di Flavia Schiavo
Brooklyn was a dream [1]
Confrontare Brooklyn – Breuckelen, il suo antico antico nome olandese – uno dei cinque Boroughs (Distretti) di NYC, con una tra le maggiori città europee, come Parigi, raffrontando dimensioni e popo- lazione rispettivamente insediate, mostra, da oltre Oceano, l’impatto dell’enorme agglomerato urbano sull’unità complessiva di New York City.
Se Parigi ha una superficie di circa 105 kmq, e quasi 2.3 mln di abitanti (al 2015), Brooklyn ha un’area di 250 kmq, 180 kmq di territorio, e circa 67 kmq di acque interne, 2.6 mln di abitanti (al 2016) e una densità di circa 14.600 ab/kmq.
Presenza imponente, Brooklyn è primo, tra i Boroughs, per quantità di abitanti e secondo sia per dimensione (il Queens ha una superficie di 280 kmq) che per rapporto tra abitanti e superficie territoriale; solo Manhattan ha, infatti, una densità di 27.800 ab/kmq [2].
Uno degli aspetti identitari, forse più interessanti dell’intera conurbazione di New York City, il cui Consolidamento avvenne nel 1898 (il 1° gennaio) [3], è l’enorme variabilità ed eterogeneità interna. Tale eterogeneità che esula dalle dinamiche di pianificazione attuate nel corso dei due secoli precedenti, molto differenti da quelle di matrice europea e più esplicitamente dipendenti dall’iniziativa individuale e dalle spinte degli stakeholders, non è presente in egual modo, sia per quantità che per qualità, nei cinque Distretti.
In alcuni di essi, infatti – come il Queens, il Bronx e Staten Island – essa è meno accentuata per via di numerose ragioni (storiche, di ordine locale e sovralocale) e per le interazioni tra fenomeni diversi e anche a causa dei caratteri e della collocazione geografica, delle minori pressioni insediative, dell’inferiore trasformazione immobiliare e del diverso e più “misurato” ruolo del real estate, così come per la differente e reciproca azione/collisione delle economie urbane (componente intraspecifica e potentissima a Manhattan) e per il diverso, e fortissimo, insediarsi delle varie Comunità dei migranti.
Il Tempo nelle tre macro-aree urbane citate in precedenza, ha avuto corso, azione e impatto meno accelerati, di quanto non sia accaduto a Brooklyn e ovviamente a Manhattan. Di conseguenza nei tre Distretti le trasformazioni hanno tenuto un “passo” decisamente più lento, pur manifestando mutazioni del pattern insediativo contraddistinto, oltre che da alcune realtà produttive, soprattutto, da un tessuto residenziale costituito da case unifamiliari di due o tre piani, spesso in legno, da tenements, da complessi residenziali che non raggiungono grandi altezze, da alcuni agglomerati industriali, da un tessuto di spazi pubblici più diradato, più debolmente interconnesso e non dotato delle qualità e del “disegno” formale di alcuni tra gli spazi e i giardini presenti a Brooklyn e soprattutto a Manhattan, pur mancando anche nell’Isola una pianificazione ortodossa simile a quella ottocentesca europea che prevedeva assetti disegnati, relazioni monumentali degli allineamenti e rapporti prescrittivi tra pieni e vuoti o tra il disegno a terra dei lotti e le altezze degli edifici.
Il tessuto insediativo, nel suo complesso e con le debite differenze tra i Distretti, è contraddistinto anche dal mantenimento di alcuni patterns (Historic Districts) e di alcuni edifici storici o storicizzati (Landmarks) – in forza della Landmark Law, varata nel 1965 – e ha declinato ogni trasformazione, cifra costitutiva della città, con un proprio specifico linguaggio.
I cinque Boroughs formano, in tal senso, una unità policentrica e fortemente differenziata, dotata di specializzazioni funzionali, alcune stabili, ma nel complesso fluide, poste costantemente in discussione da una vitalità dinamica. L’insieme, oltre a un’inerzia connessa all’integrazione tra i diversi contesti, integra qualità con- traddittorie; policentrismo, anche per la presenza delle comunità insediate; fless- sibile gravitazione funzionale e gerarchica tra i Distretti; mobilità e movimenti di economie e di popolazione, spesso in transito per flessioni (up o down) connesse al mercato immobiliare che, vitalissimo a Manhattan, cerca nuovi ambiti per esprimere la propria forza, attraverso scelte che in certi casi avviano potenti fenomeni di gentrification, come quelli indotti negli ultimi anni dall’High Lineo da Hudson Yards, o dalla riqualificazione di DUMBO [4] a Brooklyn.
