di Liviana Gazzetta
Ad un secolo dalla nascita, settori della società e della cultura italiane stanno avviando una riflessione sul ruolo e sul lascito etico-politico di Lidia Brisca Menapace [1]. Certo è un’impresa non facile, quella di ricostruire l’evoluzione del pensiero, la fede spirituale, l’instancabile militanza incarnata nel percorso biografico di questa protagonista, in oltre sessant’anni di attività molteplice e complessa. Anche il presente contributo tenta di mettere in luce solo alcuni degli elementi di tale percorso, all’interno di una delle fasi probabilmente più ricche della sua esperienza politica e foriero di molti, successivi sviluppi: quello in cui – dopo l’adesione al marxismo – avveniva l’incontro col femminismo.
Riteniamo che questa angolatura possa essere utile in una prospettiva non solo e non tanto di ricostruzione biografica (che fuoriesce dal nostro intento), quanto piuttosto di ricerca storica tout court, se così si può dire, cioè come contributo all’analisi di uno dei nodi meno esplorati del ‘Sessantotto’ in Italia: vale a dire il ruolo giocato dalla componente femminile della contestazione cattolica in relazione alle origini del femminismo degli anni ’70, la cosiddetta seconda ondata del movimento delle donne. Nello studio di questi temi sembra di essere davvero agli inizi. Se ancora si discute sulle categorie più opportune per leggere i fenomeni del cosiddetto ’lungo sessantotto cattolico’[2], l’inadeguatezza degli strumenti concettuali è ancora maggiore in rapporto alla dimensione femminile di quegli stessi fenomeni: nel saggio del 2010 di Alessandro Santagata ‘Una rassegna storiografica sul dissenso cattolico in Italia’ non figura alcuno studio sul cattolicesimo femminile [3], e dal 2010 ad oggi non si può dire che il panorama si sia sostanzialmente modificato.
Con ogni probabilità ciò dipende anche dalla natura stessa del nodo da indagare, cioè dalle intrinseche difficoltà e ritardi che si ebbero nel dissenso cattolico verso il femminismo, da quella forma di “spiazzamento” anche dei più avanzati discorsi riconducibili ai fermenti pre-conciliari e post-conciliari di fronte alla nascita dei gruppi femministi nei primi anni Settanta. Col femminismo il discorso della contestazione subiva un forte spostamento, proclamando la centralità del soggetto-donna e la sua possibile “liberazione”, che prevedeva anche un’impietosa analisi dell’oppressione femminile nella famiglia e nella coppia in sé: vita famigliare e vita di coppia, dei cui caratteri oppressivi la tradizione cattolica poteva considerarsi una delle (se non la) principali responsabili.
Un problema ulteriore è rappresentato dalla disponibilità delle fonti, che se risultano disperse o poco accessibili per la componente maschile del dissenso (di alcune gruppi risulta difficile stabilire anche l’esatta collocazione o durata), sono ancora più disseminate e meno reperibili per la componente femminile, che ha mantenuto un livello di informalità sicuramente più pronunciato e un minore tasso di partecipazione nei raduni nazionali delle varie sigle. Ciò nonostante, in relazione alla figura di Lidia Menapace ci pare possibile un’indagine basata, se non altro, sui suoi vari contributi a stampa (articoli in riviste del settore e suoi scritti), oltre che su alcune fonti di natura più personale, rese pubbliche grazie al volume, curato da Ileana Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento. Lettere 1968-1991, edito da Gabrielli nel 2022. In questo senso, pur non essendo ancora consultabile il suo archivio privato (donato all’Archivio UDI) [4], cercheremo di condurre l’indagine nell’arco ristretto di tempo che va dal suo distacco dalla DC alla sua prima sintesi in tema di femminismo, che coincide con la pubblicazione nel 1972 de Per un movimento politico di liberazione della donna. Questa delimitazione tematica e cronologica ci porterà ad offrire alcune ipotesi interpretative, che sottoponiamo alla verifica storiografica successiva.
Linee di una biografia resistente
Nata a Novara il 3 aprile 1924, Lidia era figlia di un geometra e di una ‘ragazza emancipata’ d’inizio Novecento, secondo la definizione che lei stessa dava della madre. Studentessa impegnata nell’Azione cattolica, aderì giovanissima alla Resistenza e diventò staffetta partigiana, assumendo il nome di battaglia di Bruna e conquistando il grado di sottotenente, ma senza mai toccare le armi; più tardi avrebbe detto di potersi definire una ‘ex’ da tante prospettive, ma non certo un’ex partigiana, perché partigiana lo sarebbe sempre stata.
