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Dalla palla al rito: il calcio come religione (im)perfetta

pionieri-calcio-disegnodi Nicolò Atzori 

«Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio» (Eduardo Galeano). 

«Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio» (Jorge Luis Borges). 

Le sfide di un’ermeneutica del calcio 

Mi sono chiesto più volte cosa potrebbe aggiungere un contributo sul calcio, per quanto denso e articolato, allo scibile in materia. Cosa mai potrebbe dirsi di più di un fatto sociale totale interiorizzatosi in plurimi modi e innumerevoli livelli di comprensione, da oltre un secolo [1], nella nostra coscienza collettiva? Ma se la complessa generalità del calcio sembra inquietare lo specialista, mi sovviene che un senso comune sia possibile proprio a partire dai vissuti personali e individuali – sue unità costitutive minime e valide insieme – la cui raccolta, anche indiretta o involontaria, rappresenta un passo conoscitivo ulteriore in cui altre geografie, altre storie, altre antropologie possono tracciarsi.

9788810962121Indiscutibilmente, infatti, il calcio informa la grammatica dell’esistenza di laici e osservanti, situandosi al confine tra dimensione ludico-ricreativa ed esperienza [2] religiosa, per come “noi moderni” pensiamo i paesaggi simbolici del sovrasensibile. Fra coloro che, per primi e con intuitiva chiarezza, hanno tentato una lettura complessiva del fenomeno calcistico c’è Marc Augé (1935-2023), in ricordo del quale si posiziona chi scrive. In Football. Il calcio come fenomeno religioso (2016) [3], l’antropologo francese illustra le ragioni della posizione espressa nel titolo, ponendo un problema enorme, di certa rottura rispetto ad una tradizione di studi capace sicuramente di lambire la questione ma limitandosi ad annotare i caratteri dell’estetica emozionale e figurativa dei momenti del calcio. Egli, attingendo ai linguaggi dell’antropologia ma dimostrando di sapersi districare agevolmente fra gli statuti di diversi orientamenti disciplinari, ne propone una scomposizione in fattori, variabili o caratteri all’interno e in funzione dei quali possiamo pensare – e farlo religiosamente – lo sport più praticato al mondo.

Mondo che, se nell’immagine di villaggio globale [4], compresso nello spazio e nel tempo [5], parrebbe consentire agli addetti ai lavori delle scienze umane di formulare più puntuali e ampie visioni della realtà, ne risulta invece fonte di smarrimento e incapacità analitica, complice la stessa dimensione del fenomeno calcistico, uno «dei grandi rituali moderni» (ivi: 6). Questa ritrosia dello specialismo umanistico è da Augé attribuita al fatto che «chi sarebbe in grado di osservarli e analizzarli ne è troppo vicino» (ibid.); come, d’altra parte, sottolinea con più precisione Fabio Dei, secondo cui questa prossimità «rende assai difficile assumere il calcio come oggetto di descrizione etnografica, rapportandosi ad esso con un atteggiamento al tempo stesso abbastanza partecipante ma anche abbastanza distanziante e metalinguistico» [6]. Una sufficienza che – chiosa – ca un lato ha condotto ad una robusta attenzione verso la ricostruzione storica (anche a marcata componente emotiva) del fenomeno, e dall’altro – come osservato più sopra – verso il versante delle «“critiche” marxiste o marcusiane del calcio come oppio dei popoli, o come strumento di gestione repressiva del corpo da parte della società borghese» (ibid.); brutalizzando, più che come fenomeno autonomo e organicamente peculiare, il calcio è stato approcciato come «deposito di problematiche di altra natura», all’interno del quale troviamo, sul lato sociologico, le tensioni sociali irrisolte, le forme di violenza interne agli stessi stadi, la devianza giovanile, ecc..

