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Dall’etnografia al retelling cinematografico. Un caso di magismo siciliano

da La bocca dell'anima" di Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

di Annamaria Clemente 

Una piazza innevata, a sinistra il loggiato di una chiesa è sicuramente la Chiesa Madre del paese, a destra edifici bassi, case di quelli che saranno gli abitanti. Dominano colori freddi, plumbei, il bianco della neve, il grigio della pietra, il cinereo delle nubi. Non un’anima, silenzio. O forse no. La neve continua a fioccare, il vento a sferzare, accanto alla chiesa si forma un piccolo vortice di polvere e neve, «‘na rufuliata, che sia la ddraunara?» penso.

Con questo pensiero inizia il mio viaggio ne “La Bocca dell’anima”, esordio cinematografico del giovane regista palermitano Giuseppe Carleo, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e Palermo in Recitazione e Regia.  Carleo è già apprezzato  per i suoi cortometraggi tra cui “Parru pi tia”(2018) in cui in nuce si manifesta la fascinazione del tema del magismo e che in questo suo primo lungometraggio trova pieno sviluppo. Il film è stato presentato al 70° Taormina Film Festival e come dichiara lo stesso Carleo, nelle note di regia, il lungometraggio tenta di esplorare il mondo della magia popolare nel contesto siciliano. «Questo film è un viaggio dentro la magia popolare, che ci permetterà di entrare nei recessi della casa di un antico guaritore, lì dove prepara i feticci e recita le orazioni magiche per liberare dalle sofferenze coloro che credono in lui».

Non solo nei recessi di una casa, Carleo vuole condurci dentro gli abissi, nelle profondità del corpo, nel luogo dove giace l’anima e trovano rifugio altre presenze, in quello che è il «[…]  ricettacolo degli esseri che dal mondo esterno provengono, sia dalla natura sia dalla cultura» (Guggino 1986:89) e localizzabile ne a vucca i l’arma, corrispondente nella rappresentazione dell’anatomia siciliana alla regione epigastrica. «La “bocca dello stomaco/bocca dell’anima” è il luogo in massimo grado investito dai movimenti della vita: non solo soglia di guardia fra basso e alto, natura e cultura etc., ma anche punto di convergenza e di sintesi di ciò che si muove dentro lo stomaco, dunque dei rapporti fra corpo individuale e corpo sociale, fra interno e esterno» (Guggino 1986:89).

Frugheremo così in quello che è il corpo di Giovanni Velasques (Maziar Firouzi) e tra i budelli  petrosi e scoscesi di Petrasanta, immaginario paesino siciliano incastonato tra le montagne, dove il protagonista ritorna all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Giovanni non è un eroe, o non lo è ancora, e le prime immagini che scortano l’entrata in scena, coincidenti con il suo ingresso in paese lo ritraggono come un reduce di guerra, un sopravvissuto all’orrore, un “riportato indietro” in accordo con l’etimo latino. Defedato, sporco, claudicante e visibilmente carico di affanni fisici e psichici, il giovane giunto in piazza al suono delle campane stramazzerà al suolo. Le stecche di una persiana si dischiuderanno mentre lui riprenderà coscienza attorniato dalla comunità: «ma cu è, il figlio di Velasques?», «seee», «ma cu è?», «avi l’occhi ri fuodde talìalo». Giovanni, silente, si guarderà intorno. Un amico, avendolo riconosciuto, intimerà ai compaesani di lasciarlo stare mentre una ragazza dagli occhi chiarissimi, la fidanzata, si farà strada tra il gruppo e lo porterà via. Al loro passaggio i mormorii continueranno «mi fa impressione, mi fa» mentre dalla stessa persiana che si richiude giunge una sentenza secca: «è laria a guerra!».

da "La bocca dell'anima" di Giuseppe Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