In sintesi:
- il distretto di Manhattan (87 kmq; 28 kmq di acque interne) ha nel tempo, e sino dalla sua fondazione, differenziato enormemente le funzioni (privilegiando quelle a basso impatto e quelle “immateriali”) e soprattutto l’intersezione tra le stesse, in una rapidissima dinamica tra densificazione, trasformazione dei luoghi e degli assetti. Tra i motori fondamentali: il real estate, l’economia finanziaria nel suo complesso, le Assicurazioni, la cultura; tra i soggetti: la pubblica amministrazione e i gruppi politici, i gruppi di “sottogoverno”, gli stakeholders, la Comunità e le Comunità etniche, sia i gruppi che i singoli individui. Tale milieu, fatto di persone ed eventi (un connubio inestricabile), è contraddistinto sia dalla mutazione dell’esistente, sia da una discontinua stabilità di alcuni luoghi, di alcune componenti ed edifici, e costruisce nel tempo uno spazio innovativo, conflittuale, non-omogeneo, poroso, misto, soggetto a ripensamento continuo ma a volte fortemente resistente e, a tratti, resiliente, caratterizzato da quartieri di matrice etnica, da significativi landmarks, da funzioni stabili, dagli headquarters dei soggetti forti, da Istituzioni culturali e da “nuovi luoghi” che emergono dalle logiche della trasformazione, della speculazione o dalle azioni della Community Planning, cosi come dai parchi e giardini, alcuni di matrice comunitaria.
Un milieu innovativo perché le pratiche, spesso, anticipano e istruiscono le innovazioni legislative; conflittuale, in quanto il territorio e il suo “possesso” sono al centro dello scontro, combattuto abbastanza apertamente tra i gruppi e i soggetti. Infatti, pur in una forte cornice sperequativa, la Comunità – detto in estrema sintesi – ha un ruolo riconosciuto, anche se a volte solo marginale o strumentale, sia per ciò che attiene il progetto sia riguardo la gestione. In assenza di forme di pianificazione rigide fondate sul Piano prescrittivo e tradizionale, ciò rappresenta un elemento vitale di spostamento, di tensione, a volte di riequilibrio, rispetto al potere non sempre indiscusso dei gruppi forti. Tale organizzazione si riflette anche nella struttura culturale della città, aperta agli incroci e alle contaminazioni che, a volte, hanno potenti radicamenti territoriali (ad esempio nei quartieri etnici, come Harlem).
- Il distretto dei Queens (460 kmq; 180 kmq di acque interne) ha ospitato nel tempo un’enorme quantità di migranti (tra cui una significativa comunità di musulmani, indiani e cinesi, come pure di italiani, tra i più integrati nella compagine complessiva), e ha mantenuto, pur con alcune eccezioni, una facies più residenziale.
- Il distretto di Staten Island (265 kmq; 114 kmq di acque interne) che accoglie numerose comunità e che ha soprattutto funzione residenziale (case unifamiliari, spesso in legno) e produttiva, ha conservato vaste porzioni non insediate e una bassa densità abitativa (la minore a NYC: solo 3132 ab/kmq, al 2016), pur essendo state adottate alcune misure, anche se deboli, per favorire lo spostamento della popolazione nell’isola di fronte Manhattan. Staten Island, che è infatti raggiungibile con un rapido passaggio in ferry (solo mezzora) che non ha alcun costo, negli ultimi anni, è stata oggetto di alcuni progetti di riqualificazione e recupero, come quello relativo alla estesissima discarica di Fresh Kills Landfill, attiva dal 1948 al 2001 e dal 2003 recuperata attraverso un progetto di riqualificazione (che vede attori pubblici e privati) mirato alla realizzazione di un parco urbano.
