Anno 2011: un vento scomposto ossigenava gli asfittici Paesi posti sull’altra sponda del Mediterraneo, attoniti i nostri sguardi sono stati catalizzati dagli schermi di televisione e computer, immobili abbiamo osservato uomini e donne spostarsi da remote e dimenticate periferie, li abbiamo visti occupare la città, marciare, assediare piazze, testuggine compatta contro il regime dittatoriale, in rivolta contro la disoccupazione, in nome della libertà e della dignità, in difesa dei propri sogni, del riconoscimento di diritti sociali e civili, uniti nella speranza di un futuro possibile. Tunisi, meta tra le più agognate del Mediterraneo, insospettabile e “moderna” città del mondo arabo, diviene teatro di tensioni e scioperi, proteste e sommosse.
Di fronte all’eccezionalità di tali eventi, le scienze sociali e l’antropologia si mobilitarono per comprenderne le cause: ascrivibili certamente a processi di lunga durata, le rivoluzioni arabe sono frutto di un processo simultaneo di maturazione culturale e sociale, processi che hanno seguito sentieri differenti per incontrarsi in un preciso momento storico. E in tale crocevia: «[...] nella loro indipendenza da ogni ideologia o riferimento religioso, nel non richiamarsi ad alcuna dottrina o alcun programma politico, nel non affidarsi ad alcuna figura carismatica o ad alcun leader, [...] hanno rappresentato, sotto questo aspetto, una modalità inedita di fare la Storia, a dispetto di una certa idea di fine della Storia» (D’Agostino, Kilani, 2011: 5). Una modalità inedita di fare storia scritta da una Resistenza che se non è alimentata da alcun programma politico o sostentata da alcuna ideologia è caratterizzata dal ricorso a nuove forme di mobilitazione, coesa nel costruire nuove forme di socialità, consapevole delle differenze degli attori sociali e degli attivisti impegnati nell’edificare una società poggiata su fondamenta di dignità, libertà, giustizia (cfr. Kilani, 2014):
«[...] la vera e propria posta in gioco della rivoluzione si andava a collocare, sin dall’inizio, intorno alla gestione della vita quotidiana per costruire il modello futuro della società tunisina» (D’Agostino, Kilani, 2013: 5).
Quattro anni sono trascorsi ed oggi, come allora, gli scrittori della letteratura araba contemporanea continuano a setacciare e scrutinare gli eventi: guariti dall’afasia contratta da una censura che esercitava un completo controllo sociale, i figli della rivoluzione hanno non solo rinvigorito il canone letterario svecchiando topoi esauriti nella ripetizione di se stessi (cfr. C. D’Afflitto I, 2011:7), ma – sedimentate le sensazioni, stemperati i sentimenti, lontani dall’urgenza del momento, avendo convertito il caos in cosmos – proseguono nell’impegno morale che li ha visti attivi sin da subito, dispiegando nuovi orizzonti di senso e comprensione e confermando il ruolo indispensabile che la letteratura riveste per le scienze sociali. In questa traiettoria Azza Filali offre una potente lente d’ingrandimento alle analisi scientifiche: Ouatann, ombre sul mare (2015, Fazi editore, trad.it. di M. Ferrara) già vincitore dell’importante premio letterario Comar d’Or per la narrativa tunisina. Nata nel 1952, autrice di diversi romanzi editi in lingua francese, ma anche di saggi e racconti, Azza Filali è professore di Gastroentorologia presso l’ospedale La Rabta a Tunisi e ha conseguito un master in Filosofia presso l’Università Paris I.
