di Lella di Marco
Appassionata di “ saperi femminili “ non accademici, inscritti nella genealogia delle donne, mi ero accinta a fare una ricerca sull’arte del Tiraz siciliano − prodotto tra dominazione araba e normanna − e verificare come l’antica arte, tra- dizionalmente affidata alle donne, fosse estesa nelle varie parti del mondo e se rientrasse ancora oggi in forme di sostentamento autonomo per comunità di donne, o se con un vero atto di “esproprio aziendale”, fosse stato assorbito dal businnes e dalle moderne industrie di moda o arredamento.
Per contestualizzare l’argomento, ho ritenuto indispensabile ricorrere alle fonti e confrontare le diverse “narrazioni”storiche, mentre per l’attualità recente e meno recente ho avuto la possibilità di ricorrere a testimonianze dirette, fonti orali fra i soggetti produttori di tappeti che conosco, provenienti da Paesi orientali, del nord Africa o dell’America latina. Per le notizie sul Tiraz, la ricerca mi ha messo di fronte alla sorpresa di riscontrare come fra gli eruditi e storici di cultura araba ci sia ancora un forte contrasto, nel ritenere la storiografia ufficiale non proprio obiettiva e come il problema fosse stato affrontato già nel 1845 dal professore Wenrich di Vienna che attinse alle fonti degli scrittori originali, includendo gli arabi Ebn Alathir, Ebn Shaldun, il principe Abulfeda, Wair, la cronaca araba Cantabrigense, gli altri bizantini, cronisti romani e medievali. Secondo lo studioso viennese numerose sono le contraddizioni tra le fonti, le notizie sono spesso mutilate e non sufficientemente chiare nella cronologia. Tanto più che si finisce col fare ricorso al maltese Giuseppe Vella il quale, come è noto, rifacendosi a falsi documenti, da lui inventati, mirava ad ingannare gli eruditi, procurando a se stesso ben 15 anni di galera.
Benchè io non abbia una profonda conoscenza in tale campo, sono convinta che notizie più fondate e riflessioni più genuine siano riscontrabili nella produzione letteraria e nei versi degli intellettuali arabi, come il poeta di Noto Ibn Hamdis che considerava la Sicilia la sua patria e dall’esilio dopo la cacciata degli arabi scrisse versi appassionati per l’Isola dove non conobbe mai disgrazie e infelicità, augurandosi di potere presto imbarcarsi sulla luna crescente per volare verso la riva della sua Sicilia (vero Paradiso).
Focalizziamoci ora sul Tiraz e il mantello di Ruggero secondo. Correva l’anno 1134 dell’era cristiana e Ruggero secondo regnava in Sicilia da quattro anni. «Una palma stilizzata, carica di frutti, è posta al centro e ai lati due superbi leoni abbattono due cammelli. L’oro del punto arazzo crea bagliori di luce, ora vivida ora cupa, sottolineando il movimento scattante dei muscoli, la potenza della lotta, la sottomissione dei vinti».
Il riferimento è al mantello del monarca, tre metri con ricami in perle che delimitano i contorni delle figure, su uno sfondo porpora e d’oro. Da mozzare il fiato la bellezza, la plasticità del progetto scenografico, realizzato con ricami, applicazioni di perle e smalti che rendono più brillanti i colori. Tale magnifico gioiello di arte tessile e ricchezza simbolica è custodito, assieme ad altri ornamenti, nella Schatzkammer della Htfburg di Vienna, nella sala che custodisce le insegne degli imperatori di Occidente. Per tutta l’ampiezza del mantello in oro è ricamata una scritta in arabo, ad opera di un oscuro artigiano, che esprime voti augurali e indica il clima di lode e di fastosità di cui era circondato il re normanno
Da allora efficienti e rinomati laboratori di Tiraz si affermarono a Palermo diventando ben presto famosi sia ad Oriente che ad Occidente. Nel IX secolo viaggiatori arabi raccontano che in Sicilia c’era un fiorente artigianato tessile di lana, seta e cotone, teso a produrre tessuti pregiati impreziositi con ricami d’oro e di perle: i Tiraz. Tale voce, sembra essere di origine persiana e indica sia la produzione dei manufatti che il luogo dove venivano realizzati. A Palermo quei laboratori durante la dominazione araba, si trovavano a la Kalesa quello che oggi è la Kalsa. Ruggero II trasferì il tutto più a monte dove sorgerà quella grande fabbrica che diventerà il Palazzo reale dei Normanni a Palermo.