- Il grande distretto del Bronx (150 kmq, 39 kmq di acque interne; 1.4 mln di ab; 13.231 ab/kmq) – che ha mantenuto la struttura morfologica sulla quale si è intervenuti meno che a Manhattan e un sistema di parchi soprattutto nella porzione più a nord – ha nel tempo subito numerosi interventi che hanno stravolto il tessuto insediativo, soprattutto durante l’era di Robert Moses che “tagliò” il Borough e vaste parti del territorio con le “sue” freeways, highways, parkways. Il Bronx, comunque, mantiene una forte componente residenziale e comunitaria (soprattutto neri e sudamericani) e una debole presenza di servizi, sia a rete che puntuali; assai problematico, nella realtà (per ragioni sociali e connesse alla sperequazione sociale e urbana) e nell’immaginario, e sede di alcune minoranze “deboli”, negli ultimi anni è stato oggetto di sporadici progetti (non d’impatto strutturale). Tra essi The Bronx Museum of the Arts, localizzato nella porzione immediatamente prossima a Manhattan e vicino allo Yankee Stadium.
- Lo sconfinato ed eterogeneo distretto di Brooklyn che ha mutato nel tempo la propria articolazione, costruendo una struttura davvero complessa in cui si integrano ambiti molto diversi: dalle grandi strutture produttive della Rivoluzione industriale (oggi dismesse e in fase di riutilizzo), ai quartieri operai del XIX e XX secolo, ai Cantieri navali (The United States Navy Yard, nel Wallabout Basin, sull’East River; attivi dal 1806 e chiusi durante la seconda metà del Novecento; oggi oggetto di riqualificazione), ad alcuni quartieri produttivi oggi ripensati e sede di una consistente gentrification (tra essi il già citato ed esteso DUMBO), ad alcuni grandi parchi, come Prospect Park (cerniera e “ombelico” di una vasta porzione di Brooklyn e motore del real estate sin dalla fine del XIX secolo) pressoché coevo al Central Park di Manhattan e “figlio” degli stessi progettisti, Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux.
Twin City
Nella eterogenea NYC, in cui variazione, trasformazione, imprevisto, rapidità sono protagonisti della scena, Brooklyn è, dunque, un Universo a parte.
La trasformazione di Brooklyn e l’assetto, fisico, sociale e culturale, del suo territorio ebbero e hanno un profondo legame con la geografia complessiva del luogo che accoglie l’intero sistema urbano di NYC. Manhattan, infatti, focus del primo insediamento olandese, insediatosi nella porzione più a sud dell’Isola, per la concentrazione di alcune funzioni e per la esigua dimensione territoriale, nel tempo, ha privilegiato economie di produzione che non prevedevano le grandi e invasive fabbriche le quali, nella flessibilità delle allocazioni non stabilite da rigide attribuzioni funzionali, trovarono spazio, insieme ad altre realtà produttive, nello sconfinato distretto di Brooklyn.
Nel 1883, spartiacque per l’apertura del Brooklyn Bridge, Emma Lazarus, nel poema The New Colossus [5], definì Brooklyn come la “twin” city, la città gemella di New York. Esprimendo, fin dall’inizio, una mutua collaborazione le due “città” – Manhattan e Brooklyn – manifestavano, già in origine, una conseguente differenziazione, ma non un rapporto strettamente gerarchico o subalterno della seconda rispetto alla prima.
Assai prima della costruzione del Brooklyn Bridge – (completato nel 1883), primo ponte degli States e primo della lunga serie dei newyorcher Bridges, importanti connettori tra l’Isola e gli altri 4 Distretti – Brooklyn fu luogo dove abitarono molti migranti. Un’estesa working class che lavorava negli zuccherifici o nei già citati Cantieri navali – tra il nucleo chiamato Brooklyn e Williamsburg, dove alcuni anni dopo venne edificato il Bridge omonimo (aperto nel 1903) che ulteriormente connetteva il Distretto a Manhattan (Lower East Side), favorendo e distribuendo il transito dei migranti – o, ancora, nelle fabbriche di carta e cartone o in quelle di mattoni; una working class che traversava lo stretto braccio del fiume, la bocca dell’East River, con il ferry che congiungeva Fulton Landing (un quartiere di Brooklyn edificato intorno al 1830) con la stessa Manhattan, trasformando alcuni insediamenti, tra cui Brooklyn Heights, in città abitate da pendolari. La traversata sul battello (della Robert Fulton’s Company), tra i fenomeni che indussero un incremento demografico a Brooklyn, oggetto di una poetica descrizione di W. Whitman [6] – nativo di Brooklyn – portava a Manhattan un’enorme folla di persone (il fiume umano presente in moltissime rappresentazioni urbane, sia visive che verbali), il cui ruolo fu determinante nell’erezione e nello sviluppo dell’Isola.
