«Eppure, per colui che crede, le apparenze sono salve» (Watzlawick 1989: 175)
Gramsci senza populismi
“Populista” è stato per lungo tempo uno di quegli aggettivi che nessun partito amava ricevere, tanto meno rivendicare. L’effimero Fronte dell’Uomo Qualunque fu probabilmente l’unica forza politica della Prima Repubblica con tratti realmente populisti, e non solo come etichetta negativa attribuita dall’esterno. Nel precedente numero di Dialoghi Mediterranei (n.43, maggio 2020), Sonia Giusti ha ricostruito l’evoluzione dei movimenti populisti in Italia, specie di quei partiti della Seconda Repubblica che, più o meno esplicitamente, fanno uso di strategie politiche populiste. In questo senso, la rivendicazione più forte degli ultimi anni è stato il discorso del premier Conte al Senato (5 giugno 2018), in cui il populismo viene assunto come parte fondamentale dell’identità politica della coalizione di governo e declinato come «l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente».Dagli anni Novanta inizia una trasformazione in sordina nel modo in cui il populismo viene percepito, passando da etichetta dispregiativa contro gli avversari, come sinonimo di “demagogia”, a identità politica rivendicata. L’alleanza del primo governo Conte, tra Movimento 5 Stelle e la Lega, ha portato per la prima volta al vertice del sistema democratico italiano due forze esplicitamente anti-establishment e populiste. Tuttavia, questo nuovo atteggiamento verso il populismo è meno inaspettato di quanto possa sembrare, e risente di trasformazioni sociali che riguardano un po’ tutta l’Europa.
Schaller e Carius (2019) offrono una panoramica interessante dei populismi europei, fornendo soprattutto agevole “guida” sulle loro posizioni rispetto alla questione ambientale. Dalla loro analisi vengono lasciati fuori partiti come Podemos (Spagna) e La France Insoumise, esempi del cosiddetto left-populism. La scelta è giustificata dal diverso rapporto che i due fronti del populismo hanno rispetto al problema dei cambiamenti climatici: «Topics related to environmentalism and climate change have often been associated with left-wing politics, but are more often refuted by those on the right, as literature suggests» (Schaller & Carius 2019: 7).
Gli ultimi cinque anni hanno visto alcuni di questi partiti crescere nei sondaggi e nel consenso elettorale, diventando forze politiche di rilievo sulla scena nazionale e guadagnando diversi seggi nel Parlamento europeo: Alternative für Deutschland (Germania), Front National (Francia), Fidesz (Ungheria), Schweizerische Volkspartei (Svizzera), UK Indipendence Party (Regno Unito), Lega (Italia), solo per citare i più conosciuti. Biorcio (2019), occupandosi della rete di somiglianze e differenze tra i populismi europei, ha scelto di confrontare il Movimento 5 Stelle con il caso spagnolo di Podemos. Mentre quest’ultimo è probabilmente l’esempio più famoso di populismo “di sinistra”, avendo raggiunto un grande consenso in Spagna, il movimento italiano fondato da Beppe Grillo possiede un’identità decisamente più sfumata, che gli ha consentito alleanze con forze politiche distanti come la Lega e il Partito Democratico.
Nonostante le loro – anche notevoli – differenze, molti populismi europei sono accomunati da posizioni euroscettiche, dal sostegno a politiche nazionaliste e di sovranismo economico, e soprattutto dal continuo richiamo al “popolo” come fonte di legittimazione, autorità e identità. Tornando al discorso di Conte, “gente” vale ovviamente come sinonimo di “popolo”, concetto a cui si richiamano sia il Movimento 5 Stelle che la Lega, anche se con modalità differenti. Ma che cosa significa “popolo”? O meglio, in che modo i populismi europei usano questo concetto, ridefinendolo all’interno delle proprie strategie politiche? Rispondere a questa domanda non è affatto semplice visto che i populismi (per limitarci a quelli europei) rappresentano un fenomeno culturale decisamente cangiante, che inevitabilmente si differenzia a seconda della nazione. Si potrebbe essere tentati di considerare i populismi come delle mere «formule linguistiche, che ciascuno può declinare liberamente», per citare un altro passaggio del discorso di Conte. Tuttavia, per comprendere i populismi occorre prima di tutto interrogarsi sul concetto di “popolo”, e sulla crisi che, secondo molti studiosi, questa categoria culturale sta attraversando.