I grandi maestri provenivano da Costantinopoli ed erano schiavi che Ruggero non aveva fatto liberare, preferendo che rimanessero a Palermo per insegnare e diffondere la loro arte. Sembra però che gli stessi siciliani fossero abili nell’arte del tessere, già durante la dominazione araba. Ibn Hawkal, geografo arabo che visitò Palermo, la descrisse come città popolosa, attiva, ricca di mercati e botteghe, di artigiani e banche cambiavalute, circondata da ville, giardini lussureggianti, acque cristalline. Ne apprezzò la bellezza e il raffinato modo di vivere.
Palermo era una città dove si erano stratificati culture e saperi provenienti da popoli-dominatori diversi, e le novità artistico-culturali introdotte da Ruggero per mezzo dei maestri artigiani bizantini stimolarono profondamente gli artigiani locali che arrivarono a realizzare prodotti di arte pura, ornamenti regali, che come ogni forma di arte vera era “espressione del potere dominante”.
La squadra addetta alla produzione era composta da tessitori, ricamatori bizantini, orafi, disegnatori che ravvivarono le tecniche dei laboratori siciliani, liquefacendo l’oro in fili sottilissimi per tesserlo nelle varie sete di diverso colore così da ottenere svariati effetti. Venivano anche usate filigrane, oppure erano eseguite delle sottilissime lame d’oro che servivano agli orafi per incastrarle nei tessuti, in armi, selle, gioielli. Con il filo d’oro si inserivano le perle in tessuti, cuoio, arazzi. La bellezza del prodotto finito era esito dell’abilità nell’uso del filo serico colorato nella tessitura e nell’inserto delle perle e delle gemme preziose nella trama d’oro. Le perle raccolte dentro ceste d’oro sono perforate e connesse con l’esile filo. È l’arte del disporre che completa l’opera: con eleganza, fantasia, buon gusto. Il tutto era espressione di ricchezza, immagine simbolica del lusso che la corte normanna ostentava regolarmente, con vasellame e utensili d’oro, biancheria pregiata, preziosi costumi destinati al re, alla regina, ai dignitari di corte, ambasciatori, ospiti. L’oro veniva nascosto sottoterra in giare di terracotta, storie che ricordano i mitici racconti dell’antico Perù. Nè si dimentichi che il palazzo reale era un grande laboratorio multietnico. Artigiani di varia provenienza geografica lavoravano materie diverse: alabastro, vetro argento, avorio, tufo, stucco, porfido in un caleidoscopio di popoli e culture.
Sembra strano come senza conflitti abitassero tutti a Palermo: arabi, armeni, greci, persiani, siriaci, franchi, egizi, normanni… di lingue, culture e religioni diverse. Una forma di meticciato, favorita da matrimoni misti e da una nascente componente della identità detta “sicilianità” o “sicilitudine” come in anni recenti verrà chiamata da noti intellettuali siciliani.
Lo stesso Palazzo dei Normanni svela una sorprendente stratificazione architettonica di culture e popoli attestati almeno di tredici secoli prima dell’arrivo dei Normanni. Mentre l’esterno della costruzione mostra i segni di tre secoli di storia che i Vicerè contendono con successo a Normanni e Svevi, in realtà il sito che identifica la parte più elevata della Paleapoli nasconde ancora tracce del periodo precedente il regno di Ruggero di Altavilla. Gli archeologi hanno ritrovato strutture del periodo ellenistico utilizzate con modifiche e ampliamenti in epoca punica e medievale, mentre in un vano ipogeo del palazzo sono venuti alla luce graffiti di scene navali, ancora perfettamente decifrabili, collocati con certezza tra il secondo e terzo secolo a.C.
Una documentata conferma della Sicilia, quale mosaico di culture, mirabile stratificazione di arte e saperi e nello stesso tempo ponte verso culture e terre diverse. L’isola è stata infatti luogo dell’ incontro tra popoli, e il magnifico laboratorio del Tiraz può considerarsi metafora della capacità dei siciliani di tessere relazioni diplomatiche e civili, di creare un impareggiabile modello di convivenza interetnica, conoscendo e praticando in modo esemplare l’arte di assorbire culture, stratificare saperi, continuare ad essere terra di conquista e “oggetto del desiderio di ogni potere politico”.