Nella dinamica del Consolidamento, che rendeva unitario lo spazio frutto della più grande e capillare colonizzazione che il pianeta abbia mai vissuto (a partire da una grandissima “frattura” storica e dalla sottrazione della Terra ai Nativi americani), che portò nel 1898 alla costituzione dell’unità amministrativa di NYC, Brooklyn ebbe un ruolo consistente e controverso. Città popolosa e grande, sede di un importante porto marittimo, con una specifica identità e dimora di specifiche economie molto potenti, soprattutto connesse all’ambito manifatturiero (i Cantieri navali, sono esempio cardine), sino al Consolidamento, ebbe, dal 1834 (a quella data la città ospitava 25 mila persone, registrando una dinamica demografica, incrementale quasi senza soluzione di continuità) al 1897, Sindaci propri e un governo pressoché autonomo (con edifici che ne ospitavano le strutture, come City Hall) che non appoggiò del tutto il progetto del 1898 di unificazione dei cinque Distretti.
L’urbanizzazione di Brooklyn ebbe, dunque, un grande ruolo strategico nella crescita dell’intero sistema, in relazione alla prossimità all’Isola di Manhattan e alla ridotta dimensione di questa e, in una fase iniziale, pur ospitando l’estesa working class fatta dai migranti che raggiungevano New York, non visse una reale integrazione fusionale con il resto dell’insieme urbano, ma un’annessione un po’ forzata.
Tale condizione ebbe e continua ad avere una ricaduta connessa al senso di appartenenza: chi abitava e abita a Brooklyn, sia nel XIX secolo che attualmente, sente una maggiore coesione con il proprio specifico universo che, sebbene polimorfo, aveva e ha un paesaggio urbano assai differente da quello di Manhattan, una diversa cifra e velocità nella trasformazione e una specifica unità, pur nel melting pot culturale e sociale.
Connessioni culturali
Difficile da descrivere in sintesi, il territorio di Brooklyn, che presenta un enorme sistema di sottoambiti (sociali e morfologici) soggetti alcuni a variabilità intraspecifica, altri a maggiore stabilità, ha una storia fatta dall’emergere di villaggi poi saldati in un’unica enorme conur- bazione continua. Essa, attraendo estese compagini umane di migranti, in special modo gli europei che sceglievano il Nuovo Mondo come patria da colonizzare, crebbe tra attive economie, costruzione di nuclei ed edifici, ambiti su base etnica (oggi quartieri che mantengono alcuni tra i caratteri originari) in un contesto che generava un indotto potente, interconnesso ai trasporti, al real estate, all’industria “pesante”, alle agenzie, alle Assicurazioni e alle nascenti opportunità della comunicazione e dell’innovazione incrementale, qualità proprie del sistema.
Nel 1841 Brooklyn produsse un proprio Newspaper, The Brooklyn Eagle (pomeridiano, poi ribattezzato The Daily Brooklyn Eagle), che per alcuni anni fu tra i giornali più popolari in America. Tale quotidiano, come molti altri a NYC, contribuì alla formazione di un’identità autonoma e separata del vasto contesto, anch’esso multietnico, e fu “luogo” di espressione per parole e azioni di movimenti attivi politicamente e culturalmente, come quello contro la schiavitù, prima della Civil War.
Oltre ad essere sede di ambiti produttivi, di parchi urbani, di nuclei abitati dalla working e da una middle class – gli operai della American Industrial Revolution, i commercianti e i piccoli uomini d’affari del XIX secolo e degli albori del XX – o da un segmento della middle class che si era spostato per il rialzo dei prezzi delle residenze a Manhattan, Brooklyn fu sede di potenti e rilevanti istituzioni, culturali ed economiche [7] che punteggiavano i diversi nuclei. Un territorio in cui le interconnessioni culturali potevano esprimersi in modo più morbido e collaborativo che nella più dura e sperequativa Manhattan, dove esistevano (ed esistono) maggiori pressioni.
Tra i luoghi dove tale humus iniziò a manifestarsi, la BAM, la Brooklyn Academy of Music, oggi un importante Landmark, appartenente a un Historic District designato già nel 1978. Un complesso che si affaccia su Fulton Street, Ashland Place e Hanson Place e comprende alcuni isolati, nonché una serie di edifici storici, in parte trasformati.
