Non c’è mai un modo culturalmente neutro di accostarci alla diversità. Ogni volta che entriamo in contatto con elementi estranei, nuovi, poco famigliari, sentiamo la necessità di utilizzare quegli strumenti conoscitivi che fanno parte del nostro bagaglio, quelle lenti attraverso cui siamo abituati a vedere il mondo. Questo fa sì che interpretiamo il singolo fatto attraverso le categorie di senso con cui abbiamo maggiore famigliarità, lasciandoci guidare da interpretazioni generali che precedono l’incontro vero e proprio. Prima ancora della conoscenza concreta viene sempre l’immaginazione, la fantasia che ci siamo fatti di quello specifico oggetto, l’attribuzione di significati che scaturisce dalla tendenza ad applicare la nostra visione del mondo a tutto ciò che ci circonda.
La percezione è il primo canale attraverso cui si attua la conoscenza del mondo in cui viviamo, e si svolge attraverso una selezione degli elementi che ci arrivano, e ad una loro categorizzazione all’interno di strutture di senso, che permettono di essere interpretate. Difficilmente tali categorie interpretative rimangono neutre, in quanto tendiamo ad attribuirvi determinati significati sulla base della nostra storia personale, della nostra biografia, e non da ultimo dell’appartenenza culturale. Infatti non va dimenticato che la percezione della realtà è sempre mediata dalle immagini veicolate dalla cultura (Kilani 1997:90), anche se siamo poco abituati a cogliere la parzialità di questa chiave di lettura, tendendo invece a considerarla una visione universale. Soltanto quando queste categorie di pensiero si dotano di esistenza autonoma, e diventano quindi non passibili di ulteriori trasformazioni, ma al contrario cristallizzate nel tempo e nei contenuti, nasce lo stereotipo.
Lo stereotipo è una sorta di calco cognitivo, un’immagine rigida e immodificabile, che produce a sua volta rappresentazioni del mondo caratterizzate dalla ripetitività. Esso può essere trasmesso in modo così coerente ed autorevole da sembrare quasi un fatto biologico, e quindi vissuto come assoluto (Giaccardi 2004). Lo stereotipo svolge una funzione semplificatrice del pensiero, in quanto facilita la comprensione della realtà attraverso schemi precedentemente acquisiti e testati. In un certo senso lo stereotipo ci fa accostare a ciò che non conosciamo attraverso delle griglie di lettura famigliari e note, diminuendo il senso di ansia ed incertezza che sempre deriva dall’incontro con lo sconosciuto. Attraverso i processi di stereotipizzazione è infatti possibile attribuire caratteristiche simili ad individui appartenenti alla stessa categoria, generalizzando una parte per il tutto.
Nonostante lo stereotipo di per sé rimanga comunque aperto a trasformazioni legate alle esperienze concrete della realtà fatte dagli individui, il rischio è che invece inizi a viaggiare per conto proprio, divenendo l’unica fonte di conoscenza del mondo reale. In questo senso esso diventa un deterrente alla relazione, in quanto tutte le informazioni necessarie per la conoscenza dell’Altro sono già contenute al suo interno, e non si avverte più la necessità di acquisirne di nuove attraverso l’incontro reale. Inoltre nel momento in cui lo stereotipo inizia anche ad orientare una gerarchia valoriale, in cui le persone vengono categorizzate sulla base di attributi positivi o negativi in senso assoluto, subentrano i pregiudizi, intesi come generalizzazioni improprie risultanti in atteggiamenti negativi precostituiti verso certe collettività.
In tempi in cui l’incontro/scontro con l’Altro fa parte delle nostre vite quotidiane, in cui siamo bombardati da immagini mediatiche che ci fanno sentire invasi da un’ondata inarrestabile di migranti, il passaggio dallo stereotipo al pregiudizio è quasi scontato. Purtroppo spesso questo passaggio delicato avviene non soltanto nel terreno famigliare delle nostre quotidianità, ma anche nello scenario politico ed istituzionale, con esiti più preoccupanti. Nei mesi scorsi ha fatto scalpore il telegramma inviato il 26 gennaio 2017 dal Ministero dell’Interno alle Questure, in cui si comunicava la disponibilità di quasi cento posti nei CIE attualmente operativi, da utilizzare per identificare «sedicenti cittadini nigeriani rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale e per il loro successivo rimpatrio» [1]. Questa operazione, come dice ASGI in un suo comunicato del 02 febbraio [2], rappresenta un salto di qualità non indifferente nelle politiche repressive messe in atto dal nostro Governo, proprio perché il rimpatrio non avviene a partire dalla presenza o meno di requisiti giuridici necessari per la permanenza in Italia, bensì su base etnica.