Sulle pagine di questa rivista Dei (n. 42, marzo 2020) si era appunto interrogato circa la validità e le trasformazioni del “popolo”. Considerando la narrazione identitaria dei populismi, l’antropologo mostra come il popolo rappresenti una categoria culturalmente costruita, in parte ereditata dal Novecento, che si trova ora fortemente destabilizzata. Un’altra possibilità è che il popolo sia ormai un concetto storicamente vuoto, proprio per questo facilmente cooptato dai movimenti populisti. Ma come il male in teologia, esistono anche diversi tipi di “vuoto” in politica: nella prospettiva di Laclau e Mouffe (1985), fautori di un nuovo modello di populismo, il popolo assume la funzione positiva di “significante vuoto”, come momento di ripensamento dell’ordine sociale.
Come questi autori, anche Dei riconosce l’importanza delle rappresentazioni sociali per comprendere il formarsi dei populismi: in questi movimenti il concetto di popolo prende forma “dal basso”, spesso catalizzato da figure carismatiche, come auto-rappresentazione di un gruppo in opposizione a istituzioni nazionali e globali, come una coalizione di governo, l’Unione europea, o l’FMI.
Questo tipo di “tagli” all’interno del corpo sociale rimanda alle riflessioni di Gramsci sulle classi egemoniche e subalterne, che Dei recupera oggi: è ancora possibile individuare gruppi subalterni in una società come la nostra, dove la maggioranza vive in una condizione di relativo benessere? Posto che tali gruppi marginali esistono, non sono certo costoro il “popolo” di riferimento dei populismi contemporanei, che anzi vengono spesso presentati negativamente, come “minacce per il popolo”. Basti ricordare il ritornello su “migranti che vengono a rubarci il lavoro”.
Un certo grado di idealizzazione è presente fin dal principio di questi movimenti. La prima attestazione del termine “populismo” si trova in Russia. Il movimento politico-culturale chiamato Narodničestvo, attivo tra la fine del XIX secolo e la rivoluzione bolscevica, proponeva un riformismo agrario fondato sulla fiducia nella comunità rurale, opponendosi alle posizioni marxiste. Il populismo russo voleva risolvere l’arretratezza e la povertà del mondo contadino abolendo l’accentramento burocratico dello stato zarista, e redistribuendo le terre al popolo. Va detto che questo primo movimento populista era caratterizzato, già allora, da un insieme di posizioni e correnti eterogenee, anche contrastanti, che però si riconoscevano tutte nella massima di “andare verso il popolo”. Mentre il suo contributo politico è stato pressoché nullo, e lo stesso movimento si esaurì con la rivoluzione del 1917, il Narodničestvo lasciò una traccia nel contesto letterario, influenzando autori come Dostoevskij, Turgenev, e soprattutto Gleb Uspenskij, autore di numerosi testi dal taglio semi-etnografico, che descrivono con realismo la condizione del mugik (il contadino russo), lontano da certe idealizzazioni del populismo più tardo.
Anche se alcuni aspetti di questo primo populismo si ritroveranno in movimenti successivi, Worsley (1969) sottolinea piuttosto l’importanza del contesto culturale in cui questi fenomeni politici prendono forma, distinguendo per esempio tra il Narodničestvo e il partito populista degli agricoltori statunitensi. L’espressione “andare verso il popolo”, recuperata anche dal movimento americano, è conosciuta da Gramsci, per il quale il populismo rimane un fenomeno circoscritto alla cultura russa, e mai categoria politica a sé stante. Questo “limite” è al centro di un recente volume curato da Liguori (2019), in cui le riflessioni gramsciane vengono messe in dialogo con il fenomeno contemporaneo dei populismi. Non si tratta di un’operazione di “recupero”, come nel lavoro di Laclau e Mouffe: Liguori sottolinea come il filosofo marxista non consideri mai il “senso comune” del popolo come valore utile, semmai da riformare. Per Gramsci, il Narodničestvo rimane un fenomeno storicamente circoscritto, provocato della separazione delle élite russe dal popolo.
