere in me stesso e nel progetto di usare l’antropologia al di là delle mura universitarie. D’altro canto, dovevo ammettere che la mia formazione era (e in parte rimane) limitata a quella di un semplice accademico, ben lungi pertanto dalla flessibilità opportunista di un commerciante o dall’eurismo scaltro di un imprenditore; e il mio carattere, duro e spigoloso fin dall’infanzia, non si è mai troppo prestato alle mediazioni o ai compromessi. In fondo, avevo sempre detto a me stesso, se si usa dire “scendere a compromessi” invece di “salire a compromessi”, è perché tutti nel fondo sanno che un compromesso, per accontentare tutti, tende a diminuire l’impatto della strategia iniziale o il valore della cosa che stiamo compromettendo.
Se un atteggiamento come questo descritto, comunemente ritenuto snob, può avere una qualche funzionalità nella costruzione di una carriera accademica, posso testimoniare sulla mia carne che è quanto di più disfunzionale per chi vuole rapportarsi in termini imprenditoriali ad altri esseri umani, specie se si ambisce a trasformare i contatti in relazioni professionali e gli interlocutori in committenti. Essendo nato e cresciuto in una famiglia medio borghese di dipendenti con la mentalità da dipendenti, si trattava per me di compiere quindi un totale cambio di pelle, modi e abitudini per riscrivere ex-novo la mia forma mentis.
Mi sono trovato dinnanzi ad un bivio: o rimanere come ero e tornarmene in Israele (dove per mia fortuna Marcelo Dascal mi avrebbe ripreso a lavorare con sé); o cercare, per quanto possibile, di imparare ad essere meno rigido e più predisposto alla mediazione. Nel primo caso, avrei dovuto ammettere il mio totale fallimento rispetto al progetto che mi aveva spinto a tornare in Sardegna, dichiarandomi incapace di apprendere dalla situazione quanto necessario per provare, perlomeno, a trovare strade e strategie alternative. Nel secondo caso, avrei dovuto dire definitivamente addio ad una carriera accademica lontano da casa, e avrei dovuto lavorare su di me senza che comunque questo lavoro mi fornisse garanzia di un qualche successo venturo.
Ovviamente, non avendo nessuna formazione imprenditoriale e possedendo una scarsa propensione al calcolo, scelsi la seconda strada. Buttai giù una prima bozza del progetto “inveritas” e cercai di coinvolgere dei colleghi dei tempi dell’università, per formare con loro una squadra di lavoro. Grazie ad alcune conoscenze, venni contattato da un grosso imprenditore che aveva da poco investito realizzando un importante vigneto e voleva lanciare i suoi vini attraverso un documentario. Avere un appuntamento con quell’imprenditore motivò tutti quelli che avevo contattato: inveritas, dicevano, era un’idea geniale. Fissai pertanto un incontro con quell’imprenditore nelle sue vigne per parlare della cosa, capire i costi, redarre un contratto e insomma fare quelle cose che generalmente fanno gli imprenditori. Tuttavia, mentre camminavamo fra un filare e l’altro come fossimo vecchi amici che parlavano del futuro della sua azienda vitivinicola, notai un particolare: le viti erano state piantate l’anno prima, quindi difficilmente il vino di cui avrei dovuto parlare realizzando il primo documentario inveritas veniva da lì. Feci notare il particolare al mio potenziale committente che si fece quattro risate e mi disse che non capiva il problema: in fondo bastava fare le riprese in un’altra vigna. Lui, se la cosa poteva aiutare, si sarebbe reso disponibile a fare da attore e partecipare alla vendemmia in camicia bianca, cesoia e mocassini. Essendo la mia prima esperienza imprenditoriale, lo devo confessare, non avevo ancora capito bene il meccanismo della mediazione e gli risposi che mi sembrava una pessima idea. Dinnanzi al suo sbigottimento, argomentai dicendogli che se voleva fare una pubblicità non avrebbe dovuto chiamare un antropologo, e che la differenza fra una pubblicità e un documentario antropologico è che la prima è un’opera di fiction che può fare chiunque abbia i soldi per pagarsela, mentre il secondo è una testimonianza scientifica che è consigliabile fare solo se si ha qualcosa di bello e valido da comunicare. Il mio discorso fu talmente convincente che il mio potenziale committente rinunciò a fare un documentario e commissionò una pubblicità. Quando comunicai agli altri il risultato di quell’incontro mi ritrovai di nuovo solo a perseguire il progetto.