Già alla fine della guerra la giovane Lidia scrisse un intervento contro l’impiego della bomba atomica sul territorio giapponese, imparando a sue spese il significato della censura democratica:
«Scrissi un articolo subito dopo il lancio della prima atomica sul Giappone, che presentai all’ufficio della censura americana a Novara (allora, come tutto il Paese, sotto l’occupazione dei vincitori della guerra). Scrivevo che l’atomica buttata sui civili di un Paese vinto e che stava trattando la resa e la pace “ci mette alla pari coi nazisti”. Fu rifiutato perché “non c’era spazio” (…)» [5].
Impegnata nella Fuci e poi iscritta alla DC, a 21 anni ottenne la laurea a pieni voti in lettere moderne all’Università Cattolica di Milano, diventando docente incaricata di lettere nei licei e lettrice di Lingua Italiana e metodologia degli studi letterari. Trasferitasi a Bolzano, nel 1964 fu, insieme a Waltraud Deeg, la prima donna eletta in Consiglio provinciale e la prima esponente femminile in giunta. Assessora democristiana per gli affari sociali e la sanità e impegnata nel Movimento femminile del partito, nel 1968 uscì dalla DC e a seguito della pubblicazione di un documento intitolato Per una scelta marxista anche l’incarico universitario non le fu più rinnovato. Nel 1969 partecipò alla creazione del quotidiano “il manifesto” e, all’inizio degli anni 70, si avvicinò al movimento Cristiani per il socialismo; al 1972 crediamo si possa datare la sua adesione al femminismo, come cercheremo di mostrare, anche se in una declinazione ancora lontana dal separatismo.
A partire da questa fase, con un impegno caratterizzato dall’assunzione degli strumenti d’analisi del marxismo, è stata presente nella politica attiva in associazioni, movimenti, coordinamenti, e anche in qualche sede istituzionale. Sempre disponibile a partecipare a dibattiti e incontri, negli anni caldi dei referendum sul divorzio e sull’interruzione di gravidanza, Lidia Menapace diviene un’esponente riconosciuta e apprezzata del movimento delle donne. Milita quindi nell’UDI, in una stagione politicamente creativa con l’innovazione radicale delle forme politiche interne, e promuove la formazione del gruppo nazionale ‘Scienza della vita quotidiana’, domiciliato al Buon Pastore occupato, allora cuore pulsante del femminismo italiano: qui avvia un’elaborazione complessiva che sarebbe stata poi raccolta nel libro Economia politica della differenza sessuale (Edizioni Felina, 1987). È lei a dare la definizione forse più suggestiva del movimento delle donne, osservando che è come un fiume carsico, che può anche sparire nelle viscere della terra, ma per riapparire poi, in luoghi e tempi imprevisti, con rinnovata forza.
Per oltre vent’anni, con raccolte di firme e petizioni, il movimento delle donne ha sostenuto la sua elezione in Parlamento, a cominciare dal tentativo fatto nel PCI all’epoca della Carta delle donne [6], nel 1988, e più tardi per la sua nomina come senatrice a vita, anche in questo caso senza successo. Fin dalla nascita, nel 1991, milita in Rifondazione comunista, di cui è stata poi senatrice – ormai ottantenne – dal 2006 al 2009, mentre continua a pubblicare scritti [7] e ad accentuare il suo impegno pacifista: suo lo slogan «Fuori la guerra dalla storia». In Canta il merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita (2015) scrive di non ricordare quando fosse iniziata la sua militanza per la pace; di certo presto, però, perché già negli incontri e nei dibattiti intorno al ’50, e poi via via in ogni occasione, sempre illustrava come fortemente innovativo l’art. 11 della Costituzione, che appunto ripudia la guerra. Terminato l’impegno parlamentare, ricordiamo che entrò nel Comitato nazionale nell’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia), e poi accettò la candidatura, nel 2018, in ‘Potere al popolo’.
Un contesto in subbuglio
Nel tematizzare la questione del rapporto tra esponenti cattoliche e femminismo dei primi anni ‘70, va subito precisato che ancora molto resta da ricostruire, come si ricordava poco sopra, non solo in ordine ai complessi processi di secolarizzazione, che investirono la popolazione femminile nel periodo che qui ci interessa, in particolare in Italia, ma anche sui più ‘semplici’ nodi relativi ai nessi, alle osmosi, ai percorsi di prossimità o, al contrario, di conflitto che si ebbero tra fenomeni della contestazione cattolica e movimento femminista.