Così Giovanni, apparentemente, torna e si appresterà al difficile reinserimento all’interno della comunità. Tuttavia il rientro non è semplice, né per lui e né per il gruppo: lo osserviamo muoversi faticosamente, ripiegato su se stesso con la mano che accarezza lo stomaco in cerca di conforto e tregua, spesso in stato catatonico: «Teccà mancia ca t’arripigghiari, se no a campagna ca ti lassò to’ patri cu l’avi a governare?» –  tieni mangia che devi riprenderti, altrimenti la campagna che ti ha lasciato tuo padre chi la coltiva? –  dice il suocero durante la prima cena offrendogli il suo asino come aiuto. A colmare i suoi silenzi sono i mormorii dei compaesani, un brusio da cui emergono frasi nitide e precise, tese a tracciare un quadro fosco di ciò che sta accadendo, come quell’esclamazione «Matri mia picciuotti!» al suo arrivo in taverna, che segna un netto e repentino cambiamento nell’atmosfera di allegra convivialità tra gli avventori e il gestore del locale. La frase, un’invocazione alla Madonna, è generalmente usata in modo colloquiale per esprimere stupore, sorpresa o sgomento e in questo contesto specifico assume significato di scongiuro, volto ad allontanare qualcosa e/o qualcuno percepito come minaccia. Alla frase segue una sospensione delle attività tra i presenti, mentre tutti gli sguardi si posano su Giovanni, sui suoi gesti, i suoi movimenti.

Costantemente sotto il guardingo controllo della comunità, il protagonista è seguito a vista: dal mafioso locale Don Minicu (Claudio Collovà) interessato a riscuotere un vecchio debito contratto dal padre; dal prete Don Pino (Maurizio Bologna) che vuol capire cosa c’è che non va; e dai suoi stessi cari, la fidanzata Angela (Marilù Pipitone) e i suoceri (Maurizio Spicuzza e Alessandra Pizzullo). Sempre più assente, irrequieto e inquieto, Giovanni subisce l’ennesima pressione sociale quando il suocero chiede in quale confraternita intenda entrare, se in quella paterna come da tradizione o la sua. Sarà quindi preda di una violenta crisi e nei sintomi avverrà il riconoscimento di quei referenti che rinviano al registro dal linguaggio magico tradizionale, «chi sta ddiciendo?», «u sintisti? ‘taliano Parlò!». Scrive Elsa Guggino: «L’uso dell’italiano è infatti indice di uno stato alieno, per chi, […] avverte tale lingua estranea alla propria cultura» (Guggino 1978: 36). Constatando che non era la prima volta e che il giudizio medico aveva diagnosticato una polmonite che, malgrado le cure, non accenna a guarire, l’unica soluzione che si prospetta è portarlo da Mariannina (Serena Barone), la maara del paese. 

“La Bocca dell’anima” non è un docufilm o un film antropologico ma una fiction, un lungometraggio di finzione ma dal taglio antropologico, la cui sceneggiatura è frutto di uno studio di testi antropologici e indagini etnografiche da parte del regista e del co-sceneggiatore Carlo Cannella e il cui intento narrativo è quello di portare sullo schermo ciò che è la magia popolare siciliana. Magia non come divertissement, argomento leggero o morbosa attrazione per il soprannaturale, ma in quanto codice linguistico usato quotidianamente, un sistema di segni, regole e significati che consente la comunicazione tra i membri di uno specifico gruppo sociale. Un progetto ammirevole nelle intenzioni quanto difficile nella realtà fattuale, che si scontra con l’analisi di un fenomeno, il pensiero magico,  le cui pratiche sono reazioni culturalmente connotate, risposte orientate da bisogni esistenziali e identitari e sollecitate da un modo di guardare al mondo tipico della cultura contadina del Sud Italia. Un mondo vissuto e interpretato come ostile e precario, imprevedibile e minaccioso, animato da ansie e incertezze, disagi e miserie che investono drammaticamente il piano psicologico, sia individuale che collettivo.

da "La bocca dell'anima" di Giuseppe Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

Il mondo in cui si addentra Carleo è stratificato e intricato, dove le strutture logiche, preposte all’organizzazione del caos in cosmos e dei rapporti di causa-effetto, seguono percorsi non diversi o altri da quelli operanti in quella che è la cultura egemone, ma sono bensì da rapportare ad un modo molto complesso e articolato di riferirsi alla realtà:  «La drammaticità del mondo magico all’interno delle classi subalterne non deriva da una incapacità di processi logici, ma dal suo essere espressione di una cultura che, proprio per la sua subalternità, in molti casi risulta “un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia”» (Gramsci 1971: 268 in Guggino 1978: 215). Se in certe culture primitive, pertanto, il segno magico è definitivamente informativo poiché organicamente inserito tra gli altri modelli culturali della società, presso le classi subalterne, invece, «l’atto di creazione e trasmissione di significati propri al segno magico, disorganicamente e contraddittoriamente si produce a fianco di altri segni» (ibidem).