Nella direzione delle considerazioni di Augé e Dei, aggiungo che tanti dei contributi finora prodotti, complementari rispetto alla profondità del fatto culturale, sembrano dettati più da una sorta di malriposto senso del dovere innescato dalla “improvvisa” epifania del calcio come fenomeno appetibile scientificamente piuttosto che da intenzioni conoscitive volte a restituire un’immagine urgente di un fatto globale. Temi che, ancorché spinosi, sembrano incarnare, volta per volta, uno “spirito del tempo” che emerge, in primo luogo, nell’enfasi mediatica rispetto alla cui produzione risulta decisivo il più o meno volontario sforzo dei canali di comunicazione. La tendenza alla auto-rappresentazione discorsiva che il calcio fornisce di sé stesso, insomma, propenderebbe generalmente verso un “modello Gazzetta dello Sport”, già esecrato da Dei e individuato da Augé nella necessità, per la sociologia dello sport, di “sfuggire” a L’Équipe.

A dispetto della tendenza antropologica alla “culturalizzazione” rigorosa dei fatti umani, così esecrati ed esorcizzati nel ritorno emotivo cui si attribuisce, forse inconsciamente, una lucidità compromessa, alcuni di essi sembrano sfuggire alla comprensione analitica dello scienziato, travolto al pari del profano dall’emotività che il calcio serba. L’homo ludens è nudo e democratico. Unitamente a questo, l’ambiguità del calcio in quanto presunta esperienza totalizzante e scientificamente apprezzabile risiede, probabilmente, nel mastodontico sbilanciamento di genere che (ancora) lo caratterizza guadagnandogli l’ostilità di una larga fetta di opinione pubblica; anche al netto, per il momento, dei considerevoli cambiamenti che stanno avvenendo nella direzione dell’avvicinamento del mondo femminile al calcio [7]. Anche in questa prospettiva, pertanto, devono scorgersi nuove possibilità di chiarimento e indagine: non già per rispondere ad un “debito culturale” presunto ma per agire nel senso di un mondo sportivo sempre più decisivo rispetto all’educazione verso alterità, differenza e possibilità relazionale.

Infine, va notato come i contributi sul calcio presentino così tanta eterogeneità e diversificazione che si ha la sensazione che il tema, in qualche modo, sia davvero di tutti; che tutti, almeno, siano variabili decisive e fattori incisivi del fenomeno calcistico: questo è un buon punto di partenza. 

61f4ame83gl-_ac_uf10001000_ql80_In principio è l’oggetto: etnologia del calcio 

«Il gioco del calcio, soprattutto da bambini, ha inizio quando qualcuno riesce a procurarsi una palla», osserva Bernhard Welte [8]. Anche il filosofo francese, in Filosofia del calcio, si preoccupa di scandire le fasi culturali che il calcio sussume, vale a dire: la presenza, in numerosi popoli e periodi storici, di oggetti più o meno sferici ad uso ludico; la sistemazione di prassi organiche e socialmente riconosciute che, riguardanti l’uso della palla, possano definirsi “gioco”; la trasformazione definitiva, nel corso del Novecento, del calcio come sport e come sport di massa. La provocazione sottesa alle considerazioni di questo paragrafo può riassumersi con questa domanda: si può davvero parlare di una nascita del calcio?

Quando, nel 1460, l’umanista Nicola Cusano dedica un’intera opera, il De ludo globi, al gioco della palla, questo è un fenomeno già noto a molteplici latitudini. Era già amato da Nausicaa e compagne nel VI libro dell’Odissea, come in tutta la Grecia, e lo consigliava Galeno, qualche secolo più tardi, addirittura come esercizio igienico; effettivamente già in Cina, diversi secoli prima di Cristo, un «qualcosa di vagamente simile al calcio» veniva praticato negli accampamenti militari con una palla di cuoio ripiena di piume o di capelli femminili e soprattutto come mezzo di esercitazione fisica. Paradossalmente, in età medievale le informazioni sono meno chiare e frequenti, e dobbiamo attendere per avere notizia di certami che si svolgevano sino al IX secolo, in Inghilterra, tra giocatori di fazioni opposte. Una delle prime attestazioni ufficiali di un gioco vicino al calcio moderno, proposta da Welte, si fa risalire al 13 aprile 1314, nell’Inghilterra di Edoardo II, quando poteva riconoscersi un gioco rude e violento, per certi versi simile al rugby. Bisognerà però attendere il secolo successivo, quello rinascimentale, perché il calcio faccia il suo ingresso nella società europea, codificandosi nell’area specificamente fiorentina [9]; fino al 1848, quando al Trinity College di Cambridge si stilò il primo regolamento del calcio moderno.