Tuttavia, il suo concetto di “egemonia” può diventare prezioso nell’analisi dei movimenti populisti contemporanei. In antropologia diversi autori hanno ripreso il pensiero di Gramsci (Wimmer 2008: 985). Su tutti, i coniugi Comaroff (1992), che come vedremo danno una definizione di “egemonia” più generale di quella gramsciana, e strettamente legata al concetto di ideologia. Partiamo però dalla definizione “classica” che troviamo nei Quaderni, in cui Gramsci distingue tra due possibili modalità di controllo. Tutto il rapporto tra classe egemone e subalterna ha come asse il discorso sulla «egemonia culturale»:
«[…] la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo» (Q19, §24).
Nonostante, com’è stato detto poc’anzi, Gramsci non si occupi mai del populismo, c’è anche un altro passaggio che indirettamente fornisce spunti interessanti:
«La concezione del giornale di Stato è logicamente legata alle strutture governative illiberali (cioè a quelle in cui la società civile si confonde con la società politica), siano esse dispotiche o democratiche (ossia in quelle in cui la minoranza oligarchica pretende essere tutta la società, o in quelle in cui il popolo indistinto pretende e crede di essere veramente lo Stato)» (Q6, §65).
Nelle analisi dei populismi, un concetto gramsciano altrettanto importante, ma non altrettanto esplicitato, di egemonia culturale è quello di “società civile” (Q25, §5). Nei suoi Quaderni Gramsci definisce questa sfera del sociale in molti modi, ad esempio come l’insieme delle organizzazioni private nello Stato, ma anche «nel senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato» (Q6, §24). Egemonia culturale e società civile sono dunque concetti solidali, attraverso cui Gramsci illustra certi aspetti fondamentali della vita politica. In un sistema democratico, i partiti rappresentano il mezzo attraverso cui la società civile entra nella sfera politica, arrivando talvolta a confondersi con le istituzioni statali. Questa situazione è tipica delle forme illiberali di governo, come il fascismo; consideriamo però anche l’altro esito, ovvero la possibilità di una democrazia illiberale. Di nuovo, il popolo è al centro di una rappresentazione collettiva che lo pone al posto (o al di sopra) delle istituzioni statali.
Egemonia culturale e società civile vanno perciò assolutamente considerati parlando dei populismi, in cui il concetto di popolo e il richiamo alla volontà popolare sono usati come strumento di legittimazione pubblica. Per gli studiosi più critici (Taguieff 2003), il populismo rischia per sua natura di (de-)generare forme illiberali di potere. Più in generale, questi movimenti politici hanno portato molti ad interrogarsi sulla tenuta del modello democratico europeo.
Populismo e crisi della democrazia
«Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale» (Q13, §17). Molti populismi europei sono nati e cresciuti all’ombra della crisi economica del 2009 e il successivo decennio di austerity (Giusti 2020), scagliandosi contro le politiche finanziarie della BCE e contestando la legittimità degli interventi dell’Unione europea. Negli studi più recenti sul populismo, al di là delle posizioni pro/contro, si tende sempre più a riconoscere nell’avanzata di questo sfuggente fenomeno politico un segno della crisi del sistema democratico e del modello neo-liberale (Fitzl, Mackert & Turner 2019). Anche se è esagerato parlare di fine della democrazia, sicuramente la crescita dei populismi europei obbliga a rivedere alcune delle “regole del gioco democratico” (Bobbio 1991: 20) che hanno determinato il corso della vita politica moderna.
In altre parole, i movimenti populisti sono parte di un più ampio processo trasformativo del sistema democratico, percepito però come una grave minaccia. Storicamente il populismo è stato usato come sinonimo di “demagogia”, presentato come una forma degenerata di democrazia potenzialmente capace di condurre a regimi illiberali. Questa visione rimane largamente condivisa non solo tra gli studiosi, ma tra le stesse forze politiche, che sottolineano così l’incompatibilità di certe forze populiste con il sistema democratico. Tuttavia, come ha puntualizzato Worsley, «the populist “dimension”, however, is neither democratic nor anti-democratic: it is an aspect of a variety of political cultures and structures. Populism is certainly compatible with democracy, though this is often denied» (Worsley 1969: 247).