Un solido punto di partenza può naturalmente essere costituito da ciò che sappiamo sulla stagione conciliare [8]. Il Vaticano II aveva riconosciuto il carattere provvidenziale dei mutamenti in corso nell’identità femminile: non a caso la Pacem in terris definiva l’ingresso della donna nella vita pubblica e, in generale, le nuove dinamiche storiche relative al mondo femminile, come uno dei famosi ‘segni dei tempi’, assieme alla fine del colonialismo e all’ascesa delle classi lavoratrici. Ma anche tutto il retroterra della precettistica tradizionale, e tutto il vecchio apparato degli organismi cattolici parrocchiali era stato messo in discussione in alcuni settori del mondo cattolico. Si superava progressivamente il divieto alla coeducazione, unificando i rami maschili e femminili dell’Azione cattolica; il Cif si rendeva autonomo dalla federazione con l’Azione cattolica, pur rimanendo struttura confessionale; la nozione stessa di ‘stato di perfezione’ riferita alla sola vita religiosa era formalmente morta col Concilio, mentre la santità veniva vista come una chiamata di tutti i credenti in funzione del battesimo.
In effetti per designare il ‘vento conciliare’ alcuni esponenti usavano l’espressione di svolta antropologica, ad indicare il partire dalle donne e dagli uomini nella loro concretezza umana e storica per rinnovare il messaggio della salvezza. Così nel Movimento femminile della DC le tradizionali elaborazioni sui temi che erano ritenuti di pertinenza femminile, come la famiglia e la scuola, furono aggiornate «grazie anche alla spiritualità conciliare che alimentò il percorso intellettuale di prestigiose esponenti, da Lidia Menapace a Maria Eletta Martini, da Stefania Rossi a Paola Gaiotti de Biase», osserva Tiziana Noce [9].
Tutto questo lavorio aveva, peraltro, messo in moto processi lunghi e complessi, che non potevano non suscitare effetti talora non lineari. L’ambivalenza dei percorsi aperti era, infatti, emersa nei documenti che lo stesso Concilio aveva emanato tra i suoi messaggi conclusivi (ai governanti, agli uomini di pensiero, agli artisti…): quello alle donne apparve subito come il meno innovativo, un messaggio che chiamava le donne al compito di «salvare il focolare » e al ruolo di ispiratrici che sanno dare agli uomini la forza fino al martirio» [10].
Sembra così di poter affermare che non fu tanto il Vaticano II a sollecitare una presa di coscienza e un’azione per cambiare la condizione femminile, quanto piuttosto il contesto socio-politico complessivo in cui cresceva anche la partecipazione delle cattoliche. Fu tra il 1969-1970, e cioè dopo i primi fenomeni di partecipazione delle giovani al movimento di contestazione studentesca, che si cominciarono a registrare i primi elementi di un’elaborazione critica di parte cattolica anche in relazione ai ruoli sessuali e alla famiglia. In effetti, quello delle relazioni di coppia stava emergendo come uno dei terreni più spinosi e complessi per i credenti e, soprattutto, per le credenti.
Negli anni ’60 tante coppie, nel clima della rivoluzione sessuale [11], avevano cominciato a sostituire la scelta di coscienza alle regole del Magistero in materia di sessualità, trovandone una conferma nei documenti della commissione alla quale papa Paolo VI aveva inizialmente affidato lo studio preliminare del problema, documenti pubblicati in Controle des naissances et théologie, Paupert, Paris 1967 [12]. Nel ’68, però, la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae aveva smentito l’aspettativa generale su questo terreno: l’enciclica assunse come posizioni ufficiali della Chiesa le tesi della minoranza più conservatrice, con effetti sconcertanti su tante giovani coppie.
Dall’estero giungevano notizie come la vicenda della teologa Mary Daly, autrice nel 1968 de La Chiesa e il Secondo Sesso, in seguito al quale fu licenziata dal Boston college dei gesuiti; dopo quattro mesi di proteste studentesche e una petizione firmata da 2.500 persone, il licenziamento veniva però revocato. In Italia nel 1970 si ebbe la nascita del gruppo “La donna e la Chiesa” di Milano, che ruotava intorno a figure come Roberta Fossati (gruppo che fu poi registrato dal 1975 come “Gruppo donne di Cristiani per il socialismo” [13]). Negli stessi mesi a Roma Immacolata Datti Mazzonis, scultrice e ceramista, era in contatto con un vivace gruppo francese, “Femmes et hommes dans l’Eglise”, nato in Francia e in Belgio nello stesso 1970.