Mi resi conto una volta di più che cambiare pelle è una di quelle cose più facili a dirsi che a farsi. Mentre stavo valutando l’ipotesi di abbandonare tutto per provare a riprendere la vita accademica in Nuova Zelanda, ebbi occasione di cenare con uno dei pochi amici che ho scelto di conservare fin dall’infanzia. Tra un piatto e l’altro, gli parlai dell’idea di “inveritas” e di quello che, secondo me, era il suo potenziale. Con mia grande sorpresa, quella sera me ne sono tornato a casa con un contratto: avrei realizzato per lui il primo documentario inveritas. Inoltre, dato che mi conosce e sa che mi è difficile mediare, mi diede totale carta bianca.
Iniziò così ad aprile del 2014 il primo vero rapporto lavorativo di inveritas: un documentario voluto da Alessandro Cireddu per far conoscere la realtà e i valori di Studio-A Automazione. Trovo tutt’oggi molto ironico che un progetto nato per parlare di enogastronomia, territori ed artigianato sardi, abbia potuto venire alla luce con quanto di più distante ci possa essere dalla Sardegna nell’immaginario comune: quadri elettrici ed ingegneria elettronica. Tuttavia, grazie a quel primo documentario, l’idea alla base di inveritas poté cominciare ad esprimersi: gettare le basi per cominciare a costruire reti di conoscenza e imprenditorialità locali, capaci di comunicare il territorio, la cultura e i valori reali della Sardegna nel resto del mondo.
L’entusiasmo di quel primo documentario e l’intuizione di un modo innovativo di comunicare, conoscersi e raccontarsi portarono Alessandro Cireddu a voler finanziare un secondo documentario community, regalandolo al nostro paese natale. Nacque così, nel luglio del 2014, il secondo contratto inveritas, per rac- contare in che modo Serramanna, un paese una volta florido, era entrato in crisi. A detta degli intervistati il problema di fondo era la disunione, l’individualismo e l’invidia. Di nuovo eravamo tornati al punto di partenza: Kentuconcasa, Kentuberritasa, e pocos, locos y malunidos. Sulla scorta di quelle due esperienze e di quanto emerso dalle ricerche antropologiche alla base dei due documentari, Alessandro Cireddu mi aiutò, in pieno agosto, a mettere attorno ad un tavolo sei imprese, compresa la sua. Definimmo quell’esperienza tavolo sinaptico. L’idea della synapsis mi era sempre piaciuta perché rimanda al linguaggio delle neuroscienze: sinapsi è la connessione attiva fra due o più neuroni, e senza di essa non vi sarebbe intelligenza. Pensare di poter dare, nel mio piccolo, un contributo a far nascere un tavolo “intelligente” nel paese dove sono nato e cresciuto mi sembrava ragione sufficiente per essere tornato in Sardegna e aver lottato per rimanerci.
Con la fondamentale mediazione di Alessandro Cireddu, quel tavolo partì ed iniziò un percorso in parallelo alla crescita di inveritas: ciascuno degli imprenditori realizzò un proprio documentario inveritas e contemporaneamente prendemmo la piacevole abitudine di riunirci due volte al mese per discutere di futuro e progetti. Mi venne in mente che, senza accorgercene, stavamo assistendo alla nascita di una piccola tribù postmoderna e che una delle cose che inveritas poteva fare era mettere a disposizione di un gruppo territoriale le sue competenze antropologiche per facilitare la gestazione e la nascita di una tribù capace di produrre valore dai valori. Nasceva così il Tribal Networking.
