«I sottoprefetti sono come le unghie del corpo amministrativo»: così Francesco De Sanctis in un editoriale del 1864 su L’Italia, di cui era direttore, nel quale ne patrocinava la soppressione, sottolineando che Ferdinando II in essi poneva «le salde fondamenta del suo sistema» (Marenghi 1971). Pressoché tutti gli Stati preunitari conoscevano, in realtà, circoscrizioni amministrative intermedie rispetto alla provincia, guidate da un esponente dei governi centrali.
Conclusasi in modo infausto la seconda guerra di indipendenza, avvalendosi ancora dei poteri conferitigli dal Parlamento colla Legge 25 aprile 1859, n. 3345, per il «caso di guerra», Vittorio Emanuele II emanava, senza alcun dibattito parlamentare, il R.D. (Regio Decreto) 23 ottobre 1859, n. 3702, sull’ordinamento comunale e provinciale.
Il Regno era diviso in province, con un governatore che vi «rappresentava il potere esecutivo», «veglia(ndo) sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni» e «soprintende(ndo) alla pubblica sicurezza», un vice governatore ed un Consiglio di Governo, con funzioni consultive e giudiziarie. Ogni provincia era frazionata in una pluralità di circondari (e ciascuno di essi in «mandamenti e comuni»), cui era preposto un intendente (nel circondario del capoluogo il vice governatore), sottoposto alla direzione del governatore, ma con il potere di «provvede(re) direttamente nei casi di urgenza». Malgrado il riconoscimento della qualità di «corpo morale», rimaneva intensa la possibilità di ingerenza dell’intendente nella vita del Comune, potendo intervenire ai consigli, «anche per mezzo di altri ufficiali», benché senza «voce deliberativa». All’intendente spettava inoltre «il potere di iniziativa o proposta», con l’obbligo del consiglio di esaminare e discutere per prime quelle da lui avanzate (vigendo l’istituto del silenzio-assenso); a lui doveva essere trasmessa, entro otto giorni, ogni delibera, per l’esame della sua regolarità formale e della legittimità, col potere di sospenderne l’esecuzione con decreto motivato (l’annullamento era riservato al governatore). Soprattutto, il fatto che il sindaco – anche se da scegliersi fra i consiglieri – fosse nominato dal re, consentiva un’ampia influenza del governatore e dell’intendente, che istruivano le relative pratiche ed avanzavano le proposte, su uno dei gangli vitali dell’ente (Scoca 1967: 49 ssg.).
Particolare rilevanza assumeva la «garanzia amministrativa» per la quale il governatore, l’intendente e coloro che ne facevano le veci, non potevano «essere chiamati a rendere conto dell’esercizio delle loro funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né (essere) sottoposti a procedimento per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del Re»1.
La legge cancellava gli ordinamenti temporanei attuati poco prima in Lombardia (R.D.8 giugno 1859, n. 3425) e nei ducati di Modena e Parma (Rr. Dd. 15 giugno 1859, n. 3340 e 3341), «dando così inizio (al) processo di piemontesizzazione delle istituzioni del nuovo Regno» Astuti 1966:119-136), sicché non meraviglia che provocasse forti resistenze e notevoli critiche per la mancata considerazione delle particolari tradizioni delle singole regioni, oltre che per le limitazioni imposte alle autonomie locali e per la persistente restrizione dell’elettorato, che non impediranno che venga man mano estesa alle nuove province annesse.
Una iniziale riorganizzazione delle amministrazioni locali si ebbe, in Sicilia, con uno dei primi provvedimenti del generale Garibaldi, appena assunta la dittatura «nel nome di Vittorio Emmanuele Re d’Italia», con l’istituzione e la nomina di un governatore in ognuno dei ventiquattro distretti, col compito di «stabilire in ogni comune il Consiglio civico e tutti i funzionari esistenti prima dell’occupazione borbonica», esercitare «la sua tutela su tutte le amministrazioni pubbliche» e «dirigerne l’andamento», decidere sulle incapacità derivanti dalla connivenza col Borbone (D. 17 maggio 1860, n. 4)2. Successivamente i governatori vennero distinti in due classi, di cui la prima per i distretti dei capoluoghi di provincia, e la seconda per gli altri (D. 18 giugno 1860, n. 48); di lì a poco si stabiliva la «dipendenza» dei governatori di seconda classe da quelli di prima (D. 29 giugno 1860, n. 73), ricostituendosi in tal modo, sostanzialmente, la distinzione tra due diverse entità territoriali, quali saranno le province e i circondari (Brancato 1965:131-147).