Quel che sembra potersi osservare, dapprincipio, è un uso del corpo comune, in alcune condotte sensorio-motrici, nel corso della storia, alle diverse culture che si servono di un oggetto (semi)sferico durante simili esercizi di abilità e, in un secondo momento, rituali collettivi. L’elemento sferico, intrinsecamente transculturale e che connota, oltre al calcio, numerosi altri sport (alcuni dei quali, come tennis oppure hockey, dotati di un apposito strumento per colpirla), è garante di un ricco insieme semantico all’interno del quale si distinguono significati simbolici, religiosi e metafisici spesso associati alla perfezione, all’equilibrio e agli astri conosciuti come sole e luna, da sempre riferimenti centrali nelle auto-rappresentazioni che di sé stesse le civiltà producono. Questa continuità di venerazione troverebbe compimento, secondo Welte, nella palla ad uso calcistico e “terrestre”, effettivamente investita di un ruolo simulacrale di indiscusso peso, come vedremo.

La palla si rivela, altresì, metafora del carattere collettivo del calcio, sport che non può praticarsi individualmente ma che, per esistere ed essere definito, deve prevedere la partecipazione di almeno 10 persone [10]. Sembra ragionevole osservare, insomma, come l’uomo pensi sé stesso e le sue prerogative di animale sociale anche attraverso il calcio, la cui multiformità di linguaggi e strumenti permea, al pari delle culture religiose monoteistiche a noi note, le società umane. Non sarà difficile, a tal proposito, scorgere nel calcio un articolato rapporto dell’uomo con lo spazio e il tempo in cui si trova, con la capitalizzazione e gestione della fatica, con il sostegno reciproco, con l’investimento per un vantaggio secondario e addirittura con il dono. Si pensi, ad esempio, al calciatore che conceda di calciare un rigore [11] ad un compagno di squadra regalandogli la possibilità agevole del goal personale, a cui il calcio è sportivamente finalizzato. Una sensazione è che la dimensione ludica riconosciuta ai caratteri specifici del calcio in sé, in quanto tale, riesca facilmente a trovare applicazione nella realtà liquida che viviamo, e in tale fluidità assestarsi facilmente, con sempre maggiore radicamento, mediante la ricchezza espressiva e multi-semantica dei suoi codici, che si appropriano facilmente ed efficacemente dei temi di maggiore rilievo nel dibattito pubblico e nell’economia degli immaginari. 

9788868983260_0_536_0_75Le problematiche di una religione: il dio pallone 

Riconoscere ad un vasto insieme di fatti culturali lo status di fenomeno religioso non è mai pacifico, tanto impegnativa è la gestione e l’analisi del confronto di fede anche mentre scriviamo. Una prospettiva inusuale e a mio avviso efficace per pensare la diversità può essere quella illustrata dallo storico delle religioni Brent Nongbri, che nella religione scorge una categoria ben più recente di quanto si pensi e si sia pensato, per secoli, sia nell’ambito accademico che in quello popolare, quando si irrobustiva l’idea che fosse «un fenomeno umano universale, una parte dell’esperienza umana naturale che è fondamentalmente la stessa in tutte le culture e nel corso della storia» [12]. Negli ultimi trent’anni, invece, questo castello teorico ha cominciato a sgretolarsi, essendosi notato con sempre maggiore frequenza e precisione che in nessuna lingua antica ricorra un termine esattamente corrispondente a quanto noi “moderni” intendiamo per religione.