Palermo e la Sicilia, dentro e oltre la tradizione
I laboratori di Tiraz saranno pur finiti con l’esaurirsi del lusso dei Normanni ma in Sicilia non è cessata la lunga e illustre tradizione di tessiture e ricami. Sembra che anche in tali opere ci sia stata una naturale divisione territoriale: mentre nella zona orientale prevalentemente si ricama, nella zona occidentale si tesse al telaio.
Fili, gomitoli, matasse di lana, di cotone, di lino legano ed esprimono la vita delle donne e non solo. C’è un filo conduttore nella storia e non si può perdere il filo nella narrazione delle storie: il filo lega, intreccia, unisce. Nel triste distacco dalla famiglia, i migranti siciliani diretti alla volta dell’America, al porto in attesa che il vapore salpasse, erano ancora legati con un filo di lana alle mogli rimaste sulla banchina. Lei stringeva il gomitolo e lui teneva l’altro capo del filo, finchè la forza del movimento non lo rompeva. I fili si sarebbero ricongiunti, tale era la loro speranza e il progetto di vita. Il pezzo di filo rimasto ai due sposi, simbolicamente, indicava l’unione dell’uno all’altra.
Il filo della memoria ci unisce alla tradizione e alla storia più recente, come il fiorire delle scuole di ricamo in Sicilia durante il ventennio fascista quando scuole femminili di Arti e Mestieri o il Magistero della donna istituiti dal governo, insegnavano tessitura, cucito, modisteria, oltre a materie di economia domestica e cura dei bambini. Si puntava a educare-formare delle perfette madri di famiglia, anche se la scolarizzazione era lontana dall’essere garantita a tutte le ragazze. Sono state costoro, nel tempo, a continuare a ricamare, realizzando più di tre mila tipi di ricami, i ben noti Punti dei quali in Sicilia esistono ancora splendidi esemplari. Le ragazze acquistavano una loro identità sociale se si sposavano con la dote o corredo personale e domestico tutto ricamato a mano da loro.
A Bologna, dopo secoli di vita, è stato chiuso con il movimento di contestazione del 68, quello che veniva chiamato Il Conservatorio delle ragazze, all’interno del complesso del Baraccano. Di fatto era una istituzione deputata a “conservare” la castità delle giovinette orfane e povere, senza adulti che potessero proteggerle e difenderle. Venivano insegnate loro le arti e i mestieri femminili e così ricamavano corredi per le ricche fanciulle bolognesi promesse spose. Erano retribuite, e quei soldi guadagnati sarebbero serviti per la loro dote nel caso in cui si sarebbero sposate, evento che si verificava regolarmente, quando un ricco bolognese “voleva” come moglie una ragazza illibata, onesta, abile nella cura della famiglia e nella gestione della casa e che non lo facesse “sfigurare in società”. Anche verso la fine del secolo scorso, corsi sperimentali nella scuola hanno portato all’istituzione di scuole tecnico-professionali, rivolte alle donne. A Bologna accadde un caso che ha fatto scalpore, negli anni 70: un giovane bolognese ne chiese l’iscrizione appellandosi al dettato costituzionale. Vinse la scommessa e negli ultimi decenni è stato uno straordinario maestro nelle scuole materne.
In questo periodo di “lavoro alienato”, di spersonalizzazione, di ritmi lavorativi e salari da incubo, donne coraggiose rifacendosi alla tradizione nella loro terra stanno aprendo laboratori di tessitura e ricamo. Sta avvenendo in Sardegna, in Calabria, in Toscana, in Campania e anche in Sicilia. Ci sono in giro ancora corredi delle nonne e delle mamme, custoditi e portati con sè da donne siciliane che si sono trasferite al Nord. Io sono una di di loro. Ho i corredi e le tele ricamate e tessute dalla mia nonna materna e dalla mia mamma, con filati di lino e cotone, mentre dalle anziane donne bolognesi ho ricevuto in dono tessuti di canapa. Ci sono molti estimatori e non solo in Italia. Le amiche migranti raccontano di tali “arti femminili” nei loro paesi di provenienza. Il fascino e il sapere che esprimono questi capi di un patrimonio intimo e prezioso per affezione e per il valore in fatto di creatività e di lavoro, ci conducono a fare una riflessione sulle comuni origini dei popoli del Mediterraneo e sulla stessa dinamica delle donne di tutte le provenienze, impegnate ad affrontare le fasi critiche della vita per la sopravvivenza loro e della prole.