La riforma ebbe, tuttavia, carattere meramente provvisorio. Ancor prima che il plebiscito votasse l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia (21 ottobre 1860), con Legge del 26 agosto 1860, n. 170, il prodittatore Agostino Depretis estendeva alla Sicilia la legge piemontese n. 3702 del 23 ottobre 1859, anche se con alcune disposizioni particolari per l’Isola, in materia di elezioni e di eleggibilità, superando le obiezioni del Crispi, dell’Amari e di altri esponenti politici siciliani.
A capo delle province, immutate in numero di sette, rimaneva il governatore, mentre gli antichi distretti mutavano la denominazione in circondari, con a capo un intendente (in precedenza sottintendente), e i circondari in mandamenti. Le province di Palermo, Messina e Catania comprendevano quattro circondari ciascuna; tre circondari le minori province di Noto, Girgenti, Caltanissetta e Trapani (Trapani, Alcamo e Mazara). Se si eccettuano i circondari dei capoluoghi – con 313.026 abitanti a Palermo, 181.950 a Messina, 165.323 a Catania e 152.026 a Girgenti –, gli altri oscillavano da un minimo di 41.122 abitanti a Terranova, ai 45.013 di Mistretta, 50.393 di Sciacca e 52.188 di Bivona, fino ad un massimo di 123.219 abitanti per Modica, più che doppi rispetto a quelli del capoluogo (Noto) e superiori agli abitanti del circondario di Siracusa.
Da un minimo di quattro (Alcamo e Corleone) ad un massimo di quattordici (Girgenti) i comuni dei circondari, ma tredici ne contava Palermo, dodici Catania e undici Messina; la maggior parte oscillava da cinque (Mazara, Mistretta, Bivona, Sciacca, Terranova) a sette comuni (Castroreale, Nicosia, Noto, Siracusa, Caltanissetta e Piazza); sei erano i comuni nei circondari di Trapani, Acireale e Patti, otto quelli di Termini, Caltagirone e Modica, nove a Cefalù.
Il circondario di Trapani comprendeva il mandamento omonimo e quelli di Marsala, Monte San Giuliano, Pantelleria e Favignana, il cui territorio coincideva con quello dei comuni omonimi, nonché Paceco, con Paceco e Xitta; quello di Alcamo il mandamento omonimo (Alcamo e Camporeale) e quelli di Gibellina (Gibellina, Poggioreale e Salaparuta), Calatafimi (Calatafimi e Vita) e Castellammare; quello di Mazara, infine, il mandamento del capoluogo (anche se con un numero minore di abitanti rispetto ad altri: 8.318), e quelli di Castelvetrano (Castelvetrano e Campobello), Salemi, Partanna e Santa Ninfa. Col R.D. 9 ottobre 1861, n. 250, al governatore e all’intendente saranno attribuiti, rispettivamente, le qualifiche di prefetto e di sottoprefetto, proprie dell’ordinamento napoleonico, mentre venne abolita la figura del vice governatore.
Il dibattito, incentratosi sin dall’inizio sui limiti dell’autonomia degli enti locali nei confronti del potere centrale, culminò nella legge 20 marzo 1865, n. 2248, per l’unificazione amministrativa, il cui allegato «A» conteneva la nuova legge comunale e provinciale esemplata sostanzialmente sui principi di quella piemontese del 1859. Il sottoprefetto assunse una più precisa fisionomia, con delicati poteri di sorveglianza e controllo sugli atti delle amministrazioni comunali, nonché di informazione, di particolare rilevanza nelle proposte prefettizie per la nomina dei sindaci. Presso gli uffici della sottoprefettura erano costituiti, inoltre, i delegati di pubblica sicurezza (all. B, contenente la legge sulla sicurezza pubblica).
Numerosi quindi i tentativi di modificare la legge al fine di garantire una maggiore autonomia agli enti locali, con la soppressione delle sottoprefetture, l’allargamento dell’elettorato attivo e l’eleggibilità dei sindaci. Per giungere ad un risultato concreto si dovrà attendere il mutamento della compagine parlamentare, con l’avvento del Crispi (7 agosto 1887), allorché veniva elaborato un progetto, confluito nella Legge 30 dicembre 1888, n. 5865 (poi t. u. 10 febbraio 1889, n. 5921, e regolamento R.D. 10 giugno 1889, n. 6407, e, dopo alcune modifiche, t. u. 4 maggio 1898, n 164, Rr.Dd. 19 settembre 1899, n. 194, e 20 dicembre 1901, n. 566): confermata la precedente divisione del Regno, rimaneva allargato l’elettorato attivo (sufficiente ora il pagamento di una imposta diretta o non meno di £. 5 di tasse comunali), che portava gli elettori da due a poco meno di quattro milioni, e prevista l’elettività dei sindaci nei comuni capoluoghi di provincia, di distretto e di mandamento, o superiori a 10.000 abitanti3. Ai gravi motivi di ordine pubblico per lo scioglimento dei consigli comunali era aggiunto il caso in cui, «richiamati alla osservanza degli obblighi loro imposti per legge persistono nel violarli»: dagli inizi del 1890 gli interventi di scioglimento dei consigli (e le proposte dei sottoprefetti) si intensificheranno (De Cesare 1977: 413-503).