Non essendo questa la sede per soffermarsi con precisione su un tema così vasto e problematico, mi limiterò a dire che, in generale, la conquista maggiore di questa nuova postura è consistita nell’appurare come, per le civiltà antiche, fosse assolutamente impossibile isolare una dimensione definibile come “religiosa” dall’insieme funzionale e organizzativo, quindi politico e produttivo, della società. Non si tratta, dunque, di una “integrazione” altra e organica, di cui si avesse coscienza nominale e “spirituale”, rispetto ad un’ontologia dell’esistenza scomponibile e organizzabile in confinamenti semantici; né di un qualcosa che, per parafrasare Nongbri, è “semplicemente lì” e c’è sempre stato nel dirigere le culture umane. Tendenze che definiremmo strutturaliste, infatti, sono possibili all’interno di recinti epistemologici e metodologici moderni, in funzione dei quali siamo portati, per esigenze descrittive, alla classificazione e al “raggruppamento”.

In realtà, sebbene una sorta di “attenzione verso il trascendente” sembri comune ad ogni epoca umana, risulta che l’idea di religione in quanto categoria riconoscibile si sia dunque consolidata – secondo Brent Nongbri – solo tra XV e XVII secolo, e che un primo appiglio dicotomico-concettuale si possa identificare col dualismo secolare-religioso, utile anche ai fini di questo contributo. A tal proposito, l’autore chiarisce come, nel latino tardo-medievale, il termine religiosus designasse i membri degli ordini monastici mentre quello di saecularis gli ecclesiastici che non vi facevano parte (uso oggi persistente nel mondo cattolico). Questa precisazione per chiarire come solo da un certo momento si cominci a concepire una implicita frattura in seno alle culture umane, chiamate a distinguere, nelle loro speculazioni, un complesso di valori, pratiche, significati e attese connotabile come religioso nel senso di moralmente e normativamente avulso dal resto.

Il calcio sembra rispettare, nelle sue premesse, una parabola simile, giungendo a formalizzarsi solo recentemente per come lo conosciamo e codificando in maniera estremamente rapida i suoi linguaggi espressivi. Sono abbastanza persuaso del fatto che a simili linguaggi e adattamenti rituali sia implicitamente riconosciuto un valore non già semplicemente sostitutivo ma di superamento delle religioni per come le conosciamo e abitiamo; dunque, per così dire, di “implementazione laica” dell’esperienza religiosa classica, attribuita a entità soprannaturali più e meno antropomorfe, totem naturali ecc. e fondata su una tradizione profetica e scritture che ne certificano e raccolgono i dettami. La questione dell’indebolimento dell’esperienza religiosa moderna, ad esempio, è stata affrontata da diversi autori, Habermas fra gli altri, che hanno proposto nuovi paradigmi. Il suo studio più pregnante in tal senso viene pubblicato nel 1968 [13], e riguarda, in continuità con posizioni già heideggeriane [14], la moderna adozione di «scienza e tecnica come ideologia», generatasi e insinuatasi, dunque, in un generalizzato indebolimento della pervasività delle religioni canoniche a causa della laicizzazione della società pesantemente intervenuta – nota Bernhard Welte – a partire da quanto abbiamo riconosciuto come illuminismo.

Precipua intenzione dell’autore, nel riconoscere il moderno carattere ideologico assunto dal binomio scienza-tecnica, è quella di scandagliare simile funzione/ruolo soprattutto nelle potenze che la scienza e la tecnica rappresentano. In sostanza, questa “razionalità finalistica” prima rintracciabile in gruppi relativamente limitati ed elitari, giunge ad assorbire, attraverso rapidi processi, «le forme di potere e gli apparati governativi, compresa la loro legittimazione», e intervenendo, alla fine, anche sulla base sociale, cioè sul mondo vitale della famiglia, della libertà e su quello dell’atteggiamento riguardante i consumi, assorbendoli in misura sempre maggiore» [15]. Diverse indicazioni in questa direzione provengono, a mio avviso, dalla gestione mediatica – e politica – dei recenti fatti globali, pandemia su tutti, che – a dispetto della carica catastrofica del fenomeno e delle esigenze di intervento – richiamano, a tutti livelli, un’osservanza a tratti dogmatica del precetto scientifico e particolarmente medico-sanitario, che trova compimento descrittivo, organizzativo e legislativo in chiave sempre più radicale. 