La vera questione sollevata dal populismo non è tanto la fine del sistema democratico, quanto la progressiva perdita di autorità delle istituzioni democratiche, che vedono contestata la propria legittimità. Con le parole di Gramsci, potremmo dire che le istituzioni statali stanno perdendo la propria egemonia culturale mentre il populismo, come espressione di certi gruppi (sempre meno marginali) della società civile, sta gradualmente permeando la sfera politica. Partiti populisti di successo, come Podemos e la Lega, stanno spostando il proprio bacino elettorale tra i ceti medi, facendo leva sul richiamo alla sovranità del popolo come autorità superiore e rappresentazione collettiva abbastanza flessibile da riuscire a contenere le differenze socio-culturali (Dei 2020). Questo richiamo alla “volontà del popolo” come fonte di autorità superiore è uno dei tratti fondamentali dei populismi di tutto il Novecento, insieme alla presenza di un leader carismatico che incanala e personifica pubblicamente questo potere, come fosse investito da una sanzione popolare:
«(a) the supremacy of the will of the people “over every other standard, over the standards of traditional institutions and over the will of other strata. Populism identifies the will of the people with justice and morality”; (b) the desirability of a ‘direct’ relationship between people and leadership, unmediated by institutions» (Worsley 1969: 244).
Taguieff è probabilmente uno dei più famosi studiosi e critici del populismo, piuttosto conosciuto in Italia grazie a L’illusione populista (Taguieff 2003). Come Worsley, anche Taguieff cerca di venire a capo dell’intrico di somiglianze e differenze all’interno dei populismi, cercando delle caratteristiche comuni. Considerato il suo approccio critico, non sorprende che nella sua analisi populismo e totalitarismi novecenteschi condividano diversi tratti ugualmente illiberali. Ricordiamo in proposito il diagramma di Nolan, un grafico che rappresenta lo spettro politico usando come parametri la libertà personale ed economica: in una delle prime versioni, il populismo occupava l’angolo più vicino all’origine degli assi, dove vennero collocati anche il regime nazista e stalinista. Tuttavia i populismi contemporanei si differenziano molto dai movimenti analoghi studiati da Nolan negli anni Sessanta.
Nella sua indagine, Taguieff si sofferma sull’ambiguità delle retoriche populiste, che sotto la medesima espressione presentano contemporaneamente diversi concetti di popolo. Per il sociologo francese la vera “illusione” dei populismi, e insieme la loro specifica minaccia ai sistemi democratici, è l’appello ad una sovranità popolare come potere superiore alle istituzioni legittime. Questo può tradursi finanche in restrizioni dei diritti democratici, un tipo di pratiche tipiche, secondo Taguieff, dei più diffusi populismi di estrema e “nuova destra” (come Front National).
Laclau e Mouffle, già ricordati prima, sono di tutt’altro avviso, e respingono con forza ogni legame necessario tra populismi ed estrema destra. La ripresa del concetto gramsciano di egemonia da parte dei due politologi, specie da parte di Laclau, è stata brillantemente studiata da Stavrakakis (2017). In questa prospettiva l’egemonia viene pensata come un dispositivo culturale in grado di formare e organizzazione il consenso popolare, attraverso il linguaggio. Per Laclau infatti, i meccanismi affettivi e linguistici sono fondamentali per i populismi, perché permettono di modellare delle rappresentazioni condivise intorno al concetto di popolo. L’indeterminatezza di questa categoria non è il risultato di una crisi sociale o economica, non dipende cioè dalle circostanze storiche attuali. Piuttosto, si tratta di un aspetto iscritto nella stessa realtà sociale: ogni modello politico – liberale o illiberale, democratico o totalitario – si legittima usando l’egemonia come strumento per rinegoziare costantemente la propria incapacità di realizzare un ordine oggettivo, di “stabilizzare” storicamente concetti fondamentali come quello di popolo. Quanto sta avvenendo in Europa è il fallimento dell’egemonia “istituzionale”; i populismi usano il concetto di popolo per proporre una narrazione alternativa, ovvero un modello contro-egemonico (Stavrakakis 2017: 538). Non è il concetto di popolo ad essere in crisi a causa delle circostanze storiche, ma sono gli attuali modelli politici ad esserlo, perché incapaci di realizzare una rappresentazione adeguata del popolo, e quindi a legittimare se stesse.