Mi sembra interessante sottolineare come, nonostante il sopravvento della modernità, della tecnologia e delle tecniche nuove, in Sicilia studiosi ed esponenti di istituzioni artistiche, sovrintendenza ai beni iconografici, storici ed etnoantropologici promuovono la ricerca e la conservazione museale di questo patrimonio dii manufatti tessili, probabilmente non solo come riferimento al passato ma come programma per il futuro. Intendiamo riferirci, per esempio, al Comune di Isnello sulle Madonie che ha realizzato alcuni anni addietro una mostra unica nel suo genere, per la eccezionale documentazione storica e la preziosità dei manufatti esposti: Luci e colori della festa, parati liturgici dei secoli XVII –XX e Reti d’amore ricamo e filet dei secoli XIX-XX. Un’opera straordinaria di recupero della memoria storica e di un patrimonio etnoantropologico rappresentativo di tutta l’area delle Madonie. A fronte di manufatti andati dispersi, Isnello conserva interessanti realizzazioni anche del periodo medievale e rinascimentale, soprattutto con la fondazione nel 1763 del Collegio di Maria, istituito al fine di istruire le ragazze “a leggere scrivere, nonché in ogni maniera di lavori domestici”. Naturalmente con il tempo cominciano a cambiare i motivi: ricami chiesastici su cuscini e tendine da tabernacolo, decorazioni nei tessuti a punto pittorico per arredare le cappelle private di particolari prelati, o altro come la coperta di messale commissionata da Pietro II Santacolomba, nipote del signore di Isnello, fra il 1685 ed il 1709. È proprio in tale periodo che i misticismi appaiono esasperati al punto che il signore della contea di Isnello, tale Pietro Santacolomba Detti, si fa realizzare a Palermo un pregevole paliotto tutto ricamato con coralli. Intanto, con l’evoluzione della cultura post medievale sui paramenti di broccato in oro e argento sono ricamati “agnelli fioriti”, netta espressione della cultura cristiana. Alcune stole di seta con ricami floreali e paesaggistici fanno intravedere un certo gusto francese, esito di collegamenti fra le capitali. Variegata e ampia è anche la produzione ottocentesca, da committenza borghese, eseguita presso il collegio di Maria di Collesano, centro prossimo ad Isnello: un paliotto in velluto presenta motivi geometrici in oro e argento e una dalmatica di seta si pregia di un sobrio motivo a candelabro che riprende l’ornamentazione dell’inedito parato coevo da pontificale della cattedrale di Palermo. Di rigore neoclassico si mostra il piviale di seta laminata ricamata in oro con un fermaglio in argento dorato con in evidenza il bollo di garanzia, costituito dalla testa di Cerere, con un punzone raffigurante un elefante, probabilmente di successiva produzione, probabilmente datata intorno al 1826.
Produzione decisamente “aulica” quanto elencato ma dalla chiara decifrazione politica: conclusa la dominazione dei Normanni, altri “padroni” si avvicendano in Sicilia: il clero e la sua corte con tutto il loro ostentato potere. Per fare, disfare, imporre. Sempre nella logica servi-padroni.
Narrazioni
Spaziando nell’area mediterranea fra popoli con una comune origini, il tappeto tessuto a mano al telaio, verticale o orizzontale, è una parte dell’identità della cultura materiale nazionale. Un vanto per la sapienza che esprime, l’abilità tecnica, l’inventiva. A partire da quelli persiani ritenuti i più pregiati, per continuare con i tappeti greci, armeni, turchi, caucasici, del nord Africa. Interessante anche la produzione ed il valore politico della ripresa di quella tradizione in America latina presso le donne Maya. Esemplari le cui immagini richiamano miti antichi: diversi ma uguali in tutte le culture popolari. Nella nostra memoria “le narrazioni mute” ci richiamano il mito di Penelope e Ulisse, legati da un filo che non li fa “perdere“, le tre parche che filavano tessevano e recidevano il filo. Tutto a sottolineare il valore-potere della donna che dà la vita e prende in cura. Fedele al proprio sposo stando, comunque, silenziosamente e non visibile dentro la “ storia”
Per paradosso se Penelope avesse smesso di tessere, Ulisse sarebbe ancora a Tangeri, non avendo più un obiettivo da raggiungere. Il mito ha anche la funzione di aiutarci a riflettere su come possiamo creare l’ordine, a partire dal disordine. Soprattutto quando non si hanno più punti di riferimento. Rituffarsi nei miti, potrebbe essere un’ottima terapia anche per i contemporanei, per appropriarsi della conoscenza e capire l’origine delle cose. I due sposi “cantati” da Omero ci stimolano all’analogia: le donne tessono e gli uomini navigano come sostiene Fatema Mernissi la scrittrice marocchina, che nella vita dei giovani maschi che stanno fermi, nel suo paese, vede un nuovo modo di navigare. Il loro mare è il web che attraversano anche nel deserto, esplorando mondi, persone, conoscenze, opportunità, mercati.. È poi attraverso il suq digitale che trovano nuovi acquirenti e spazio dove collocare i tappeti delle madri analfabete, le quali da anni, con la loro produzione tessile, fanno aumentare il Pil del Marocco.