Il regista dovrà quindi destreggiarsi e muoversi in un contesto culturale frammentato e contraddittorio, su cui graverà un ulteriore impegno di traduzione. Se infatti il lavoro etnografico è già interpretazione di una cultura e  sua traduzione, egli dovrà misurarsi anche con la trasposizione di tale interpretazione su un medium diverso dalla classica monografia. Il film usato in quanto medium, dotato di un suo sistema espressivo con regole proprie e diverse, potrebbe  limitare o facilitare la trasmissione dei concetti e la comprensione del fenomeno. In altri termini: il regista è chiamato alla sfida del rappresentare quelli che sono i risultati di uno studio antropologico, di restituire le pratiche e le dinamiche sociali, le visioni del mondo, i miti e le cosmologie, le configurazioni connesse al corpo individuale e collettivo, la rappresentazione della malattia, finanche le sottese speranze e aspettative di un particolare gruppo umano. In particolare la problematicità rappresentativa si addensa intorno al processo di traslazione dal piano del linguaggio magico utilizzato – da un gruppo storicamente e geograficamente situato – ad un piano di fruizione di altri gruppi che non condividono il lessico e la morfo-sintassi del linguaggio magico e pertanto esposti al rischio di incomprensibilità, di interpretazione opaca o fuorviante della realtà e della cultura documentata.

Il regista dovrà quindi concentrarsi sulla trasposizione filmica di questi dati e su come restituire accuratamente l’interpretazione di una cultura adattandola al medium scelto e offrendone, al contempo, una narrazione visiva che consenta a chi non possiede il codice magico di comprendere ciò che sta osservando. È inoltre intuitivo come l’adattamento di uno studio scientifico sia un processo articolato e richieda una particolare attenzione investendo più piani: a partire dall’etica della rappresentazione alle questioni di oggettività e soggettività autoriale, dal focus narrativo da adottare alla prudenza nelle scelte stilistiche da applicare; così come è fondamentale esercitare cautela nel montaggio e nella selezione dei contenuti, poiché questi elementi possono influenzare significativamente la rappresentazione della realtà etnografica; o ancora la compressione temporale, imposta dai vincoli tecnici del film che può portare a una visione parziale o semplificata della realtà, impedendo una visione organica dei livelli di significato che intersecano il contesto storico, politico ed economico; la difficoltà di esprimere visivamente concetti difficilmente rappresentabili, tra cui tutto ciò che attiene al non detto, alle norme sociali invisibili, ai valori culturali impliciti o alle strutture di potere.  Come affronta Carleo  tali sfide?

da "La bocca dell'anima" di Giuseppe Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

Iniziamo osservando il nucleo narrativo il quale è liberamente ispirato ad una delle storie di vita  raccolta negli anni Settanta dall’antropologa Elsa Guggino durante le indagini condotte sulla magia in Sicilia e le figure dei guaritori tradizionali. Il retelling operato sulla pellicola ne modifica ambientazione, introduce nuovi elementi e dettagli narrativi così come personaggi e caratterizzazioni diverse ma non altera quelli che sono, a livello strutturale, gli elementi contenuti nel documento etnografico marcanti i nodi dell’itinerario tradizionalmente prescritto del divenire mago. Lodevole è il lavoro di Carleo nel seguire pedissequamente la scansione rituale restituendo un’immagine visiva coerente ai contenuti dei testi dell’antropologa: il soggetto destinato a diventare maaro si presenta nella condizione di fatturato, ovvero come colui a cui è stato indirizzato un maleficio da un mago/a su commissione e che prevede l’invio di quelli che sono gli esseri. «Le anime di coloro la cui vita è stata violentemente stroncata, di quanti non hanno ricevuto sepoltura, i santi, i personaggi famosi della storia e della leggenda, danno volto nel mondo dei maghi alla fluttuante realtà degli esseri» (Guggino 1978: 98). La condizione di fatturato è segnalata da un malessere psicofisico, dall’insorgenza di una crisi che lo pone in una condizione di estraniamento da sé, all’esilio della mente e della società. Uno stato di alienazione che in modo progressivo raggiungerà l’acme attraverso la manifestazione incontrollata dell’essere che lo agisce. In questa fase abbiamo una svelamento parziale che indica uno stato di eccezionalità del soggetto che necessita di essere indagata e per questo si ricorre all’ausilio di un altro mago che risolverà il dono per mezzo di una controfattura orientata a sviluppare gli esseri e convertirli quindi in potere.