L’avvento del Di Rudinì (9 febbraio 1891) concentrava il dibattito sullo stato disastroso delle finanze locali, sul potere di scioglimento dei consigli comunali, di cui il governo continuava ad avvalersi abbondantemente, e sull’elezione diretta dei sindaci. Le rivolte dei Fasci e lo stato d’assedio che ne era seguito (R.D. 3 gennaio 1894, n. 1) determinavano nell’Isola l’istituzione di un Regio Commissariato Civile, affidato al senatore Giovanni Codronchi Argeli, con la prefettura di Palermo, cui erano sottoposti i prefetti delle altre province, con ampi poteri di ingerenza nelle amministrazioni locali, che si estendevano alla revisione dei bilanci, alla modifica dei ruoli delle imposte e dei dazi, alla sospensione dei funzionari statali (R.D. 5 aprile 1896, n. 94, convertito con Legge 30 luglio 1896, n. 345) (Astuto 1998:167-195; Renda 1985:192 ssg.).
Prefetti e sottoprefetti rimasero elementi decisivi della politica locale di Giolitti, che, come afferma il Sonnino, « non aveva nessuna intenzione di privarsi di questa efficacissima arma di azione e di pressione sugli enti amministrativi locali, quale era lo scioglimento dei consigli», di cui «fece uso ed abuso» (Salvemini 1962: 525, 548 sgg.). Dopo il testo unico approvato con il R.D. 4 febbraio 1915, n. 148, i tentativi di riforma riprenderanno nel primo dopoguerra, anche con la costituzione di ripetute commissioni (emblematica la commissione monstre, di seicento componenti, prevista dal D. 30 giugno 1918).
Quello che non era sin allora riuscito sarà portato a compimento, ma con tutt’altri intendimenti, da Mussolini, che, raggiunto l’incarico governativo con la «marcia su Roma», chiese ed ottenne immediatamente di provvedere mediante decreti al «riordinamento della pubblica amministrazione» (R.D. 3 dicembre 1922, n. 1601). Fra i numerosi provvedimenti emanati – nelle più disparate materie – la riforma della legge comunale e provinciale (R.D. 30 dicembre 1923, n, 2839), la cui Relazione ne precisava, senza infingimenti, l’intendimento di «costituire uno Stato materialmente e moralmente forte». Si dava quindi nuovo vigore alle sottoprefetture, «coefficiente di alto rilievo dell’amministrazione locale», assegnando un sottoprefetto ai circondari dei capoluoghi di provincia, sin allora affidati direttamente al prefetto; venivano intensificati i controlli preventivi di legittimità sulle deliberazioni e sui contratti comunali ed incrementate le funzioni ispettive. Contemporaneamente venivano soppressi alcuni circondari meno importanti, mentre tra il 1925 ed il 1926 ne saranno istituiti di nuovi, e fra questi, in Sicilia, il circondario di Ragusa, con comuni staccati da quello di Modica (R.D. 7 gennaio 1926, n. 33), che preluderà all’omonima provincia.
Il decreto portava già, in nuce, gli elementi distintivi dello Stato accentratore e costituisce l’ultimo tentativo di mantenere in vita le sottoprefetture. Se prima della marcia su Roma varie amministrazioni di colorito liberale, e vieppiù rosse, avevano dovuto subire la violenza di spedizioni punitive fasciste, con la «normalizzazione» seguita alla conquista del potere, sarebbe aumentato il numero di quelle sospese o sciolte, con vari pretesti, mentre prefetti e sottoprefetti meno docili ai voleri del centro venivano facilmente esentati dal loro ufficio.