Con la consegna ad aprile del 2015 dell’ultimo documentario, reputai che il lavoro di inveritas a Serramanna poteva definirsi concluso. Comunicai quindi ai nostri sei committenti che ormai erano pronti per continuare il loro cammino con le proprie gambe e che, eventualmente, strutturato il tavolo sinaptico in una qualche forma associativa e giuridica, l’auspicio per entrambi era rincontrarsi per lavorare su progetti condivisi. Qualche mese dopo, Serramanna impresa ed inveritas hanno presentato nel Padiglione KIP di Expò 2015 l’idea sinaptica di riconnettere le imprese di un territorio a quel territorio, per produrre insieme valore reale a partire dai tanti valori culturali implicati, conoscendosi e raccontandosi in termini di verità e non di fiction.
Intanto, a febbraio del 2015 ero stato contattato attraverso Facebook da una imprenditrice romana trapiantata in Gallura. Mi chiamava perché aveva bisogno di capire come organizzare il lavoro, trovare un’idea imprenditoriale innovativa e promuoversi per raggiungere un pubblico più vasto. Vivendo, come di fatto viviamo, in un mondo interconnesso e plurimo, la Gallura continuava a patire (a 7 anni di distanza) la crisi scatenata dal crollo dei subprimes americani, e lei, che aveva visto i documentari inveritas girare su qualche bacheca, riteneva che il nostro modo di comunicare in termini di verità e, quindi, dare consulenze per creare valore dai valori, avrebbe fatto al caso suo. Le dissi che dovevo rifletterci e che ne avremmo parlato più in là.
Nonostante la palestra di Serramanna, e i saggi insegnamenti cortesemente fornitimi da Alessandro Cireddu in materia di modi e comportamento imprenditoriali, quando richiamai Simona Gay feci l’unica cosa che un imprenditore non dovrebbe mai fare: le dissi che non avrei realizzato un documentario per il suo agriturismo, perché a mio avviso non sarebbe stato efficace. Tuttavia, le dissi, se riusciva a mettere attorno ad un tavolo una decina di imprenditori del luogo, avremmo provato a ripetere il modello di Serramanna impresa, forti questa volta di quell’esperienza pregressa. Il nostro obiettivo era fare errori nuovi ed evitare di ripetere i vecchi. Dopo un paio di incontri, inveritas accettava una nuova sfida: scavare fra le storie e le esperienze di nove imprenditori con base in Gallura, per aiutarli a creare valore dai loro valori, generando contemporaneamente i presupposti per una nuova synapsis.
Il 10 giugno 2015, nasceva ufficialmente il progetto Envision Gallura. Grazie ad oltre 100 ore di girato, il 31 luglio del 2015 andava online il primo documentario che racconta, dal punto di vista degli imprenditori che la popolano e la amano, la Gallura che vorrebbero. Un territorio capace di dare ed offrire accoglienza di alta qualità tutto l’anno e non solo durante il periodo estivo. Con gli imprenditori galluresi abbiamo lavorato per far riemergere una cultura antica e contemporanea, fatta di condivisione e sinergia, nata in risposta ad un terreno aspro, granitico ma sincero. La Gallura degli stazzi e della “manialia”, capace con poco di generare tutto ciò di cui un essere umano ha bisogno. Nel raccontarla ci siamo accorti che, sì è indubbio che spiagge e mari galluresi siano bellissimi, ma limitarsi ad essi equivarrebbe a rinunciare a ciò che di veramente unico la Gallura ha da offrire: il suo cuore. Nel dicembre 2015, con il validissimo apporto informatico di Davide Batzella, Envision Gallura e i suoi custodi hanno ricevuto un esclusivo portale bottom-up, che permetterà a chiunque di scoprirla, conoscerla ed attraversarla grazie ad otto innovativi percorsi di turismo esperienziale. Il portale, semplice, lineare e social permetterà di fatto ai turisti di diventare viaggiatori e condividere con la community le loro esperienze e le loro esplorazioni.
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
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