L’aspetto vagamente inquietante della vicenda è che le istituzioni sembrano qui abbandonare il profilo “tecnico”, sulla base del quale le motivazioni legate al rimpatrio di singoli soggetti sono legate alla specifica situazione degli stessi, e ad eventuali loro vicende giudiziarie in corso, alimentando invece la creazione di stereotipi intorno a determinate nazionalità. L’indicazione del Viminale, muovendo i propri interventi a partire dalla nazionalità dei soggetti coinvolti, rischia di virare pericolosamente verso forme di discriminazione a base etnica. In questo caso infatti non viene chiesto di cercare genericamente tutti gli stranieri in condizione di clandestinità, oppure quei soggetti che hanno in qualche modo infranto la legge italiana, bensì dei cosiddetti “sedicenti nigeriani” irregolari, peraltro in numero prefissato, novantacinque per la precisione, scelti probabilmente a caso tra tutti i nigeriani senza permesso di soggiorno rintracciati dalla polizia. Va inoltre precisato che il coinvolgimento dell’Ambasciata nigeriana in questa vicenda, menzionato del telegramma del Ministero, risulta tutt’altro che chiaro, in quanto sembra non limitarsi alla semplice identificazione della nazionalità delle persone trattenute, ma ad un vero e proprio accordo rispetto al rimpatrio dei propri cittadini.
Per le modalità e i contenuti con cui si è svolta, la vicenda assume quindi i toni dell’espulsione di massa su base etnica, e induce sicuramente riflessioni importanti proprio per le gravi conseguenze che ne seguono. La prima riflessione riguarda l’impatto sul quel settore della popolazione nigeriana maggiormente vulnerabile e ancora scarsamente tutelato: le vittime della tratta. Dei novantacinque posti previsti dal Viminale sul volo charter diretto in Nigeria, ben cinquanta erano destinati a donne. Questo desta particolare preoccupazione, tenendo presente che la tratta di esseri umani destinati al mercato della prostituzione ha radici profonde anche nei Paesi d’origine di queste moderne schiave. Il loro rimpatrio segna quindi l’impossibilità assoluta di potersi avvalere dei supporti di uno stato di diritto che sia in grado di agire in loro tutela, e di potersi quindi in qualche modo affrancare dai propri aguzzini.
Tutto ciò alla luce di una posizione già delicata che l’Italia si trova ad assumere nei confronti dell’Europa, a seguito del rapporto stilato da GRETA, il Group of Experts in Action against Trafficking in Human Beings, lo scorso anno [3]. In questo rapporto viene infatti posta l’attenzione sulle falle presenti nel sistema di rilevamento delle vittime di tratta all’interno dei percorsi di prima accoglienza, soprattutto nel Sud Italia. La latitanza delle istituzioni nell’individuazione delle possibili vittime di tratta, soprattutto nel caso di minorenni non accompagnate, si accompagna a quest’ultimo provvedimento del Viminale, che mette le donne nigeriane in una condizione di ulteriore precarietà.
Inoltre questo provvedimento è espressione di una potenziale non tutela per gli stranieri in generale, e nello specifico per quelli in una situazione di maggiore fragilità giuridica, che possono divenire oggetto di vere e proprie cacce all’uomo sulla base della propria semplice appartenenza etnica. Il rimpatrio forzato dei novantacinque nigeriani ha infatti già un pericoloso precedente, quando lo scorso 24 agosto quaranta sudanesi, fermati a Ventimiglia dalla Polizia e trovati in condizione di irregolarità, furono rispediti in Sudan senza possibilità di appello. Anche in questo caso, l’atto di rimpatrio forzato era stato sostenuto da un presunto quanto poco noto accordo tra Italia e Sudan, che prevede la collaborazione tra le polizie dei due Paesi per la gestione delle frontiere e dei flussi migratori [4]. La gravità di fatti come questo sta proprio nell’erosione dello stesso diritto d’asilo, in quanto non è più la storia personale del migrante a definire la possibilità di permanere o meno sul suolo italiano, bensì la sua semplice appartenenza ad una data nazione. L’interpretazione italiana del diritto a ricevere protezione sembra quindi allontanarsi sempre più dagli intenti umanitari della Convenzione di Ginevra, per venire invece affidata alle opportunità politiche del momento, sull’onda delle vicende diplomatiche internazionali.