Si fondava così un nucleo di collegamento tra le donne su questione femminile e questione cattolica in Italia, che aveva l’intenzione di unire Roma e Milano nella ricerca. Datti Mazzonis era in contatto con Pia Bruzzichelli e Maria Luisa Algini, poi organizzatrici di importanti convegni della Cittadella di Assisi, mentre circolavano suggestioni ed idee da teologhe straniere [14]. Nel 1972 a Milano intorno a Maria Dutto (presidente dell’Azione cattolica) nasceva il Gruppo Promozione della Donna, con il programma di non stare alla finestra di fronte alla domanda di cambiamento del femminismo. Allo stesso periodo risale anche il documento Le donne e la Chiesa, testo anonimo nel numero unico di «Donne è bello» del gruppo milanese ‘Anabasi’ -febbraio 1972-, che offriva una rilettura e una “riappropriazione” dei testi biblici in chiave antipatriarcale.
Alla metà degli anni ’60 Lidia Menapace faceva parte della corrente di Base della DC, scriveva su vari periodici della sinistra cattolica, tra cui ‘Settegiorni’ – espressione della corrente Forze Nuove dell’on. Carlo Donat Cattin – e metteva apertamente in guardia contro le interferenze del potere economico dentro il partito [15]. Rispetto alle istanze giovanili e femminili afferenti alla dimensione della soggettività e, soprattutto, della sessualità, dentro il Movimento femminile della DC Menapace rappresentava quasi l’unica voce a segnalarne l’importanza, dissentendo rispetto ad un’impostazione tutta centrata sull’immoralità dei media e sui nuovi costumi sociali [16].
Nel novembre del ’67 c’era stata l’occupazione dell’Università cattolica, dove Menapace insegnava e che lei aveva sostenuto «con molto calore» [17]. Era stata anche sospesa per quattro mesi dal Consiglio nazionale della DC per aver partecipato – senza chiedere l’autorizzazione (prevista dal regolamento) – ad «iniziative comuniste» [18], cioè a una tavola rotonda su terrorismo e Alto Adige, e una seconda sulla pace in Vietnam, insieme ad un dirigente del PCI, così come avrebbe poi perso l’incarico universitario. Maturava pertanto, progressivamente, la decisione di uscire dalla DC, dove anche il Movimento femminile le sembrava ormai inutile, ma nella convinzione che fosse necessario fare un atto palese di rottura: «Soprattutto non andarsene alla spicciolata: la DC non domanda di meglio che sostituire a uno a uno i personaggi incomodi che se ne vanno» [19], scrive a Ileana Montini il 23 febbraio del ’68.
I suoi interessi erano fortemente segnati dall’incrocio tra dissenso cattolico e marxismo. Il suo primo intervento dopo l’adesione al gruppo de ‘il manifesto’ è dedicato significativamente alla rivoluzione teologica in corso all’interno del cattolicesimo, italiano e non solo: una retrospettiva storica sul ruolo della sinistra cattolica in Italia e un tentativo di sintesi sui fermenti in atto, che ne mostra la ricchezza e la possibilità che per la prima volta essa sia un interlocutore per la sinistra rivoluzionaria [20]. Scriveva Lidia Menapace che la Chiesa, per essere uno strumento di lievitazione della società, doveva, per così dire « dissolversi nella società, nella famiglia umana e correre il suo rischio nel confronto con situazioni non protette, non privilegiate, abbandonando l’idea di un doppio del mondo fatto per i credenti» [21].
La rottura avveniva sulla spinta di una grande fascinazione verso il marxismo, definito come «il nuovo aristotelismo, la nuova filosofia del buon senso» [22], pur segnalando la necessità di liberarlo da alcuni equivoci storici sui fenomeni religiosi. Un marxismo che non significava tanto e solo adesione al PCI, quanto piuttosto guardare alla cosiddetta Nuova Sinistra:
«Il discorso sulla Nuova Sinistra persegue essenzialmente l’obiettivo di rendere non più pacifica l’identificazione di campo tra cattolicesimo italiano e DC, tra cristianità italiana e assetto neocapitalistico, tra cattolici e americani e così via. Credo che un discorso di NS non si possa fare senza il PCI: ma ciò che temo di più è l’accordo al vertice tra una certa DC e un certo PCI» [23].