Stadio "Franchi" di Firenze (ph. Nicolò Atzori)

Stadio “Franchi” di Firenze, 2021 (ph. Nicolò Atzori)

A ben vedere, simili considerazioni si inseriscono nell’ampio e stringente dibattito sull’ispessimento delle prerogative della comunicazione, che oggi sottopone la coscienza individuale e collettiva a un bombardamento mediatico e informativo [16]  destinato a rendere estremamente complicato orientarsi e operare una adeguata significazione dei propri riferimenti. Lo iato tra la possibilità dell’esperienza mistico-religiosa a cui anela la tradizione cristiana esprimentesi attraverso svariate manifestazioni artistico-letteraria e la serrata sponsorizzazione contemporanea di una postura nichilistico-tecnicistica predispone un terreno in cui la fenomenologia calcistica ha…gioco facile. Tanto più se consideriamo la posizione cruciale del fatto sportivo calcistico, in grado di coniugare corporeità, tecnologia, fede e identità di gruppo (dunque nazionale) nel più avvolgente dei modi e grazie alle più diffuse fra le attitudini: quelle dell’homo ludens.

La moderna disaffezione verso l’esperienza religiosa stricto sensu, dunque, sembra contribuire sensibilmente alla diffusione delle vicende calcistiche, anche mediatiche, nel confronto sociale, agendo direttamente sull’intelligenza collettiva, votata ad un più diffuso nichilismo in parte motivato dalla volontà di svincolarsi da strutture sempre meno in grado di spiegare e orientare il presente. D’altro canto, sembra interessante notare come diversi tra i contesti culturali a forte componente cristiana, come ad esempio l’area sudamericana particolarmente nelle regioni argentina e brasiliana, abbiano vissuto un robusto radicamento del calcio, attecchito laddove pressoché irresistibile era un retaggio cristiano a marcata territorializzazione. In questa direzione, uno studio molto interessante degli anni recenti si è occupato, dal punto di vista antropologico, di sondare le relazioni tra calcio e religione in Brasile gettando luce sulla pratica del fechamento, ovvero «l’insieme di espressioni, corporali e verbali, che i calciatori mettono in atto sistematicamente prima delle competizioni, e che si distingue da pratiche simili per la recita collettiva del Padre nostro», come la definisce il suo stesso autore [17].

Fra le altre cose, della fede calcistica può notarsi un aspetto centrale, a mio avviso, per la sua comprensione complessiva: il fatto che tenda a rivelarsi, a dispetto dei contesti brasiliano e argentino (ma non solo) prima nominati, in cui sembra compenetrare l’ambito religioso monoteistico fino a sovrapporvisi, completamente autonoma rispetto ad essi; aspetto che, nell’ottica di una sua lettura in chiave religiosa, certamente consente di scorgere quella indipendenza filosofica e morale e quella statura di paesaggio valoriale organico e compiuto che rispetti i crismi della religione. A proposito, è interessante notare come all’interno del mondo cattolico da un lato non manchino le figure, non di rado sacerdotali, che condannano aspramente il calcio come fonte di perdizione morale e dissolutezza, e dall’altro come le stesse ricorrano al calcio, soprattutto in ambito oratoriale, come espediente per avvicinare i più giovani alla professione di fede cristiana. Sarebbe approssimativo oltreché scorretto, pertanto, parlare di un rapporto conflittuale o addirittura inconciliabile tra calcio e cristianesimo, nell’ottica dicotomica di secolarismo contro religione; sembra più prudente, infatti, riconoscere come il calcio riesca a insinuarsi, in termini emotivo-fedeli e spirituali, negli spazi che la laicizzazione [18] progressiva della società e delle sue strutture apre alla modernità sociale e relazionale, pure tentando dei disperati tentativi di mantenimento degli assetti vigenti [19]