Ma forse le vere vittime di queste operazioni di vera e propria epurazione siamo noi stessi, cittadini italiani, perché esse concorrono ad alimentare le visioni stereotipate degli stranieri, e ci espongono al rischio di indottrinamento ideologico da parte di movimenti razzisti. Un’azione forte come l’espulsione dal territorio italiano, messa in atto in tempi brevi e senza possibilità di appello, può infatti essere vista come un segnale verso una maggiore severità del sistema di accoglienza, che oggi spesso presenta limiti e falle. Tuttavia anche una diversa gestione delle procedure di asilo, che preveda un irrigidimento dei sistemi di controllo rispetto alla permanenza in Italia di coloro non titolari di alcuna forma di protezione, non può fondarsi sul presupposto dell’appartenenza etnica. Così facendo metterebbe in discussione il diritto stesso alla protezione in cui esso trova le sue ragioni di esistere.
L’equazione tra azione criminale ed espulsione porta l’opinione pubblica ad etichettare coloro che sono sottoposti a rimpatrio forzato come delinquenti, anziché come vittime di un abuso di potere delle istituzioni. Questo non fa altro che rafforzare pregiudizi già ampiamente diffusi, invece di favorire una lettura critica del fenomeno migratorio, che tenga conto delle sue complessità, ma anche delle sue potenzialità. La giustificazione istituzionale a politiche repressive di questo genere non fa altro che alimentare la creazione di una sorta di gerarchia morale degli stranieri, che li classifica in più o meno meritevoli di rimanere a seconda dell’appartenenza etnica, anziché del diritto individuale alla protezione.
Quanto avvenuto trova forti risonanze nelle parole di Francesco Remotti, ritrovate nel suo bel libro Contro l’identità (Remotti 1996). Secondo l’antropologo, nel momento in cui una società sente l’esigenza di affermare in modo forte la propria identità, scatta in modo quasi automatico il germe della pulizia, della purificazione, che altro non è se non la necessità di separare il Noi dall’Altro, di tracciare una linea chiara tra chi sta dentro e chi sta fuori. Tuttavia nel momento in cui l’atto del separare si cala nelle pratiche quotidiane, le declinazioni concrete che va ad assumere sono molteplici. Si può quindi sentire la semplice necessità del segnare una distinzione, definendo le reciproche diversità in una prospettiva dialogica. Ma segnare una distinzione può anche presuppore la scelta, e quindi la valorizzazione di ciò che si tiene dentro, con il conseguente scarto di ciò che si vuole lasciare fuori:
«non ci vuol molto a scivolare dal riconoscimento e dal rispetto delle differenze alla discriminazione, e da questa al rifiuto, e dal rifiuto al tentativo di eliminazione» (Remotti 1996:29).
Il percorso verso la costruzione dell’identità sociale e culturale è sempre complesso e a tratti insidioso, e si apre a strumentalizzazioni politiche che rischiano derive assolutistiche, come i ben noti esempi del secolo scorso ci hanno insegnato. Vicende come quella sopra descritta devono necessariamente riportare l’attenzione alle dinamiche interculturali, e a quel complesso processo di contatto/differenziazione che qualunque incontro con la diversità stimola, senza dimenticare che in uno stato di diritto le istituzioni hanno proprio la funzione di garantire tale processo. Questo è possibile soltanto nel momento in cui a tutti gli individui è assicurata tutela e libera espressione, a prescindere dalla propria appartenenza culturale, etnica, religiosa, politica o di genere.
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note
[1] http://www.repubblica.it/cronaca/2017/02/01/
news/immigrazione_nigeriani_rimpatrio-157384673/
[2] http://www.asgi.it/notizia/telegramma-nigeria-ministero-interno-rintraccio-rimpatrio-base-etnica/
[3]https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices DisplayDCTMContent?documentId=09000016806edf35.
[4] Molto interessante a questo proposito è la lettera dello scorso ottobre, sottoscritta da svariati eurodeputati tra cui l’italiana Barbara Spinelli, in cui si chiede conto dei fatti di Ventimiglia all’allora Governo Renzi. http://barbara-spinelli.it/wp-content/uploads/Lettera-rimpatri-SUDAN-DEF.pdf
Riferimenti bibliografici
Giaccardi, C., 2005, La Comunicazione Interculturale, Il Mulino, Bologna.
Kilani, M., 1997, L’Invenzione dell’Altro. Saggi sul Discorso Antropologico ,Edizioni Dedalo, Bari.
Remotti, F., 1996, Contro l’Identità, Editori Laterza, Roma Bari.
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Chiara Dallavalle, già assistant lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia culturale, ha lavorato per oltre un decennio in servizi di accoglienza per rifugiati, e oggi si occupa di facilitazione culturale. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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