Le elezioni seguite al delitto Matteotti (1924) porranno il Parlamento in mano ai fascisti mediante una legge elettorale che garantiva un premio alla coalizione che avesse conquistato la maggioranza semplice. L’esigenza di un sempre più forte accentramento politico-amministrativo segnava la fine del circondario. La Legge 6 febbraio 1926, n. 237, sostituiva ai sindaci, nei comuni con popolazione non eccedente i cinquemila abitanti, i podestà di nomina governativa (con una Consulta con funzioni meramente consultive), che il Federzoni, in una relazione infarcita di sconclusionati riferimenti storici, faceva derivare dal superamento dell’assolutismo feudale e dalle debolezze del Consolato. Nel corso dello stesso anno l’istituto del podestà veniva esteso ai comuni stazione di cura soggiorno e turismo e a quelli colpiti dai terremoti del 1908 e del 13 gennaio 1915 (L. 14 aprile 1926, n. 765); l’estensione all’intero territorio nazionale (con l’eccezione di Roma) avverrà col R.D.L. 3 settembre 1926, n. 1910, col quale vennero istituiti dei vice podestà (uno nei comuni tra 20.000 e 100.000 abitanti; due per quelli maggiori). Pressoché contemporaneamente, la Legge 3 aprile 1926, n. 660, estendeva le attribuzioni dei prefetti, al fine di «assicurare, in conformità con le generali direttive del Governo, unità d’indirizzo politico nello svolgimento dei diversi servizi di spettanza dello Stato e degli enti locali».
L’amministrazione dei comuni da parte di un affidabile podestà, sul quale il regime poteva contare, per di più strettamente sottoposto alla vigilanza prefettizia, rendeva superfluo il mantenimento delle sottoprefetture, col rischio di dover controllare un gran numero di funzionari e l’eventuale riottosità ai voleri del regime. Con il R.D. 21 ottobre 1926, n. 2195, venivano quindi soppressi ben novantaquattro circondari, fra cui, in Sicilia, quelli di Mazara del Vallo e di Acireale, i cui comuni venivano aggregati al circondario del capoluogo provinciale, nonché quello di Termini Imerese, smembrato e aggregato al circondario di Palermo e, in parte (Alia, Aliminusa, Caltavuturo, Cerda, Montemaggiore Belsito, Roccapalumba, Sciara, Sclafani e Valledolmo), a quello di Cefalù. A distanza di pochi mesi, il R.D.L. 2 gennaio 1927, n. 1, dichiarava soppresse tutte le (rimanenti) sottoprefetture, elevandone alcune, singolarmente o mediante l’aggregazione con comuni viciniori, a provincia. Sorgevano, in tal modo, ben diciassette nuove province, e, in Sicilia, le province di Castrogiovanni (Enna dal 28 ottobre 1927), con gli ex circondari di Piazza Armerina e di Nicosia, e di Ragusa, con i comuni del circondario omonimo e di quello di Modica4.
Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Note
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Successivamente circoscritta dalla giurisprudenza all’ambito penale, sarà dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con sentenza 22 ottobre 1964-4 febbraio 1965, n. 4.
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Una posizione particolare veniva riconosciuta a Palermo (D. 28 maggio 1860, n. 9) con la ricostituzione del Senato, sotto la presidenza del pretore, al quale venivano attribuite «le facoltà date al governatore del distretto».
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Veniva anche istituita la Giunta provinciale amministrativa presieduta dal prefetto.
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Come è noto i documenti delle sottoprefetture di Alcamo e di Mazara del Vallo, di grande interesse per la storia locale in epoca moderna, sono conservati presso il locale Archivio dello Stato di Trapani (anche fra gli atti della prefettura).
Riferimenti bibliografici
Acquarone A. (1965), L’organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino
Astuti G. (1966), L’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, Morano, Napoli
Astuto G. (1998), Commissariato civile e amministrazioni comunali nella Sicilia di fine Ottocento, in Annale ISAP, VI, 1998, pp. 167-195
Brancato F. (1965), La dittatura garibaldina nel Mezzogiorno e in Sicilia, Cèlébes, Trapani
De Cesare G. (1977), L’ordinamento comunale e provinciale in Italia dal 1862 al 1942, Giuffrè, Milano
Marenghi E. M. (1971), Sottoprefetti e governo locale intermedio in uno scritto di Francesco De Sanctis, in Riv. trim. dir. pub., XXI, pp. 568-579
Renda F. (1987) , La «questione sociale» e i Fasci (1874-94), in Le Regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia, a c. di M. Aymard e G. Giarrizzo, Einaudi, Torino, pp. 157-188
Salvemini (1962), Il ministro della mala vita e altri scritti sull’età giolittiana, Feltrinelli, Milano
Scoca F. G. (1967), La figura del Sindaco dal 1848 ad oggi, in Atti del congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione. I Comuni, a cura di M. S. Giannini, Neri Pozza, Vicenza
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Gaetano Nicastro, entrato giovanissimo in Magistratura, ne ha percorso tutti i gradi, fino a quello di Presidente della Corte Suprema di Cassazione ed è stato insignito della più alta onorificenza al merito della Repubblica, quella di Cavaliere di gran croce. Studioso di storia siciliana, ha dedicato tre volumi alle “relationes ad limina” della Chiesa di Mazara. Molti suoi saggi sono pubblicati su Mediterranea. Ricerche storiche e su Memorie e Rendiconti dell’Accademia degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale.
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