Della spettacolarizzazione del calcio e nel calcio si è detto e ridetto. Credo sia sufficiente un’immagine per mostrare la forza rituale del calcio: il fatto, ricordato da Augé, che, «per la prima volta nella storia dell’umanità, a intervalli regolari e ad orari fissi, milioni di individui si siedono davanti al loro altare domestico per assistere e, nel vero senso della parola, partecipare alla celebrazione di un medesimo rituale» (ivi: 6).  Non sono del tutto certo sia sufficiente o probatorio simile aspetto, ma è indubbio che la regolarità calendariale della performance cerimoniale e tecnica inneschi delle suggestioni che contribuiscono a cementare l’adesione alla fede calcistica in quanto fatto essenzialmente religioso; sebbene, rispetto alle religioni classiche, la frequenza della presenza al rito si riveli decisamente inferiore anche e soprattutto per i costi difficilmente sostenibili dello spettacolo sportivo.

51kzwf1exul-_sy445_sx342_D’altra parte, l’attenzione (anche visuale) al fatto calcistico è definita, da tanti tifosi, come un sacrificio a cui ci si presta volentieri, in ottemperanza a doveri morali in grado di avallare un meccanismo di identificazione individuale e collettiva che i monoteismi arrancano a garantire. La ricompensa per la presenza allo show della domenica è anche, per il calciofilo, il credito da riscuotere nella mattina del giorno dopo, quando l’argomento clou in ufficio o nell’officina ancora può individuarsi nell’esito della partita, dalla carica emozionale differente a seconda di una vittoria o una sconfitta. Impressioni che implicano, per il tifoso, un eventuale valore lenitivo, a livello umorale, se la squadra tifata ottiene la vittoria; una sorta di effetto placebo.

Riguardo alla varietà umana e sociale, il calcio abbonda di guru, profeti e predicatori. Anzi, a ben vedere può vantarne decisamente di più rispetto ai monoteismi, sebbene una certa coscienza storica (e in certo modo storiografica), comune all’interpretazione collettiva dei fruitori, sia in grado di situare nel tempo simili personaggi e riferimenti sì da operare pertinenti (entro i limiti) distinzioni tra epoche e momenti che sembrano risultare maggiormente intelligibili proprio grazie alla presenza dei beniamini sportivi. Il “calcio di Pelé o Maradona”, ad esempio, così dicendo di un momento che si associa ad almeno una trentina di anni fa, diventa, almeno nelle generazioni fino ai Settanta, ideale di un momento in cui il calcio giocato – nella tecnica individuale dei giocatori e nello spettacolo del campo – assurga, nell’economia del discorso da Bar Sport di Stefano Benni, quale immagine onnicomprensiva di un passato di gloria vitale e sociale in primis, dove ci si accontentava dell’essenziale e ci si divertiva senza fronzoli. Passato che, fra le altre cose, seconda un lessico in cui emergono ideali di reciprocità, prossimità e, generalmente, coesione sociale, rispetto ai quali il mondo calcistico moderno si collocherebbe quale iniquo termine di paragone e misura di una crisi dei valori sociali e trionfo del consumismo capitalista.

In chiusura, è essenziale accennare al pantheon calcistico, al cui vertice non siede nulla di antropomorfo: il pallone è l’oggetto della venerazione calcistica, rispetto al quale calciatori e tifosi si collocano da ambasciatori della sua bellezza. Simulacro riprodotto e semantizzato in modi plurimi, il pallone si evolve col mutare dello sport: accorgimenti fisico-estetici intervengono, ad esempio, in funzione della competizione di turno, che all’oggetto prescelto nell’aspetto inedito attribuisce addirittura un nome. 