La comparsa della Academy va posta in connessione con lo sviluppo di Brooklyn: tra il 1814 e il 1830 con l’incremento del trasporto in ferry parecchi uomini d’affari con le proprie famiglie si stabilirono a Brooklyn e iniziarono, anche per tale ragione, a svilupparsi estensivi quartieri residenziali, in una prima fase in prossimità dell’approdo, estendendosi, successivamente, ad aree limitrofe o localizzate in altri ambiti del grande Distretto.
Nel 1839 fu redatto una sorta di piano relativo soprattutto agli assetti e alla disposizione delle strade e delle piazze urbane del Distretto (“Lay out streets, avenues, and public squares”). Tra le previsioni di questo strumento debolmente regolativo, una riguardò la creazione di undici piazze, tra esse la Washington Park, interna alla struttura costituita da Avenues e Streets, tra cui Atlantic Avenue e Flatbush Avenue. Un’estesa area in cui erano ancora presenti farms e spazi di natura rurale, ma che si espandeva velocemente, saturandosi.
L’incremento della popolazione, infatti, diede un grosso impulso al mercato immobiliare e alle trasformazioni che, come spesso accadeva in quegli anni, erano frutto di azioni individuali e di variazioni non pianificate d’uso del suolo anche originate da donazioni o passaggi di proprietà. .
Uno dei cambiamenti sostanziali che interessò quell’area fu proprio quello relativo alla costruzione dell’importante istituzione culturale, la Brooklyn Academy of Music che, già precedentemente fondata, nel 1861, mosse, ai primi del XX secolo, nel 1907-‘08, dalla sede pre- cedente distrutta da un incendio il 30 novembre del 1903, traslocando nel nuovo edificio, al n. 30 di Lafayette Avenue.
Circa vent’anni più tardi la Williamsburg Saving Bank, un importante istituto di credito, edificò poco lontano dall’Academy il proprio nuovo headquarter, trasferendo i propri uffici in un significativo skyscraper inaugurato nel 1929, in Hanson Place. Un grattacielo di 37 piani, noto come 1 Hanson Place, che adottò il setback previsto dallo Zoning Resolution del 1916 e che ancora oggi segna fortemente il paesaggio urbano, stagliandosi in un’estesa diffusione di case di altezza non elevata.
L’intero distretto urbano della BAM riflette, ancor oggi e sebbene sia stato interessato da forti mutazioni, lo sviluppo di Brooklyn che, in quegli anni, diede vita a un tipico e ampio sistema residenziale, caratterizzato da case, le row houses, di tre o quattro piani, edificate in mattoni o in brownstone, occupate principalmente da una middle class che, come già detto, fuggiva i rialzi del mercato degli immobili a Manhattan dove, di contro, abitava l’Economia urbana, un’elitaria e rapace upper class o i migranti, nei tessuti degradati dei tenements, in ambiti come Lower East Side. Oltre alla componente residenziale, in quella fase di esplosione, nel distretto urbano dove oggi sorge la BAM, furono costruiti alcuni edifici commerciali e produttivi: le cast-iron flat houses, generando quel paesaggio frammisto e ibrido, non regolato da alcuna allocazione funzionale pianificata ex ante, comparso anche in alcuni ambiti di Manhattan.
Alla competizione per il progetto della Academy parteciparono numerose firms tra le più note in quegli anni, tra esse la Carrere & Hastings e la Mead, McKim & White, entrambe molto attive a Manhattan. L’edificio principale, eclettico, raffinato e di grande interesse estetico, che ospita l’Opera House di Howard Gilman e le BAM Rose Cinemas, fu progettato dalla Herts & Tallant. A forma di “U” con una corte aperta al centro, ha un alto basamento di granito grigio con mattoni color crema. L’intero complesso della BAM, invece, è costituito da numerosi edifici [8] che hanno un ruolo differenziato.
La Brooklyn Academy of Music è, oggi, un grande polo culturale di rilevanza sovraterritoriale, e un centro dove molte forme di espressione artistica, dal teatro, al cinema, trovano spazio. Nota per gli spettacoli di avanguardia, da più di un secolo e mezzo è stato la “casa” che ha accolto artisti, performances e idee innovative, in stretta connessione con le comunità e non solo con quelle locali. Con la programmazione di grande livello di teatro, danza, musica, lirica, film, la BAM offre la possibilità di conoscere artisti emergenti e maestri contemporanei. E si inserisce in un quadro complessivo ricco di luoghi deputati alla cultura, diffusi, e fortemente differenziati, in tutto il sistema urbano di NYC.