Entriamo nella storia del libro. Michkat Ben Younes ha quarantadue anni, avvocato senza passione, le manca «la faccia tosta necessaria per sopravvivere in questo paese», troppo onesta e troppo diversa per adeguarsi ad un sistema corrotto, dopo l’ennesimo alterco con il proprio capo deciderà di lasciare il lavoro e dare un significato ad un percorso che stenta a prendere forma. Rached, impiegato comune insoddisfatto, una moglie trincerata dietro un velo e due figlie, «percorreva la sua vita senza commenti», uomo d’azione più che di pensiero, «di se stesso, conosceva solo la barba» ma l’incontro con Faiza, giovane dottoranda incrociata per caso, e con Monsour, vecchio compagno di scuola, daranno una sferzata inaspettata al suo destino. Seguendo i due distinti filoni narrativi arriveremo in un villaggio poco lontano da Biserta, passeremo davanti a un caffè dove giovani in attesa del nulla consumano le proprie esistenze, osserveremo un mare gravido di tempesta, e giungeremo, attraverso sentieri dissestati, ad una villa adagiata su un promontorio, luogo di congiunzione tra cielo e terra, « […] porto dove approdano viaggiatori venuti da nessuna parte, in attesa del giorno», posto dove si incrociano e si intersecano, si disfano e s’inverano illusioni e destini. Qui incontremo Naceur, affascinante oratore dal passato di galeotto, vorace lettore di Camus: queste le carte di un gioco di cui non è dato sapere le regole. Ouatann, ombre sul mare è un noir dall’atmosfera onirica, dai risvolti imprevisti, abitato da fantasmi e fuochi fatui, da speranze disattese e cocenti disillusioni, storia risolta in un intreccio perfetto grazie ad una scrittura simbiotica frutto di una calibrata compenetrazione tra realtà e sogno.
Ma ad incrementare il valore del libro, oltre la caratterizzazione dei singoli personaggi e l’accattivante vicenda che li coinvolge, è lo sfondo su cui essi si muovono, i sussurri delle comparse, i silenzi, gli interstizi frapposti tra le parole, i fatti accessori e trasversarli. Ad ergersi, pagina dopo pagina, è il background sociale con la pluralità delle relazioni interpersonali, la complessità delle interazioni uomo-società, e con esse Tunisi, splendido fondale, la grande tela che raggiunge consistenza prima ancora della presentazione dei personaggi stessi. Tunisi, tiranna crudele e regina dalla dimenticata bellezza, con il suo carico di storia, appesantita dal fardello coloniale, dall’occupazione francese, avvizzita nelle promesse di democrazia e secolarizzazione di Habib Bourghiba, delusa dal regime tirannico e repressivo di Zine El-Abidine Ben Ali, da un sistema politico inadeguato e sordo ai bisogni del popolo. Città insoddisfatta per la mancanza di libertà di espressione, intrappolata nella vischiosa rete del clientelismo e dei favoritismi, meretrice corrotta dimentica della propria Memoria, si svende in una finta modernizzazione:
«Poi è arrivato il denaro con i suoi decisionisti e i suoi mafiosi; ponti e grattacieli hanno piantato in terra i loro artigli di calcestruzzo e di acciaio. L’uno dopo l’altro, i quartieri hanno raggiunto il clan dell’affarismo e Tunisi è cresciuta senza ritegno, riempiendo i suoi vuoti, innalzando le sue gobbe, vendendo la sua anima ai quattro venti. Oggi, la città si distende davanti al mare…Rettile difforme, prende il sole attraverso la paccottiglia delle sue facciate. I quartieri antichi, confinati nel patrimonio della memoria, sono invecchiati in silenzio: i più avveduti si sono trasformati in “siti-cataloghi”, destinati ai turisti…Naufragio da cartolina! […] Questa città è diventata ricca, troppo ricca, adesso vive dalla parte del lago, viaggia in bolide e dorme in centri residenziali ben sorvegliati! [...] Tunisi muore per i suoi contrari, le strade non hanno più niente da dirsi…[...]».