Per Lidia Brisca, come per altre intellettuali cattoliche, i temi dell’emancipazione o della liberazione femminile non erano ancora determinanti nell’avvio della militanza o nell’aperta rottura; anzi, erano temi che restavano latenti, assunti innanzitutto all’interno di una prospettiva più generale di trasformazione economica, sociale e politica. Per trovare negli scritti di Menapace alcuni elementi di una riflessione sulla condizione femminile, si può forse cominciare dall’articolo Gli angeli del frigorifero [24], che in qualche modo riecheggia la più nota espressione di ‘angeli della famiglia’. Qui Menapace riflette sulla necessità di formare la coscienza femminile all’analisi dello sfruttamento in atto all’interno del sistema economico-produttivo, cioè la coscienza di appartenere al proletariato o, addirittura al Lumpenproletariat, per usare i suoi termini (derivati direttamente dai testi marxiani). Si trattava cioè di rendere coscienti le donne della loro collocazione proletaria o comunque funzionale alla società capitalistica:
«Gli ostacoli massimi allo sviluppo di tale coscienza sono la discriminazione scolastica, la funzione di ‘ammortizzatore sociale’ attribuita (…) alle donne nella vita produttiva e il modello della ‘donna angelo dell’elettrodomestico’ o ‘manager dell’azienda familiare’ che il neocapitalismo mette in circolazione attraverso la pubblicità commerciale e le riviste femminili» [25].
Era un’analisi sostanzialmente di tipo economico, come si può notare, che rimandava anche al nodo del rapporto tra struttura e sovrastruttura in chiave marxista. Il sistema capitalistico, infatti, secondo Menapace contempla al massimo due percorsi per la componente femminile: da una parte, quello della donna che transita dalla monotonia dei lavori domestici alla noia dei lavori d’ufficio o alla ripetizione dei gesti nel lavoro di fabbrica; dall’altra, quello della donna consumatrice passiva e inconsapevole. Quando le società a capitalismo avanzato producono forme di disoccupazione tecnologica, cui può risultare funzionale un modello femminile che sia motore di consumi superflui, le donne diventano angeli dell’elettrodomestico, fruitrici di prodotti richiesti dalle mode cangianti; oppure, se proletarie, una sorta di casalinghe tutto fare.
«Conoscete Francesca? No? bene, bisogna conoscerla perché è il nuovo modello femminile che la borghesia più illuminata ci propone e che per intanto comincia a mettere avanti sulle rubriche minori dei suoi grandi quotidiani; poi forse lo propaganderà con tutto l’apparato pubblicitario che domina» [26]. La redazione de ‘La Stampa’ aveva infatti introdotto, agli inizi del 1970, la nuova rubrica «Saper spendere bene», dopo una serie di lettere di protesta per l’inadeguatezza dei salari; in essa l’ipotetica casalinga Francesca mostrava come una buona donna di casa potesse farcela benissimo: col paralume fatto con le sue proprie mani e le pareti imbiancate da lei stessa, con abiti comprati alle liquidazioni e aggiustati da sé con fantasia, nei ritagli di tempo, poi coi mercati generali, quindi il lavaggio degli abiti del marito, avendo imparato a smacchiare meglio di una lavanderia specializzata…. La tesi del giornale era, cioè, che fosse possibile vivere, e anche decorosamente, con i salari dati, purché vi fosse in famiglia una casalinga capace di organizzarsi; l’importante, la «conditio sine qua non» era che non si avesse un lavoro fuori casa, lavoro dipendente o professionale che fosse. Facile riusciva, quindi, la polemica di Menapace contro tale figura, ma nell’analisi strutturalista si faceva spazio, tra le righe, anche qualche altro livello di considerazione, più legato alla dimensione soggettiva del vissuto femminile, senza peraltro incrinare la centralità del ragionamento economico:
«Veramente questa Francesca è da uccidere: insinua che le donne non debbono cercare un lavoro, che non debbono uscire di casa, che il loro compito è quello di dedicarsi a un lavoro che non ha valore di scambio e quindi non è pagato e cosi serve a far dare al marito un salario col quale egli riceve il compenso, già decurtato, della vendita della sua forza lavoro e se ne serve per far lavorare gratis un’altra persona» [27].