La luce abbagliante della notte
Femme Noire [9], di Léopold Sédar Senghor [10], primo Presidente del Senegal (dal 1960 al 1980), è il testo, drammaticamente e fortemente identi- tario, su cui Germaine Acogny, dancer e coreografa, danzò il suo primo “a solo”.
Nata in Benin, nel 1944, formatasi nell’alveo della ginnastica ritmica e poi della danza, Germaine – la cui nascita fu segnata da un evento rituale e simbolico (l’apparizione di una colomba che rievo- cava la “presenza” e il “ritorno” della nonna paterna, mai conosciuta, sacerdotessa Yoruba, una stirpe proveniente dalla Nigeria) – stava, con quel suo primo “gesto” poetico e artistico, potente anche per la scelta dello “scritto” di Senghor, aprendo se stessa a un’esperienza totalizzante, quella della danza, quasi essa stessa fosse un percorso disvelante della propria intima coscienza identitaria, culturale e femminile; e stava inaugurando un mondo centrifugo fatto di scelte personali e di azioni dotate di grande valore etico e politico, per la promozione della danza in territori disagiati come sono alcune parti dell’Africa.
Talune delle azioni della danzatrice senegalese, infatti, trascendono il lavoro disciplinato e spesso autocentrato della danza: Germaine, pur avendo insegnato in tutto il mondo, ha fondato, in Senegal, l’Ecole des Sables [11]. Non solo per questo può essere chiamata la madre dell’African Dance, un modo di essere, più che uno stile, innovativo e potentemente ibrido, che mette insieme, in termini evolutivi, la tradizione africana con il lavoro e la tecnica interni alla danza contemporanea. Un lavoro intenso e sensibile fondato sul contatto con la terra, in senso concreto, e centrato sulla colonna vertebrale, chiamata da Acogny “il Serpente della Vita”. Il fluido movimento della figura attinge al moto abissale del sacro e della coscienza, propria e collettiva, trasformando la danza in un rito in cui l’Eros, come spinta pulsionale, la connessione con la Natura e con i suoi elementi concreti (come per esempio gli alberi) e il misticismo si fondono nello slancio dello spirito e per la forza terrena del corpo, nella rivendicazione, pacifista ma risoluta – i cui tratti che possono essere quasi ricondotti alla resistenza gandhiana – della propria cultura di origine. Essa va intesa non come costrutto oppositivo e immutabile, ma come rete di senso e di appartenenza in un mondo globale entro cui la spinta etica dovrebbe agire sulle pulsioni non-etiche di prevaricazione e di violenza repressiva insite nella colonizzazione.
La danza, in tal senso, è uno degli strumenti di una rivoluzione silenziosa che esprime e rivendica la forza delle radici, così come l’insegnamento di questa disciplina e la diffusione di essa esprimono i princìpi valoriali connessi nei territori originari, coinvolgendo giovani danzatori africani e ballerini nel resto del pianeta. La danza, così praticata, ha il valore insito in ogni forma di studio, configurando percorsi di libertà consapevole e di apertura civica al Mondo.
La Acogny con la sua azione rivoluzionaria, dopo essersi misurata con le tecniche di grandi danzatori contemporanei, tra cui Martha Graham, dopo un lungo lavoro con Maurice Béjart, che nel 1970 a Bruxelles, aveva fondato Mudra [12], nel 1977 istituì, con lo stesso Béjart e Senghor, Mudra Afrique, una scuola di perfezionamento a Dakar, proseguendo la propria opera in tutto il mondo, dove danza e ha danzato insieme ai maggiori esponenti del balletto contemporaneo.
Dal 4 al 7 ottobre alla BAM, (al BAM Fisher, il teatro tutto nero) Germaine ha danzato, dentro a una scatola, nera anch’essa, aperta sui tre lati rivolti verso il palcoscenico, Mon élue noire (My Black Chosen One, il titolo in inglese), con la coreografia di Olivier Dubois [13] (che ha pensato per lei la rappresentazione, sulla scorta di una prima coreografia di Béjart).