Tra le pagine Tunisi langue non solo urbanisticamente: città fratturata e divisa tra nuove forme di indipendenza culturale e codici tradizionali, tra vecchi valori religiosi e nuove laicità, asimmetrica nei rapporti tra centro e periferia, dominata dalla corruzione e dal crimine è contesto che aliena gli individui, ne mina alla base l’assunto di socialità, ne intorbidisce la coscienza sociale. Afferma la scrittrice in una intervista: «Ouatann esprime il malessere da cui è nata la rivoluzione del 2011, malessere sociale e malessere individuale […] In Tunisia c’era un’atmosfera tesa, la gente non si parlava, dominava il sospetto reciproco. Percepivo questa atmosfera senza prospettiva e senza punti di riferimento, in cui la speranza di cambiamento coesisteva con l’impossibilità di sfuggire al proprio destino. Da lì è nato il romanzo» (Gambaro, 2015). Libro che si presenta come una attenta e profonda ricognizione del contesto sociale e, al contempo, delicato tentativo di rappresentare, di indagare e sviluppare il vissuto emozionale di chi ha dato origine alla rivoluzione, i turbamenti dell’animo umano discesi da un sistema che nega ogni possibilità di sviluppo. Prosegue la scrittrice: « […] Nel vissuto da cui è nato questo libro c’erano molte traiettorie spezzate, molta disperazione e sgomento, ma anche molta speranza e molte attese. Ma, più che gli avvenimenti, mi interessavano gli individui, la loro sensibilità, le loro scelte» (Ibidem). Proposito mantenuto dalla scelta del titolo; occorre infatti chiarire che Ouatann o watan è lessema della lingua araba, parola polisemica che rinvia a significanti diversi apparentati da un medesimo campo semantico: ouatann è casa, patria, Paese, sistema di valori e tradizioni condivise e nell’interpretazione dell’autrice accezione da estendersi «anche all’interiorità delle persone, quello spazio profondo che c’è tra qualcuno e se stesso, una parte del suo animo. È un termine davvero complesso, molto ricco di significati, essenzialmente irrazionali» (Boria, 2015).
L’ouatann è un modo di relazionarsi al mondo, è parte del Sé e in quanto tale è capacità di avere coscienza e conoscenza dei propri comportamenti, dell’intenzionalità delle proprie azioni. Contatto che collega il mondo soggettivo alla società, è ciò che consente agli uomini di configurarsi come individui singoli e simultaneamente è ciò che lega gli individui, collante che definisce e traccia i contorni dell’identità collettiva, di pensarsi a rappresentarsi come Noi, l’ouatann è memoria collettiva, deposito in cui dimora quel sentimento atavico che è l’appartenenza. Ma l’outann del libro è solo una parola svuotata di senso, da mandare a memoria meccanicamente e ripetere durante una lezione di educazione civica, non esiste, è assente: «Sei di qui e appartieni al nulla» sentenzia uno dei personaggi. Ricordando come la memoria collettiva sia costrutto sociale, come essa si configuri e si incrementi in ragione dell’esistenza di un gruppo che ne è garante, appare evidente come in un contesto sociale altamente frammentato, come quello descritto dalla Filali, la memoria collettiva, l’ouatann, possa solo indirizzarsi verso una graduale e progressiva perdita delle proprie rappresentazioni, un alzheimer che attacca le relazioni simboliche, spezza il legame di appartenenza, corrode il significato che gli uomini attribuiscono alla loro esistenza in quanto membri di una società.
Disgregata la dimensione collettiva, eliminando l’aggettivo sociale, ciò che resta è il singolo, l’animale, con i propri impulsi, il bisogno primario di sopravvivere e affermarsi a discapito degli altri, l’etica dell’ homo homini lupus. Il romanzo della Filali è la narrazione di tale degenerazione, la descrizione del processo di senescenza di un popolo, della perdita di memoria e del conseguente senso di appartenenza attraverso lo svuotamento di valori morali e culturali condivisi, è la rappresentazione della cesura tra i singoli e il sistema sociale di riferimento, di una frattura generazionale, dell’oblio che interrompe la continuità tra passato e futuro precludendo la possibilità di un riconoscimento, di un rispecchiamento, di una qualche possibile comunicazione.