Come si può notare, il rifiuto del ruolo casalingo passa attraverso il filtro di categorie tipiche dell’analisi marxista della società, che tra l’altro indicano chiaramente il lavoro femminile domestico come un’attività sapientemente sfruttata perché priva di valore di scambio, pur nella sua essenzialità al funzionamento del sistema. Ciò che dal nostro punto di vista risulta più interessante è che Menapace non evita di interrogarsi sul nesso tra questo sistema e la tradizione cattolica: perché il mondo cattolico non rifiuta esplicitamente tale modello femminile, ma al contrario vi si riconosce in maniera più o meno aperta? Secondo Menapace è perché tale modello si presenta come una forma aggiornata di casalinga e viene incontro a uno stereotipo consolidato del mondo cattolico, per quanto assunto più dalla civiltà contadina che non dai testi sacri o dalla testimonianza evangelica, osserva l’autrice. Portando l’analisi più in profondità, si poteva a suo avviso affermare che
«forse la ragione per la quale il mondo cattolico non rifiuta decisamente l’immagine e la collocazione della donna funzionali al neocapitalismo è nel fatto che la chiesa ha alimentato per secoli, e ancora oggi, l’idea della funzione al massimo ‘vicaria’ della donna, non già autonoma, storicamente definita e varia quanto possono essere le persone» [28].
C’è, quindi, un’attenzione al desiderio di libertà e autonomia femminile, ma la prospettiva complessiva resta pur sempre quella del necessario legame tra tutte le forme di oppressione prodotte dal sistema neocapitalistico, compresa la lotta femminile, perché tutte le oppressioni e gli sfruttamenti sono collegati e «vanno legati anche nella lotta per liberarsene». Il principale bersaglio di questa lettura della discriminazione femminile, quindi, non è tanto il mondo cattolico – che pure ha la sua responsabilità storica in quanto subalterno all’ideologia capitalistica – quanto piuttosto il sistema economico e politico nel suo complesso. Senza contare che c’è un rischio sempre aperto nelle battaglie delle donne, ed è per Menapace quello di tradurre le proprie istanze in sole rivendicazioni di diritti civili.
La polemica contro la semplice lotta in termini di diritti civili è esplicita nel volume Per un movimento politico di liberazione della donna, che Menapace cura nel 1972, raccogliendo una serie di saggi prodotti nell’ambito del femminismo americano e francese e una serie di interventi pubblicati dal quotidiano ‘il manifesto’. L’introduzione al volume, della stessa Menapace, ricostruisce dapprima l’atteggiamento di orgoglioso rifiuto della ‘questione femminile’ da parte delle giovani studentesse, libere di scegliere i propri percorsi di lotta e di studio, e poi l’impatto con gli atteggiamenti di sufficienza patriarcale e con l’implicito disprezzo maschile nei loro confronti. In una lettera all’amica Ileana Montini, da Bolzano, il 24 marzo 1969, Lidia Menapace aveva segnalato:
«Quando vado in giro a parlare, e vado molto, trovo sempre un numero notevole di donne, anche giovani, studenti e insegnanti, ma il numero di quelle che intervengono nella discussione è ancora sempre molto limitato. Io credo che sulla donna in Italia pesino moltissimo i resti e anche le pratiche non dimenticate di esclusione sociale e di discriminazione scolastica» [29].
Si trattava ancora, però, di non separare le lotte femminili dalle battaglie più complessive e di non limitarsi alla richiesta di diritti: tale linea politica a Menapace nel 1972 sembra del tutto insufficiente, perché la condizione di oppressione femminile è solo una forma dell’alienazione che colpisce tutti, all’interno delle società capitalistiche. Come non può essere il borghese alienato a determinare la sua e l’altrui liberazione, così non possono essere le donne borghesi le artefici della liberazione femminile, perché «i meccanismi che marginalizzano e opprimono le donne in generale sono i fondamenti del sistema di sfruttamento sul quale poggiano anche i privilegi economici, culturali e sessuali (più facile accesso al divorzio, maggiore permissività in generale, maggiore facilità di accesso ai metodi anticoncezionali o all’aborto ‘sicuro’) delle borghesi» [30]. Più avanti dirà anzi che la più grande sconfitta storica della donna si è prodotta con l’avvento della borghesia.