Se la danza vive di musica, lo spettacolo che appena un mese fa la Acogny, da sola in scena, ha tenuto, vive, se possibile, a prescindere dalla musica, pur presente, e potentissima, trattandosi infatti di una delle opere più significative del Novecento, Le Sacre du Printemps, di Igor Stravinsky. In Mon élue noire il ritmo tragico e battente, pensato dal compositore russo per un balletto, si trasferisce, se possibile, sul piano secondo, lasciando al corpo monumentale e possente della danzatrice, al suo volto espressivo e primario, al suo cranio rasato, quasi lei stessa fosse un Androgino o un Grande Archetipo vivente, alla sua voce roca che in francese dice della brutalità della prevaricazione, ai suoi gesti ampi ed energici, implacabili, alle sue lunghe braccia, l’assoluta supremazia. Nel teatro nero della BAM, dentro un apparato scenico minimalista, rotto a tratti dall’emergere della voce recitante, dura e piena di pathos, che interpreta un lungo frammento tratto dal Discours sur le Colonialisme di Aimé Césaire [14], Acogny ha danzato la colonizzazione, la tragedia della brutalità e dell’espoliazione dei diritti e della terra, ha danzato la ribellione.
Lo spazio angusto della scatola, l’essenzialità dei costumi scarni – anch’essi in bianco e nero, quale allegoria della battaglia tra la luce e l’ombra – la pipa in bocca, che rievoca la sacerdotessa Rite, la nonna paterna alla quale la vita della danzatrice è simbolicamente e sacralmente interconnessa, la vernice bianca con la quale le mani di Germaine hanno segnato il nero profondo della scatola che solo apparentemente la conteneva, il fumo che a tratti rendeva confusa la scena, occultando il grande corpo della ballerina, sono tutti lampi, “segni”, sintagmi, intensi, tragici, emo- tivamente destabilizzanti, riconducibili all’identità, un’identità spezzata e ricomposta, integrata fatta di Corpo e di Spirito, non solo della danzatrice, ma delle persone, degli individui e delle collettività colonizzate, così come, forse, dei colonizzatori, qualora essi ponessero in discussione gli stigmi del sopruso.
Un spazio tanto piccolo, irrilevante e geometrico, come una scatola nera, può contenere la forza catartica di una donna che ci ha mostrato cosa sia la libertà? In questa dimensione minimale in apparenza, ma emotivamente esplosiva, si libera e si narra, con il corpo e con i gesti, con la voce e con lo sguardo, il Discorso sull’essere Coloni o Colonizzati, sul prevaricare e sul subìre, sul dominio e sull’equità.
Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Note
[1] Il titolo è l’incipit di una frase: «Brooklyn was a dream. All the things that happened there just couldn’t happen. It was all dream stuff. Or was it all real and true and was it that she, Francie, was the dreamer?», tratta dal romanzo (1943) A Tree Grows in Brooklyn, di Betty Smith. Un classico da cui Elia Kazan trasse, due anni dopo la pubblicazione, un film.
[2] Attualmente la popolazione dei cinque Distretti ammonta a circa 8.5 mln di abitanti. La densità media è di 10.947 ab/kmq. Il Distretto più popoloso, dopo Brooklyn, è Manhattan che, in una superfice di appena 87 kmq, (59 kmq, 28 kmq di acque interne), ospita più di 1.6 mln di persone, esclusi i commuters che ogni giorno lavorano, visitano o “abitano” l’isola. Con essi si supera di gran lunga la popolazione ospitata a Brooklyn.
[3] The Consolidation, nel 1898, istituì una nuova Unità amministrativa, designata con il nome di The City of Greater New York, dal 1938 denominata come City of New York (NYC). Il lungo e controverso processo, che vide agire anche frange politiche e sociali in opposizione, e condusse al consolidamento, iniziò negli anni ’20 dell’800 e fu compiuto anche per l’intervento di alcune figure chiave; tra esse Andrew Haswell Green (membro, tra l’altro, del Board of Commissioners of Central Park), noto come “The Father of New Greater New York”.
[4] DUMBO, come spesso accade nell’assegnazione dei toponimi a NYC, è un acronimo: Down Under the Manhattan Bridge Overpass.
[5] «The New Colossus
Not like the brazen giant of Greek fame,
With conquering limbs astride from land to land;
Here at our sea-washed, sunset gates shall stand
A mighty woman with a torch, whose flame
Is the imprisoned lightning, and her name
Mother of Exiles. From her beacon-hand
Glows world-wide welcome; her mild eyes command
The air-bridged harbor that twin cities frame.
“Keep, ancient lands, your storied pomp!” cries she
With silent lips. “Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore,
Send these, the homeless, tempest-tossed to me,
I lift my lamp beside the golden door!”»