l calcio è della gente, il calcio è nella gente 

«Le notizie false della storia nascono certamente spesso da osservazioni individuali inesatte o da testimonianze imperfette, ma questo infortunio iniziale non è tutto e in realtà in se stesso non spiega nulla. L’errore si propaga, si amplifica e vive solo a una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un brodo di cultura favorevole. In quell’errore, gli uomini esprimono inconsciamente i propri pregiudizi, odi e timori, cioè tutte le loro forti emozioni. Soltanto […] dei grandi stati d’animo collettivi hanno poi la capacità di trasformare una cattiva percezione in una leggenda» [20].   

murales-di-maradona-a-napoli_1mgzmehlsqub41atl8izh767xdAbbiamo visto che l’equazione tra calcio-ambienti popolari è un’approssimazione che trae la sua linfa vitale dall’ambiente in cui il calcio prende piede e si sviluppa dalla fertilità ideologico-mediatica dei moderni processi di comunicazione. Grazie alle parole di Marc Bloch, ad esempio, possiamo meglio introdurre un caso mediatico nato dalla vera e propria manomissione di un avvenimento consumatosi il 9 agosto del 1942, in piena Seconda guerra mondiale, a Kiev: la cosiddetta partita della morte. Per grandi linee, si tratta di una partita di calcio tra ufficiali tedeschi e prigionieri ucraini (ex giocatori professionisti) consumatasi nel campo Zenit di Kiev durante l’occupazione nazista dell’Ucraina, allora parte del vasto territorio dell’Unione Sovietica. Al netto della moderna idealizzazione romantica, che ha riconosciuto agli ucraini – usciti vincitori sebbene stanchi e deperiti per le devastanti fatiche del campo di concentramento e, secondo la credenza, uccisi dai nazisti a causa dell’onta patita – lo stato di eroi contro l’invasore carnefice, la realtà risponde a una vicenda ben diversa, dove la stessa azione punitiva degli ufficiali tedeschi sarebbe molto meno robusta e, con essa, la componente ideologica messa in campo dalle rappresentazioni descrittive attuali.

Tra alterne vicende, questo avvenimento assume nel corso del tempo risvolti leggendari, dove al calcio è stato attribuito un valore salvifico di “congelamento” ricreativo (in termini sia bellici che relazionali) del conflitto, addirittura suggellato dalla celebre fotografia dei protagonisti della sfida, nazisti e comunisti. L’alone generatosi intorno al fatto intrinseco consente però, senza dubbio, di avvicinare alla forza pervasiva del calcio in quanto momento di sintesi relazionale intergenerazionale e transculturale.

La semplicità di Galeano e Borges a cui mi affido in apertura sussume dunque, in certo modo, i caratteri essenziali della connessione tra uno sport ormai oltre da sé e la società tutta, all’interno della quale si ambienta, religiosamente, come collante di un amalgama sociale che comprende ogni classe ed ogni età. Tralasciando le più radicali posture, come quella osservata da A. Ehrenberg del calcio come esempio di politica di educazione e disciplina delle masse da parte dei ceti dirigenti, si osserva una decisa diffusione dei valori calcistici nelle complesse stratificazioni sociali, con esiti che giungono ad accomunare, non solo nei club e nelle associazioni, i ceti più distanti. La politica, d’altra parte, ha sempre affermato l’importanza del calcio quale insieme di attitudini e pratiche dall’indiscusso “valore civile” [21], e non è raro, per le narrazioni moderne, sottolineare il ruolo dei calciatori quali ambasciatori e veicoli di sensibilità e precetti preponderanti nei discorsi in materia di sicurezza, benessere, scolarizzazione, prevenzione sanitaria ecc. Allo stesso tempo, non è infrequente conoscere ex calciatori che, fatto il loro ingresso nei gangli politici, giungono ad assumere ruoli di primissimo piano nell’economia amministrativa dei propri Paesi di provenienza [22].