E per favorire un progetto politico che consentisse una transizione verso una condizione femminile più libera, era necessario raccoglierne in unità tutti gli aspetti e non limitarsi ad una maggiore richiesta di diritti. Ecco perché serviva un movimento politico per la liberazione femminile, cioè un movimento che convergesse in un’organizzazione politica complessiva «nella quale, secondo una direzione proletaria, venga posta la questione della liberazione del proletariato, per sé e per tutta l’umanità, dunque la liberazione delle donne proletarie, come anticipazione e momento esemplare della liberazione piena della donna» [31]. Era questa la fase in cui Menapace era vicina all’area del movimento dei Cristiani per il socialismo [32], pur esprimendo qualche riserva, in particolare, sul termine di socialismo, a suo avviso inadeguato ad indicare l’orizzonte di una scelta antropologica per liberare ‘tutto l’uomo’ [33].
La coscienza delle asimmetrie uomo-donna all’interno dello stesso movimento rivoluzionario, però, si faceva sempre più strada, segnando il passaggio ad una maggiore radicalità nella domanda di autonomia: anche nella mozione finale sulla liberazione della donna del primo convegno nazionale dei Cristiani per il socialismo, pur in un linguaggio intriso di categorie marxiste, si affermava che le donne presenti al convegno «rivendicano il diritto a inserirsi a pieno titolo e in prima persona nella lotta rivoluzionaria (…)» [34]. Il passo successivo sarebbe stato l’uscita dalle organizzazioni politiche miste, da parte di singole esponenti, associazioni e gruppi femminili, a vantaggio di una prospettiva di rapporto privilegiato tra donne, poi definita separatista: «viene posto direttamente in contestazione tutto il sistema di potere ‘maschile’, tutta la società ‘virilistica’ e si comincia a individuare nell’uomo e nel suo predominio l’ostacolo principale a qualsiasi sviluppo futuro» [35].
Menapace si sentiva ormai vicina a questa generazione altamente scolarizzata, coinvolta nella contestazione studentesca e giovanile, che esprimeva anche il disagio della sua collocazione irrisolta, del paradosso tra nuovi livelli di istruzione e vecchi modelli di vita o stereotipi. E comprendeva la scoperta di una sostanziale incomunicabilità coi coetanei maschi, la scoperta della loro volontà di potenza come sesso: si poteva parlare ormai di dialettica uomo-donna e di conflitto tra i sessi.
Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Note
[1] Tra gli scritti più recenti ricordo, in particolare, I. Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento. Lettere 1968-1991, Gabrielli, 2022 e Lidia Menapace. Un pensiero in movimento. Scritti scelti 1959-2019, a cura di MP. Bigaran e C. Bertorelle, Alphabeta 2023.
[2] M. Margotti, Una mappa del dissenso cattolico in Italia, in La rivoluzione del Concilio. La contestazione cattolica negli anni ’60 e ‘70, a cura di S. Inaudi, M. Margotti, Studium 2017: 51.
[3] A. Santagata, Una rassegna storiografica sul dissenso cattolico in Italia, “Cristianesimo nella storia”, 31 (2010): 207-241.
[4] Cfr. https://www.archiviaabcd.it/patrimonio/archivio/
[5] https://www.collettiva.it/copertine/italia/lidia-menapace-la-partigiana-che-voleva-la-guerra-fuori-dalla-storia-wj0a27c3
[6] Su questo episodio si veda nel sito della Fondazione N. Iotti l’articolo di L. Turco, La Carta delle donne: una storia di confine (https://www.fondazionenildeiotti.it/pagina.php?id=325; ultima consultazione il 21 settembre 2024)
[7] Tra i suoi scritti più recenti ricordo, in particolare, Il papa chiede perdono. Le donne glielo accorderanno?, Milano, Il dito e la luna, 2000; Resisté. Racconti e riflessioni di una donna che ancora resiste, Milano, Il dito e la luna, 2001; Mondare il riso, in M. Lanfranco e M. G. di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti. Storie e testimonianze su nonviolenza e femminismi, Napoli, Intra moenia, 2003; Lettere dal Palazzo. Reportage semiserio di un anno da senatrice di Lidia Menapace, Genova, Erga, 2007; Una piattaforma per la pace preventiva, in La nonviolenza attiva in marcia, Firenze-Pisa, Libreria Editrice Fiorentina-Centro Gandhi Edizioni, 2007; Un anno al Senato. Lucido diario di fine legislatura, a cura di L. Martocchia, Pescara, Tracce, 2009; Io, partigiana. La mia resistenza, San Cesario di Lecce, Manni, 2014; Canta il merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita, San Cesario di Lecce, Manni, 2015.