Nell’assenza della dimensione societaria, privi di coordinate e traiettorie, ogni personaggio è prodotto di tale processo degenerativo: Naceur, l’ingegnere ex galeotto non è in grado di spiegare i motivi per cui ha adulterato il calcestruzzo, di fronte a Michkat non trova le ragioni per giustificare le sue azioni e, massaggiandosi la fronte, mormora: «Ancora oggi, non trovo niente da dire. Attorno a me, tutti imbrogliavano, era diventata un’arte di vivere…», un automatismo, habitus, schema comportamentale interiorizzato ed esteriorizzato, adattamento ad un sistema sociale perverso, che appiattisce i valori, devia la condotta morale in favore dell’individualismo:
«Un giorno, una constatazione s’impose alla mia mente: in trent’anni, qualcosa di essenziale era scomparso, come dirti, una sorta di credito di ammirazione, trasmesso da una generazione all’altra. Appartengo a una generazione che non ha ricevuto niente; a vent’anni, mi piacevano tante cose, ma non ammiravo niente e non ero l’unico. […] Sì, credo che sia così, le grandi cause erano svanite, ci rimanevano le piccole: occuparsi della propria vita, arricchirsi, garantire il futuro dei figli».
Valori individualisti sono quelli di Rached, personaggio che manifesta indicative difficoltà relazionali e affettive, probabilmente affetto da disturbo narcisistico, disperso in un «baratro di solitudine» e privo di un elemento basilare nella gestione dei rapporti con l’altro: l’empatia. Come Naceur, anche lui entrerà a far parte del giro malavitoso, un epilogo che sembra reiterare il messaggio dell’impossibilità della salvezza nella Patria del nulla, luogo in cui le uniche strategie di esistenza e di resistenza, per chi resta, sono quelle della prevaricazione e dell’egoismo più gretto, della truffa, della frode, dell’inganno, della menzogna. Come per Abderrazak, il figlio minore del custode, ventotto anni, che si ingegna smerciando droghe fino a quando annuncia ai due uomini con un volto raggiante di aver trovato un lavoro, un lavoro vero: lo scafista. «Le onde filano verso l’Italia, è sufficiente seguirle!».
Bloccati in uno spaziotempo insignificante, privi di una dimensione esistenziale entro cui embricarsi, defraudati da un sistema autarchico in cui lavoro, beni e servizi circolano solo tra una cerchia ristretta, i giovani non hanno scelta, sono esseri deumanizzati che:
«[...] fanno paura, perchè sono deformi: a furia di scrutare l’orizzonte, il collo gli si è allungato di alcuni centimetri, mentre la faccia, battuta dai venti, è piena di rughe; sono vecchi prima di aver cominciato a vivere. Del resto, non sanno come vivere! Sono stati respinti da tutti i consolati della terra: per l’Europa, non hanno diplomi, per il Canada, non hanno soldi…Neanche il mare vuole saperne di loro, li inghiotte o li riporta indietro [...]».
Giovani laureati che si scontrano con un mercato locale che offre solo lavoro a bassa qualificazione e nell’apatia sociale, seduti ad un caffè, dimentichi dell’idea di patria e di se stessi, accarezzano il desiderio di partire, andare lontano, perché la vita aspetta altrove, ma l’emigrazione, come in un circolo vizioso, lungi dall’essere la soluzione, spalanca le crepe, dissecca un terreno già eroso, è unica strategia di sopravvivenza che semina sterilità.
Chi emigra depaupera il Paese, disgrega famiglie, debilita la comunità, tradisce ed immiserisce i valori: questa sembra essere la lezione della Filali, una lezione che Michkat, protagonista e voce narrante, impara con il trasferimento del fratello e confermerà con la decisione di non tradire la propria patria quando le si offrirà l’occasione. Michkat manifesta il proprio disappunto attraverso atteggiamenti ostici e difensivi, non accetta il presente e, persa su quel viale di ricordi che assiduamente ripercorre, sembra voler ricomporre l’unità familiare perduta. Nella riattualizzazione del ricordo, il tentativo di ricomposizione non si limita alla sola famiglia ma è esteso all’intera città di Tunisi con la Medina, la Goulette, i quartieri storici. A guardar bene, nella casa affacciata sul mare a cui convergono le storie dei diversi personaggi abitano il presente, il passato e il futuro dell’intero Paese. «Una casa è come una donna: se uno smette di curarla, ecco che sfiorisce». Dietro i pensieri che attraversano Michkat leggiamo la volontà dell’autrice di reinventare Tunisi, di rivestirla di un nuovo significato e affidarle un nuovo senso, di calcificare i pezzi di questa società fratturata, desiderio deducibile dai toni nostalgici con cui si attarda a rievocarla, espliciti segni del forte legame emozionale tra la Filali e la città.