In questo senso il popolo rappresenta un concetto vuoto: non come gruppo sociale definito, ma come contenuto discorsivo che segnala, con la propria negatività, la crisi di quel concetto, il fallimento dell’attuale società nel creare un ordine oggettivo. “Popolo” viene scelto dai movimenti populisti tra altre categorie possibili perché è quello che più si avvicina a una rappresentazione collettiva condivisa, che le società europee hanno ereditato di default dal Novecento. In sostanza, per Laclau i populismi sono fenomeni emergenti, fondati sulla rappresentazione del popolo come marcatore della crisi sociale, che usano investimenti affettivi (identitari, carismatici, ecc) per dare alle proprie retoriche una forza egemonica. A differenza di Taguieff, qui si apre alla possibilità di impiegare positivamente il populismo, come ripensamento critico del sistema politico e sociale.
Anche per Mouffe (2018) il popolo, più che una categoria sociologica, è una costruzione discorsiva che permette di unire democraticamente istanze sociali eterogenee, in opposizione alle oligarchie fallimentari del modello neo-liberale. In effetti, queste istanze cui il populismo fa appello (interpella, per riprendere Althusser), non sono altro che parti della società civile in senso gramsciano. Dopotutto, anche per Laclau il populismo consiste in una rappresentazione sintetica delle interpellanze popolari e democratiche. La distinzione posta da Gramsci tra società politica (Stato) e società civile permette di riconoscere nuovi soggetti collettivi nell’arena democratica (Laclau 2005: 168).
Mouffe sottolinea inoltre l’importanza della dimensione emozionale propria del populismo, alquanto assente nei partiti di sinistra europei. Il suo posizionamento così esplicito, a sostegno di un left populism, è funzionale a ridurre l’indeterminatezza delle forze politiche, collocandosi chiaramente nel gioco democratico in linea con la sua visione agonista della democrazia. Contrariamente a quanti vedono nel populismo una minaccia per il sistema democratico, per i due politologi esso può fornire una possibilità concreta di “radicalizzare la democrazia”, cambiando il modo in cui la società civile si interfaccia con quella politica. Questa radicalizzazione prospettata da Mouffe ricorda, almeno in alcuni suoi aspetti, le riflessioni di Bobbio sull’estensione progressiva del modello democratico:
«[…] se di un’estensione del processo di democratizzazione si può ancora parlare questa si dovrebbe rivelare non tanto nel passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, come di solito si ritiene, quanto nel passaggio dalla democrazia politica alla democrazia sociale, non tanto nella risposta alla domanda: “Chi vota?” ma nella risposta a quest’altra domanda: “Dove si vota?” In altre parole, quando si vuol conoscere se ci sia stato uno sviluppo della democrazia in un dato paese si dovrebbe andare a vedere se sia aumentato non il numero di coloro che hanno il diritto di partecipare alle decisioni che li riguardano ma gli spazi in cui possono esercitare questo diritto» (Bobbio 1991: 24).
La distinzione di Bobbio è importante, data l’insistenza dei populismi verso un esercizio diretto e immediato della sovranità popolare. La democrazia sociale, così come (per certi aspetti) il riconoscimento di nuove istanze sociali tendono non solo a garantire la pluralità degli attori politici, ma moltiplicano le occasioni di confronto democratico. Queste condizioni non sono sempre mantenute dai populismi, che traggono legittimità da una (auto)rappresentazione totalizzante, “il popolo”, abbastanza flessibile da inglobare ampi strati sociali, trascurando spesso le loro specificità in favore di una dialettica oppositiva con “l’altro”. Questa contrapposizione identitaria, in cui il concetto di popolo viene usato come confine sociale, è per Stavrakakis (2017) uno dei tratti comuni dei populismi, caratteristiche che prese nel loro insieme descrivono una ideologia.
L’efficacia dei populismi sta nell’impiegare il “popolo” come rappresentazione collettiva largamente condivisa, capace di attirare ampie parti della società civile, e al tempo stesso di fornire la legittimazione del proprio operato. Ma come distinguere i movimenti populisti da altre forze democratiche che, in un sistema liberale, ricorrono alla medesima strategia politica? Una possibile soluzione è quella prospettata da Ochoa Espejo, che propone l’auto-limitazione come criterio distintivo. In un contesto come quello democratico, aperto alla partecipazione, alla sfida politica, alle trasformazioni, i populismi si caratterizzano per la mancanza di auto-limitazione; in particolare non si pongono limiti per quanto riguarda l’incorporazione di nuove parti della società civile, cercando in un certo senso di tradurre in realtà quel richiamo ideale al “popolo” come totalità dei cittadini. I partiti liberal-democratici non solamente si rivolgono a gruppi sociali specifici (target elettorali), ma mettono in conto la fallibilità della propria agenda politica, mentre i populismi si ritengono depositari di una lettura iper-corretta della realtà sociale, scendendo difficilmente a compromessi. Nelle parole di Ochoa Espejo: «whereas populists claims to speak in the name of the people, and hold that this justifies refusing any limits on their claims, liberal democrats, in the name of the people, place limits on their claims» (Ochoa Espejo 2015: 73).