Procedendo negli incontri iniziatici tra mago e neofita uno tra gli esseri ne assumerà il comando, «[…] ossia l’essere principe con cui il mago si identificherà nell’espressione massima della sua potenza» (Guggino 2006: 33). L’iter iniziatico di Giovanni non è ridotto a mero spettacolo, selezionando solo i momenti che potrebbero essere visivamente accattivanti, oppure attraverso un processo di esotizzazione, fissando la visione su elementi mainstream misteriosi o occulti, ma è sostenuto da uno sguardo che ben radica le diverse pratiche magiche all’interno del sistema di credenza. La conoscenza approfondita di Carleo sull’argomento si evince dall’attenzione posta dal regista nel dare ampio respiro all’altro grande protagonista/antagonista del film che è la comunità di Petrasanta e che si pone fin da subito come occhio morale e voce narrante capace di orientare lo sguardo dello spettatore indirizzandolo verso determinate interpretazioni di ciò che sta scorrendo sulla pellicola. La scelta di rendere presenza viva la comunità e non relegarla al fondo scenico rispetto soprattutto alla crisi della presenza del protagonista non è casuale, ma discende dall’ideologia soggiacente al mondo magico, in quanto è il polo collettivo che non solo consente l’individuazione e sancisce la consacrazione del maaro attribuendogli poteri e capacità, ma ancora prima «perché la magia esista, […], è necessario che la società sia presente» (Mauss 1965: 130 in Guggino 1993: 13). Ciò vuole dire che la magia esiste solo in presenza di un sistema di credenze che lo giustifica. La credenza non è semplice atto di fede del singolo ma un fenomeno collettivo, costrutto sociale, che risponde a precisi e ineludibili bisogni comunitari, la fede sia essa di ordine religioso o magico si pone come prodotto del bisogno comune di trovare e affidarsi a un meccanismo di controllo e di gestione delle ansie sociali. L’antropologa in apertura al libro Il corpo è fatto di sillabe (1993) cita un passo di Marcel Mauss denso e suggestivo che rende intellegibili gli invisibili fili che collegano il singolo destinato a percorrere la via dell’eroe escatologico e la collettività: « Dietro Mosè che tasta la roccia, c’è tutto Israele e, se Mosè dubita, Israele non dubita; dietro lo stregone di villaggio che segue il suo bastone, c’è l’ansietà del villaggio in cerca di sorgenti» (ibidem). E dietro Giovanni fin dall’inizio c’è Petrasanta, è la comunità che coglie per prima i segnali dello stato di eccezionalità, così come è la comunità che gli attribuisce il potere e a lui ricorre per risolvere problemi e conflitti. Carleo ha ben gestito la dinamica singolo-società e ulteriore prova è la scena dell’omelia che si trasforma in invettiva che tutti include e nessuno esclude, nell’uso del plurale, nella responsabilità condivisa: « ittastivu stu paisi na vriogna e nella violenza».