Tale interpretazione trova conferma se trasferiamo l’analisi dal piano prettamente testuale a quello onomastico e simbolico, a partire dalla scelta del nome della protagonista: Mickhat è un nome simbolico che richiama l’apertura della sura An-Nûr, «una sura che abbiamo rivelato e imposto e per mezzo della quale abbiamo fatto scendere segni inequivocabili, perchè possiate comprendere» (sura XXIV, v. 1). La comprensione passa attraverso un dettato di ammonimenti sulla giusta condotta sociale, sequela di prescrizioni che regolano le relazioni interpersonali e impongono l’etica da seguire per tutelare la società: la sura viene nominata “della luce” perchè preposta ad illuminarla, una luce che «è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un’astro brillante» (sura XXIV, v. 35), chiara allussione all’animo umano, la luce deve originarsi dall’interno per riverberarsi all’esterno: Michkat con il diniego alla partenza, il comportamento retto, il suo essere diversa ed estranea, l’odio verso il sistema corrotto che la circonda sembra incarnare la giusta via da seguire: è luce, e la sua presenza rischiara il cammino di Naceur diventando esso stesso luce, Nouri.
«Quando l’onore ritorna, il paese sorge nell’animo degli uomini», l’edificazione del Paese è realizzabile tramite la riscoperta di valori semplici ma essenziali: quelli del rispetto, del riconoscimento dell’altrui dignità, e della pazienza. «Non si parla molto della pazienza delle lampade…», dice Michkat, un invito alla pazienza come esortazione fidente per quei giovani tunisini impegnati a ristrutturare il proprio Paese, come si fa con la propria casa che è madre e patria. Da qui l’appello a restare nella propria terra utilizzando quel cemento ovvero quel sentimento che è l’appartenenza.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
Riferimenti bibliografici
Boria A., La scrittrice Azza Filali «alla mia Tunisia hanno rubato i sogni», 6 settembre 2015, http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2015/09/06/news/la-scrittrice-azza-filali-alla-mia-tunisia-hanno-rubato-i-sogni-1.12050480
C. D’Afflitto I., Editoriale-La Primavera della letteratura araba, in “Arablit”, I, 2011: 5-8, rivista consultabile al sito www.arablit.it/
D’Agostino G. Kilani M., Presentazione, in “Archivio Antropologico Mediterraneo on-line”, anno XII/XIII (2011), n. 13: 5-7, consultabile al sito: www.archivioantropologicomediterraneo.it/
D’Agostino G., Kilani M., Tunisia due anni dopo, in “Archivio antropologico Mediterraneo on-line”, anno XVI (2013), n. 15: 5, consultabile al sito: www.archivioantropologicomediterraneo.it/
Gambaro F., Azza Filali: “Ecco l’orgoglio e il pregiudizio della Tunisia”, in “Repubblica”, 24 settembre 2015, http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/24/news azza_filali_ecco_l_orgoglio_e_il_pregiudizio_della_tunisia_-123593495/
Kilani M., Quaderni di una rivoluzione. Il caso tunisino e l’emancipazione nel mondo contemporaneo, Elèuthera, Milano, 2014.
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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.
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Pregevole testo. Dopo dodici anni di Tunisia , arrivato giusto in Sicilia da un anno, noto che mancano diversi elementi ad una analisi che non porta alla spiegazione di una situazione attuale stretta fra la catastrofe economica e quella dell’integralismo che, ogni giorno, giorno dopo giorno, viene affrontato in combattimenti lontani dei mezzi di comunicazione europei ed italiani..