Ultimo passaggio esplicativo nella direzione di un carattere “popolare” del calcio che mi pare meritevole di una menzione sono i contorni di “sogno” professionale che assume presso i giovanissimi, giungendo oggi a migrare verso la componente femminile, tradizionalmente meno familiare al mondo calcistico, fino a qualche tempo fa totale appannaggio degli uomini. Il calcio, insomma, è ben lungi dal venire spiegato. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023 
Note
[1] Almeno rispetto alle forme che riconosciamo al calcio moderno, “storicizzabile” a partire dai primi decenni dell’Ottocento soprattutto per via della formalizzazione di un suo funzionamento.
[2] Torneremo più avanti sul termine
[3] Augé M., Football. Il calcio come fenomeno religioso, EDB Edizioni, 2016. Da qui in avanti, del volume seguirà l’indicazione delle sole consultate.
[4] McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, trad. italiana, Il Saggiatore Milano 2008 (ed. or. 1964)
[5] Di. M. Augé si consiglia, inoltre, Che fine ha fatto il futuro?, riedito nel 2020 da Elèuthera.
[6] https://fareantropologia.cfs.unipi.it/wp-content/uploads/2017/01/1993-calcio-Ossimori.pdf: 7
[7] Una data storica, in tal senso, è il 1° luglio del 2022, quando, in Italia, il calcio femminile diventa sport professionistico.
[8] Welte B., Filosofia del calcio, Morcelliana Ed., Brescia, 2021: 8
[9]  https://www.treccani.it/enciclopedia/palla
[10] È il caso del “calcetto” o calcio a cinque (futsal), praticabile anche al chiuso e che vede sfidarsi due squadre composte di 5 giocatori ciascuna.
[11] Si tratta di una particolare espressione tecnica del gioco consistente in un calcio al pallone, posizionato sul dischetto, dalla distanza di nove metri dalla porta.
[12] Nongbri B., Prima della religione. Storia di una categoria moderna, Piccola Biblioteca Teologica, Torino, 2022: 10
[13] Habermas J., Wissenschaft und Technik als Ideologie, ed. Suhrkamp 287, Frankfurt/Main, 1968 (trad. it. parziale in Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, 1967)
[14] Heidegger M., Die Frage nach der Technik, in Vortrage und Aufsatze, Pfullingen, 1954: 13-44 (trad. it. in Saggi e discorsi, Milano, 1976: 5-27).
[15] Welte B., La luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, Queriniana, Brescia, 2023: 23 e 24
[16] Si consiglia la lettura di Han B., Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, Einaudi, Torino, 2023.
[17]https://www.openstarts.units.it/server/api/core/bitstreams/29532304-2273-40b2-a4a1-eb41be706fa5/content
[18] Intesa come distanziamento dalle forme religiose canoniche.
[19]  https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/08/01/sempre-meno-liberta-di-religione-in-europa/
[20] Bloch M., “Réflexions d’un histiruen sur les fausses nouvelles de guerre” in “Revue de synthèse historique”, Parigi, 1921, volume XXXIII: 13-35.
[21]Per non parlare della strumentalizzazione elettorale (più e meno intenzionale), come l’illustre caso italiano di Silvio Berlusconi alla presidenza dell’A.C. Milan dimostra.
[22] Si pensi, fra gli altri, a Kakha Kaladze, ex giocatore del Milan divenuto sindaco di Tbilisi; a George Weah, presidente della Liberia dal 2018; a Andriy Shevchenko, da poco nominato consigliere indipendente del premier Ucraino Zelensky.

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Nicolò Atzori, consegue una laurea triennale in Beni Culturali (indirizzo storico-artistico) con una tesi in Geografia e Cartografia IGM e una magistrale in Storia e Società (ind. medievistico) con una tesi in Antropologia culturale, presso l’Università di Cagliari, ottenendo in entrambe il massimo dei voti. Altresì, è diplomato presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Cagliari. Dal 2017 lavora, per conto di CoopCulture, come operatore museale e guida turistica presso il Museo Villa Abbas e il sito archeologico di Santa Anastasia di Sardara (SU), luoghi dei quali, fra le altre cose, cura la comunicazione e, nel primo caso, gli aspetti museografici. Sta frequentando il master di Antropologia Museale e dell’Arte della Bicocca.

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