[8] Secondo la suggestiva espressione di Paola Gaiotti de Biase, si può dire che già nei primi anni ’60 fosse in atto una sorta di secolarizzazione evangelica all’interno del mondo ecclesiale cattolico: P. Gaiotti de Biase, Vissuto religioso e secolarizzazione. Le donne nella ‘rivoluzione più lunga’, Roma 2006: 117-133.
[9] T. Noce, Donne di fede. Le democristiane nella secolarizzazione italiana, ETS, 2014: 185.
[10] «Voi donne avete sempre la missione di salvare il focolare, l’amore delle fonti della vita, il senso delle culle. Voi siete presenti al mistero della vita che comincia. Voi siete le consolatrici al momento della morte”: https://www.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1965/documents/hf_pvi_spe_19651208_epilogo-conciliodonne.html#:~:text=Voi%20donne%20avete%20sempre%20in,tecnica%20rischia%20di%20.
[11] Com’è noto, il termine -in voga in quegli anni- risale propriamente ad un testo di Wilhelm Reich, pubblicato in prima edizione nel 1936.
[12] E’ utile anche rammentare l’affermarsi di una nuova visione del matrimonio specialmente nei gruppi di spiritualità coniugale, sorti dapprima in Belgio e Francia fra il 1940 e il 1960: P. De Locht, La spiritualità coniugale tra il 1930 e il 1960, «Concilium», 10, 1974 (sez. Morale, dal titolo La sessualità nel cattolicesimo contemporaneo): 47-64.
[13] Vedi Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, a cura di A. R. Calabrò, L. Grasso, Milano, Franco Angeli, 1985: 446-447 e 450-451.
[14] Cfr. Aa. Vv., Crisi dell’antifemminismo. Il declino delle motivazioni bibliche, teologiche e psicologiche che hanno determinato l’esclusione della donna dalla vita sociale, Milano, Mondadori, 1973. M. Daly, Beyond God the Father. Toward a philosophy of women’s liberation, Boston, Beacon Press, 1973.
[15] T. Noce, Donne di fede. Le democristiane nella secolarizzazione italiana, ETS, 2014: 154.
[16] Si veda, ad esempio, la discussione alla riunione del 27 giugno 1965 del Comitato nazionale del Movimento femminile DC, cui fa si cenno in T. Noce, Donne di fede: 194.
[17] Menapace dice anzi che sta preparando assieme agli studenti i nuovi progetti di insegnamento: I. Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento. Lettere 1968-1991, Lettera data Bolzano, 23 febbraio 1968: 38.
[18] T. Noce, Donne di fede: 155.
[19] I. Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento. Lettere 1968-1991, Lettera data Bolzano, 23 febbraio 1968: 36.
[20] L. Menapace, La rivoluzione teologica ‘Il manifesto’, a. I, nn. 2-3, luglio-agosto 1969
[21] I. Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento. Lettere: 43.
[22] Ivi: 46
[23] Ivi, Lettera data Bolzano, 15 luglio 1968: 22.
[24] L. Menapace, Gli angeli del frigorifero, “Settegiorni”, II, n. 80, 22 dicembre 1968.
[25] Ivi
[26] L. Menapace, La casalinga tutta d’oro, “Settegiorni”, 17 maggio 1970, n. 153
[27] ivi
[28] L. Menapace, Gli angeli del frigorifero.
[29] Montini, Lidia Menapace, donna del cambiamento: 59
[30] L. Menapace, Introduzione in Ead., (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna. Saggi e documenti, Bertani 1972: 15.
[31] Ivi: 22.
[32] Su questo movimento si legga la recente sintesi di L. Kocci, Cristiani per il socialismo. 1973-1984. Un movimento tra fede e politica, Il Pozzo di Giacobbe, 2023.
[33] Convegno nazionale Bologna, Cristiani per il socialismo. II, Milano-Roma, Sapere edizioni, 1974: 241-245.
[34] Convegno nazionale Bologna, Cristiani per il socialismo: 482.
[35] L. Menapace, Introduzione in Per un movimento politico di liberazione della donna: 13.
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Liviana Gazzetta, Dottore di ricerca in storia sociale europea presso l’Università Cà Foscari di Venezia, è docente nelle scuole secondarie superiori. Socia della Società italiana delle storiche, studia la storia dei movimenti femminili in età contemporanea, anche di matrice religiosa; tra le sue ultime pubblicazioni i saggi Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma 2018 e Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra ‘800 e ‘900, Roma 2020. A Padova è direttrice della delegazione locale dell’Istituto per la storia del Risorgimento.
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