Il problema dei limiti si ripropone anche in un lavoro dei Comaroff (1991) sul Sudafrica, in cui i due antropologi americani, partendo dal concetto di egemonia culturale, hanno mostrato come le forme più pervasive del potere vadano cercate proprio laddove non sembra risiedano. Come anticipato in apertura, i Comaroff hanno parzialmente ripensato il concetto gramsciano, descrivendo l’egemonia come quell’insieme di significati, pratiche e relazioni culturalmente implicite, date per scontate e in un certo senso “naturalizzate” all’interno della società. Anche i Comaroff danno grande importanza ai processi di rappresentazione e del linguaggio, ma rispetto a Laclau e Mouffe propongono una precisa distinzione tra egemonia e ideologia. Quest’ultima è il riconoscimento esplicito dell’egemonia, quando cioè quelle pratiche e relazioni naturalizzate assumono una forma effettiva e consapevole nel pensiero, e in questo senso possono diventare anche oggetto di contestazione. Tra egemonia e ideologia non c’è un confine netto: sono piuttosto dei concetti che sfumano parzialmente l’uno nell’altro, socialmente fluidi, e anche per questo difficili da circoscrivere con precisione.
In effetti, un punto debole nell’analisi dei Comaroff sta nell’aver fuso molti concetti nella stessa categoria (Merry 2003: 463-465). Il problema maggiore sta proprio nell’impossibilità di contestare l’egemonia: com’è possibile resistere alle pratiche egemoniche, se queste vengono riconosciute solo come ideologia? Si può cercare di contrastare quel “farsi ideologia” dell’egemonia, agendo cioè nel passaggio tra una forma latente del potere e una forma agentiva. Trasponendo tutto ciò nei termini della nostra indagine sui populismi, occorre problematizzare l’egemonia come costrutto culturale naturalizzato nella comunità politica (Comaroff & Comaroff 1991: 19-30), considerando il processo in cui il popolo viene costruito come rappresentazione collettiva, come valore-chiave per l’ideologia populista. Tornando a Gramsci, da una parte c’è la società politica, ovvero la sfera dello Stato in cui viene effettivamente esercitato il potere e la sovranità; dall’altra la società civile che appartiene alla sfera dell’ideologia, in cui avviene la produzione dell’egemonia culturale attraverso il “libero consenso” delle masse (Rossi-Landi 1978: 52).
Le osservazioni di Laclau e Ochoa Espejo sui populismi ci obbligano però a precisare con maggiore attenzione cosa intendiamo con “ideologia dei populismi”, che non si può ridurre al solo insieme dei principi teorici di un movimento politico. Rifacendoci alla minuziosa classificazione delle ideologie di Ferruccio Rossi-Landi, notiamo come la rappresentazione del popolo all’interno dei populismi faccia oscillare questo fenomeno politico tra due forme ideologiche. Nella prima abbiamo una «visione del mondo a carattere sistematico, fondata su principi ed elaborata per larga parte in maniera consapevole. Tale visione tende alla totalità […] si articola in un insieme di convenzioni, idee e ideali atti a orientare la vita pratica» (Rossi-Landi 1978: 31); nella seconda l’ideologia viene pensata invece come «menzogna non deliberata, oscurantismo volontario ma non pianificato, auto-mistificazione semi-inconscia, contraffazione socialmente indotta e divenuta automatica nell’individuo» (Rossi-Landi 1978: 23), ossia come falsa coscienza, in cui non viene riconosciuto il “farsi-ideologia” delle pratiche e dei discorsi egemonici.