Un filo resistente lega anche “tessere” a “scrivere”: testo deriva dal latino textus, cioè tessuto-trama e quindi è ovvia la concatenazione tra narrare e tessere. Sui tappeti c’è la storia del mondo nonché la storia personale delle donne, soprattutto di quelle meno abbienti, pur essendo stimato prodotto “donnesco e popolare”, non degno di essere nominato, studiato, custodito, tramandato.
Le donne, in certe realtà geografiche, con i tappeti tessevano una terza pelle: i vestiti e le pareti delle case come muri divisori, quando le case non erano in muratura. I nomadi li usano ancora oggi, come tende in aree desertiche o per coprire gli animali. In Iran , anche adesso, costa meno coprire il pavimento delle stanze con un tappeto, che piastrellarlo. Infatti, a volte prima di costruire le stanze prendono le misure del tappeto più grande che hanno, per poterlo collocare subito, soprattutto nella stanza degli ospiti..
Una anziana donna irachena in un territorio curdo, anni fa, mi ha regalato un utensile tessuto con strisce di vecchie stoffe, non più utilizzabili come indumenti, da usare come contenitore per frutta e verdura o come mangiatoia legata alla testa dei cavalli. A me ha richiamato alla memoria le famose “coffe” di paglia che, con dentro fieno o avena, in Sicilia era adoperate per dar da mangiare agli equini. L’effetto visivo di quel rettangolo piegato in due in modo da realizzare un doppio quadrato con una cordicella attaccata a due angoli opposti, suscitava una grande tenerezza. Nel rappresentare l’utilizzo estremo della materia, ssi associavano alle tinte colorate fili dorati e argentati che davano anche una certa lucentezza. Che eleganza per l’animale! Simbolo che oltre l’indigenza, forse, c’era molta attenzione nell’impiego delle fibre naturali, che senza offendere la natura avevano cura della bellezza e dello stile.
Di tappeti marocchini negli ultimi decenni se ne parla molto .Hanno un mercato fiorente, soprattutto con vendita diretta ai turisti. Anche in questo caso, sono opera delle donne in un lavoro ovviamente senza visibilità e riconoscimenti. In Tunisia negli anni scorsi ho trovato i mariti delle tessitrici che al mercato vendevano i tappeti delle mogli. Sembrerebbe un’equa distribuzione del lavoro, ma forse lascia emergere altro. In Marocco invece sembra esistano delle cooperative di donne che coltivano, filano, tingono, tessono e vendono direttamente. Forti ormai del fatto che i loro prodotti sono apprezzati e piacciono ai turisti.
L’apprezzamento infatti è arrivato grazie agli intellettuali francesi. Colonizzatori ma amanti dell’arte e delle suggestioni esotiche. Matisse, in un suo viaggio in Marocco, ne rimase talmente incantato da diventare un vero feticista collezionandone bauli interi. Vi leggeva, nelle immagini realizzate al telaio, un labirinto di messaggi annodati, di simboli sapientemente disposti, di un viaggio in una rete di informazioni, fonti di nuove e rivoluzionarie ispirazioni per la sua pittura.
Il “ linguaggio”dei tappeti ha affascinato anche Jung che riconosceva negli esseri umani la capacità di produrre simboli attraverso i sogni, quindi nei tappeti ritrovava pensieri, desideri, l’immaginario e la vita intera delle donne. Fu lo stesso Matisse a riscontrare nel tappeto un atto creativo e a ritrovare una perfetta orchestrazione di messaggi codificati, alfabeti dimenticati e simboli trascurati. Nella esecuzione di un tappeto l’artista vedeva la stessa architettura costruttiva del suo essere pittore, come un ragno che tesse la sua tela. Fu lui a contribuire, con la rivalutazione culturale del passato, a una sorta di rinascimento marocchino, al boom della società civile nel processo di democratizzazione, di quel Paese, iniziato nel 2003 .