da "La bocca dell'anima" di Giuseppe Carleo

da “La bocca dell’anima” di Giuseppe Carleo

Ma non solo anche la rappresentazione della malattia e del suo trasferimento sul piano magico per essere addomesticata e quindi risolta, le strutture operanti dietro il pensiero magico, emergono chiaramente: « E che cosa è Giuvà? Ca iu un c’ha fazzu cchiù?» «Chi cos’è? M’avissi addumanari cu ie…», nella risposta il male avvertito dal soggetto non è frutto di una malattia ma di una fattura operata da chi vuole il male. O ancora le tradizioni come nella  fuga di Angela, di notte, tra le vie del paese che non solo rappresenta l’angoscia della giovane donna, ma evidenzia soprattutto la violazione di una norma tradizionale: non si portano in giro, soprattutto di notte, bambini non battezzati perché si espone il bambino al rischio di una incorporazione di esseri vaganti, come suggerito dall’ansito che sentiamo. A confermare il monito implicito sarà nella scena successiva  la sequenza narrativa in cui si manifesterà l’urgenza del battesimo. Dubbia invece, ma solo in termini di restituzione antropologica, è una chiave di lettura che si applica al rapporto tra Giovanni ed Eric Marchese. La romanticizzazione del rapporto se da una parte aiuta la comprensione di quello che è il «dramma sostanziale della perdita di identità» del mago (Guggino 1986:128), dall’altro, potrebbe restituire un’immagine distorta del rapporto di perfetta coincidenza e di mutuo rispetto tra il maaro e l’essere: «Tra il mago e gli esseri si istituisce una identità» (Guggino 1978: 98).

Vi è inoltre qualche difficoltà di resa linguistica, sentiamo in una scena: «Accussì da strafalara i to’ cugnata avi a mmoriri d’invidia», mentre leggiamo nei sottotitoli sullo schermo l’aggettivo «stracchiola» come traduzione di «strafalara». A questo livello si manifesta la complessità dell’operazione di traduzione linguistica, l’aggettivo è intraducibile rispetto al significato che la parola assume nel contesto e la cui resa viene risolta appoggiandosi ad una parola «stracchiola» riconducibile alla varietà di italiano regionale. La piena comprensione viene osteggiata dall’impossibilità di una esatta traduzione mentre la creazione del significato affidata alla sensibilità personale degli spettatori e all’intuizione di cosa possa rappresentare augurare di non aver figli, capitale umano da investire nel lavoro per sopravvivere, in un’economia di sussistenza come quella narrata.

Ritorniamo così al problema di traduzione. Se da un lato Carleo, forte di uno sguardo emico, di soggetto plasmato dalla stessa cultura lungamente studiata, riesce a trasporre visivamente molti degli elementi del mondo magico – potentissima l’immagine del crostaceo che richiama la matrazza e le scene in dissolvenza che confondono i piani del cielo, della terra e del mare di cui mi piace pensare siano un implicito omaggio ad Un Pezzo di terra di cielo ( Guggino 1986) – dall’altro altri elementi, a causa della stessa irriducibile complessità della materia e di alcuni ineludibili limiti del media utilizzato, saranno  enigmatici, misteriosi, incomprensibili, rendendo il suo film simile a i cosi, agli esseri dallo statuto ambiguo che cerca di narrare. Tale difficoltà di comprensione mi sembra che emerga per esempio nella volontà da parte della critica di collocare e incasellare il film in un genere preciso. “La bocca dell’anima” non è un fantasy, né gotico, non è un horror né un ibrido che mescola realismo e fantastico come viene definito o si tenta di accostare, è un dramma storico in cui la magia vive nel piano della realtà e lo stesso epilogo lo conferma. Non vi è alcuna rinuncia del potere da parte di Giovanni ma solo l’inizio del nuovo eterno ciclo della non-storia del Sud contadino.                           

 Dialoghi Mediterranei, n. 70, novembre 2024
Riferimenti bibliografici 
De Martino E., 1959, Sud e Magia, Feltrinelli, Milano
Gramsci A., 1971, Letteratura e vita nazionale, Editori Riuniti, Roma.
Guggino E., 1978, La Magia in Sicilia, Sellerio Editore, Palermo.
Guggino E., 1986, Un pezzo di terra di cielo, Sellerio Editore, Palermo.
Guggino E., 1993,  Il corpo è fatto di sillabe, Sellerio Editore, Palermo.
Guggino E., 2006, Fate, sibille e altre strane donne, Sellerio Editore, Palermo.
Mauss M., 1965, Teoria generale della Magia e altri saggi, Giulio Einaudi Editori, Torino. 

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Annamaria Clemente, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni. Ama la fotografia cui si dedica da dilettante.

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