In altre parole, nel passaggio tra egemonia e ideologia populista, il concetto di popolo viene reificato, assunto per principio come riferimento di un modello ideologico che ha la pretesa di corrispondere obbligatoriamente con la realtà sociale che descrive. Per Rossi-Landi la falsa coscienza si manifesta come ideologia proprio attraverso sistemi linguistici (più in generale, segnici) che strutturano particolari rappresentazioni del mondo; trasposto nel campo politico, attraverso meccanismi egemonici che producono consenso all’interno della società civile. Va detto che con “consenso” non s’intende solo il favore degli elettori, ma un più generale consenso verso la riprogettazione della realtà sociale.
Lo stesso punto di vista è sostenuto da Watzlawick, che considera le ideologie come rappresentazione condivise del mondo capaci di orientare la costruzione della realtà sociale, per mezzo del consenso (Watzlawick 1989: 163-197). L’esempio dei totalitarismi novecenteschi dimostra, secondo lo psicologo sistemico, come a dispetto dei loro contenuti, ideologie diverse possano sortire gli stessi effetti sulla società. Ma soprattutto, a dispetto delle stesse intenzioni degli attori politici: in questo senso Watzlawick approfondisce la questione della falsa coscienza come auto-ingannamento, quando gli stessi movimenti arrivano a credere alle rappresentazioni che hanno costruito. Il problema ovviamente non sta nel fatto che un partito politico creda nelle proprie convinzioni (anzi, sarebbe preoccupante il contrario), ma che assuma queste convinzioni come descrizioni totalizzanti ed esclusive della realtà.
In queste rappresentazioni sistematiche trova posto anche la stessa ideologia, che si propone così come meta-interpretazione di se stessa, giustificando ricorsivamente la propria correttezza. Le ideologie rifiutano in altre parole il “principio dell’imperfezione”, cioè la necessità di riferirsi a criteri e valori esterni per valutare obiettivamente la propria “equazione sociale” (Watzlawick 1989: 173). Ci sembra che la mancanza di auto-limitazione dei populismi abbia molto in comune con la ricorsività referenziale delle ideologie. Entrambe riguardano rappresentazioni tendenzialmente totalizzanti della realtà sociale, che si legittimano autonomamente attraverso il riferimento a costrutti narrativi (il “popolo”) o meta-interpretazioni. Il problema maggiore dei populismi, di qualunque orientamento politico, sta in questa loro auto-referenzialità. L’affidarsi a una rappresentazione culturale tanto flessibile quanto sfuggente come il “popolo” permette a questi movimenti di contestare l’autorità delle istituzioni statali, di fare presa su ampi strati della società civile con modalità nuove, rimettendo in discussione le regole del gioco democratico. Come ha dimostrato “l’esperimento” del primo governo Conte, la carica per certi versi sovversiva e anti-establishment delle forze populiste non è incompatibile con la democrazia in sé.
Il concetto di popolo resta però un punto cieco nella visione populista, nonostante sia al centro della strategia politica e delle retoriche di questi movimenti, che in effetti si auto-rappresentano come “emanazioni” del popolo. Questa origine rimane sempre “alle spalle” del populismo, come premessa implicita, naturalizzata nella vita politica; nel passaggio dall’egemonia all’ideologia il popolo diventa così un riferimento collettivo astratto, adattabile alle logiche identitarie e, questo sì, necessariamente nazionaliste. Piaccia o meno, i populismi stanno diventando attori di primo piano nella politica europea e dei singoli Stati, e non basta più interrogarsi sulla loro compatibilità con il sistema democratico. Occorre invece esaminare le progettualità sociali di cui si fanno portatori (o portavoce), considerando le conseguenze che possono avere sul medio-lungo termine.
Mentre l’aspetto dell’egemonia riguarda il modo in cui populismi costruiscono il proprio consenso e raggiungono il potere, l’ideologia ci mostra come tale potere verrà impiegato, cioè come si tradurrà in pratiche politiche concrete. La pandemia del Covid-19 sta dando un’anticipazione delle sfide che ci attendono nei prossimi anni, sfide sempre più globali che, per essere affrontate, richiedono anzitutto la capacità di riconoscere e accettare i limiti e la fallibilità dei propri modelli culturali. I populismi, con le loro retoriche identitarie, non brillano per queste qualità. Considerando una questione centrale come quella dei cambiamenti climatici, i cui effetti non hanno riguardo per i confini nazionali, occorre chiedersi insieme a Gramsci «quale significato può avere oggi il nazionalismo?» (Q9, §132). E oggi, quale significato vogliamo dare al popolo?
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).
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