Fili per tessere
Le fibre tessili apparse per la prima volta migliaia di anni fa non potevano che essere naturali, quando il rapporto uomo-donna-natura era in perfetta simbiosi e la possibilità di coltivare piante, capirne il potere e l’utilizzo erano già a buon punto. Fuori da ogni tecnologia. Si pensi al cotone, la pianta dell’oro bianco, dalla tradizione millenaria. Se si prende in considerazione la produzione mondiale delle fibre per creare stoffe per vestirci, si scopre che il cotone rappresenta il 51%, mentre la lana il 5% e il sintetico il 41%. È difficile quindi relegarla ad un ruolo secondario, essendo campione di grandi primati, l’unica fibra che diventa più resistente appena lavata, non produce allergie e non si carica di elettricità statica. Assorbe il sudore, lascia traspirare, si lava facilmente e asciuga in poco tempo. In Egitto la conoscono bene da millenni, è quella la zona in cui le favorevoli condizioni climatiche ne hanno consentito lo sviluppo della coltura e la selezione delle piante, per ottenere dei fiocchi bianchi morbidi, leggeri.
È quello di cotone un tessuto che procura al contatto sensazioni indimenticabili, di “coccole sulla pelle” direbbero i pubblicitari tessili. È la sensazione di freschezza, gradevolezza, di riposo rilassante che mi ha consentito di dormire al Cairo fra le lenzuola nel letto preparato dalle amiche egiziane. È il ricordo di quelle “piacevolezze” che solo a parlarne fa illuminare il volto “cleopatrico” di Hend Ahmed, egiziana, da venti anni in Italia. Quando ne parla esalta le proprietà benefiche, ne descrive i campi di coltura nelle terre d’Egitto, fa riferimento al valore simbolico, alle loro tradizioni legate a quelle strisce bianchissime e morbide, adoperate nelle fasi più importanti dell’essere umano: la vita e la morte. Ogni bambino appena nato viene avvolto dalle bende come fosse ancora nell’utero materno, lo stesso procedimento viene seguito sulle salme. Naturalmente, essendo di religione musulmana, la “cura” dei cadaveri viene divisa per genere, nel senso che esistono persone autorizzate per motivi tecnico-religiosi ad occuparsene: le donne delle salme femminili, gli uomini di quelle maschili. È un accompagnamento al viaggio nell’al di là, fatto spontaneamente. Senza alcun compenso. Dopo il bagno, l’uso di erbe profumate e l’opportuno tamponamento degli orifizi, la salma viene avvolta in tre lunghe strisce di cotone profumate di muschio, che ne alleviano l’allontanamento dalla terra e dagli umani.
Hend capisce i giochi della politica e così, facendoci vedere i pochi pezzi di cotone del corredo della sua mamma che è riuscita a portare dall’Egitto in Italia, ci dice: «continua ad esserci una grande produzione al mio paese da piante selezionate, ma la stoffa non è per noi … viene esportata negli USA che ci ri-cambiano con quella sintetica… tanto per farci dormire sulla plastica».
Della pianta del cotone si hanno le prime notizie da Erodoto in occasione del suo viaggio in India, nel 484 a.C. Sembra essere rimasto perplesso se scrive: «vi sono alberi sui quali il vello che cresce supera quello della pecora e con questo vello i nativi fanno stoffe».
Viaggiare non era facile, sicchè fino al Medioevo miti e leggende venivano animati da racconti di quei pochi che avevano potuto leggere o vedere, riferendosi ad un arbusto, alto da uno a tre metri, che cresceva nella terra dei fachiri, i cui frutti potevano contenere una pecora dal vello di insuperabile bellezza. La storia del cotone o dei cotoni (ce ne sono di tipo e colori diversi) è affascinante e piena di sorprese . Sembra che la pianta nata in India abbia fatto poi il giro del mondo, compreso il Sud America per ritornare in Oriente e attecchire in modo fortunato in Egitto.
Da reperti archeologici trovati in America del Sud, Africa e Asia si deduce che già quattromila anni fa, anche in quei Paesi si praticava l’arte del filare, torcere e tessere il cotone per ottenerne tessuti, lacci, funi e che in Occidente la sua diffusione è legata agli Arabi che la chiamarono Quton, termine arcaico per indicare la provenienza da terre conquistate, come l’India occupata dalle milizie di Alessandro il Macedone, al quale si deve la sua diffusione in Europa meridionale, Grecia e Turchia per arrivare poi in Egitto e Sicilia.
Arrivato in Sicilia, con gli Arabi, l’arbusto del cotone trovò clima e composizione del terreno ottimali, così che furono impian- tate, nel tempo, delle fabbriche di cotone. Io stessa ricordo che, negli anni cinquanta, giocavo fra le piantagioni di cotone, nelle terre di mio nonno a Trapani, località Mokarta. Incautamente, vedendo i frutti che si aprivano (le capsule segnate dalla maturazione lasciavano intravedere il cotone bianco), toglievo il morbido cotone, lo allargavo e lo facevo trascinare dal vento. Non ho mai saputo l’utilizzo di quel prodotto né capito, allora, come avvenisse la raccolta e la pulizia dai semi. So di un presidio della produzione di cotone a Gela, fiorente e moderno nella produzione, chiuso negli anni settanta. Si parla di ingerenza degli americani. Mi sono sorpresa quando, da recente, ho appreso che, negli anni cinquanta a Palermo, zona Partanna-Mondello, è stata chiusa definitivamente la fabbrica di cotone fiorente da decenni. Lo stabilimento è stato smantellato, distrutti anche telai e fusi. La fabbrica dava da lavorare a più di 300 donne. Adesso i relitti rimangono abbandonati su un terreno che nasconde una bomba ecologica: l’amianto che nessuno bonifica.
Ma la Sicilia è come l’Araba fenice, sa rinnovarsi e risorgere dalle sue ceneri. Così è probabile che ci sarà un futuro del tessile con le fibre ricavate dalle bucce di agrumi, scoperte dalle giovani biologhe ricercatrici siciliane che hanno già avviato la produzione con fibre del più prezioso e famoso frutto siciliano, in grado di rilasciare vitamine sulla pelle. Può perfino sembrare una notizia curiosa, invece potrebbe essere reale l’utilizzo del pelo di dromedario di cui esiste uno splendido allevamento in provincia di Enna.
In attesa delle scelte politiche per lo sviluppo della Sicilia, noi continuiamo a tessere fili, intrecciare relazioni, organizzare orditi e trame di donne, costruire ragnatele di saperi, perché la cultura sia patrimonio di tutti e sia specchio di questo mondo sempre più complesso e screziato. Come i tessuti di mille e diversi fili.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Riferimenti bibliografici
Aa.Vv., I saperi delle donne, ed. Martina Bologna 2008
M. Bussolati, La pianta dell’oro bianco-in Arancia Blu, n. 7-8, ed. il Manifesto 1990
A. Buttitta-F. Giallombardo, La mano di Penelope, Servizio Museografico Università di Palermo, 1986
G. Davì Isnello, Antichi Manufatti come Programma per il futuro, in “Kaléghé” n. 6, 1998
A.B. Giovine, Sulla dominazione degli arabi in Sicilia, Il Vespro Palermo 1979
F. Mernissi, Karawan dal deserto al Web, Giunti Milano 2004
F. Ramirez-C. Rolot, Tapis et Tissages du Maroc, Acer Edition Paris 1995
Y. Samama, Le tissage dans le Haut Atlas marocain, Ibis Press Unesco Paris 2000
G. Scarcella, I Normanni in Sicilia , ed Antares Palermo 2003
E. Varone (a cura), Le mani creano l’arte del ricamo, Pendragon Bologna 2003
Fonti orali
Michelina Vultaggio, da Trapani emigrata e vissuta 20 anni in Algeria ai primi del 900;
Rosa Catalanotti, diplomata in ricamo alle scuole professionali a Trapani nel 1935, ricamatrice di corredi siciliani;
Hend Ahmed, egiziana immigrata a Bologna;
Zorha Baloun, tunisina emigrata a Bologna;
Sana Kuka, palestinese;
Anjiana Saxena, indiana, esperta in tinture Bandhini;
Ahmad Namaki, iraniano esperto tappeti persiani;
Amparo Tavera, colombiana, laureata in tessitura colombiana;
Massud, iraniano, archeologo del tappeto persiano.
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’associazione Annassim.
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Molto interessante.