[6] La prima strofa di Crossing Brooklyn Ferry, di Walt Whitman, restituisce le atmosfere. «Flood-tide below me! I see you face to face! Clouds of the west – sun there half an hour high – I see you also face to face. Crowds of men and women attired in the usual costumes, how curious you are to me! On the ferry-boats the hundreds and hundreds that cross, returning home, are more curious to me than you suppose, And you that shall cross from shore to shore years hence are more to me, and more in my meditations, than you might suppose».
[7] Tra esse alcune Banche, come la Dime Savings Bank of New York. L’edificio, oggi landmark e non più sede dell’istituto finanziario, fu costruito in un lotto trapezoidale, tra il 1906 e il 1908, tra DeKalb Avenue e Fleet Street nella vasta porzione del Civic Center, oggi contraddistinto da una forte connotazione commerciale). La Banca, così come molte altre, fu presente come istituzione economica fin dal 1859 a testimonianza della forte autonomia della “città” di Brooklyn.
[8] Le strutture BAM includono: su Lafayette Avenue, L’Howard Gilman Opera House (2.109 posti). Il Rose Cinemas (ex Carey Playhouse) aperto nel 1997, che consente ai Brooklynites di vedere film d’arte senza andare a Manhattan. Il Lepercq Space, originariamente la sala da ballo di BAM, ora spazio flessibile per eventi e sede di ricevimenti. La BAM café, aperta per la cena notturna post rappresentazione nell’Opera House, e che offre servizi come la BAM café Live, una serie gratuita di spettacoli dal vivo il venerdì e il sabato. L’Hillman Attic Studio, uno spazio flessibile per le prove. Nell’edificio BAM Harvey, a Fulton Street, si trovano: l’Harvey Theatre (874 posti), precedentemente noto come Teatro Majestic. Una recente ristrutturazione dell’architetto Hugh Hardy ha lasciato l’interno non finito dando al teatro l’aspetto di una “rovina moderna”. Nell’aprile 2014, la CNN citò il BAM Harvey come uno dei “15 teatri più spettacolari del mondo”. Altri edifici sono: la BAM Fishman Space, un teatro nero al proprio interno (250 posti) e la BAM Fisher Hillman Studio, uno spazio flessibile per le prove.
[9] Femme noire, di Léopold Sédar Senghor, in Chants d’ombre;
«Femme nue, femme noire
Vétue de ta couleur qui est vie, de ta forme qui est beauté
J’ai grandi à ton ombre ; la douceur de tes mains bandait mes yeux
Et voilà qu’au cœur de l’Eté et de Midi,
Je te découvre, Terre promise, du haut d’un haut col calciné
Et ta beauté me foudroie en plein cœur, comme l’éclair d’un aigle
Femme nue, femme obscure
Fruit mûr à la chair ferme, sombres extases du vin noir, bouche qui fais lyrique ma bouche
Savane aux horizons purs, savane qui frémis aux caresses ferventes du Vent d’Est
Tamtam sculpté, tamtam tendu qui gronde sous les doigts du vainqueur
Ta voix grave de contralto est le chant spirituel de l’Aimée
Femme noire, femme obscure
Huile que ne ride nul souffle, huile calme aux flancs de l’athlète, aux flancs des princes du Mali
Gazelle aux attaches célestes, les perles sont étoiles sur la nuit de ta peau.
Délices des jeux de l’Esprit, les reflets de l’or ronge ta peau qui se moire
A l’ombre de ta chevelure, s’éclaire mon angoisse aux soleils prochains de tes yeux.
Femme nue, femme noire
Je chante ta beauté qui passe, forme que je fixe dans l’Eternel
Avant que le destin jaloux ne te réduise en cendres pour nourrir les racines de la vie».
[10] Il Senegal, nazione che ha un’economia meno fragile rispetto ad altri contesti africani fu, dal 1946, annesso al territorio francese. Nel 1958 divenne Repubblica autonoma, e nel 1960 ottenne l’indipendenza. Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire, furono tra gli ideologi della négritude: la riscoperta e la riappropriazione della cultura africana, quale risposta alla cultura europea imposta e ritenuta superiore dai colonizzatori nei confronti delle popolazioni indigene africane.
[11] L’Ecole des Sables, fondata nel 1998 da Germaine Acogny, in Senegal, può essere concepita sia come il luogo dell’incontro della tradizione della danza africana con la danza contemporanea, sia come lo spazio dell’incontro interculturale e della promozione della pratica artistica della danza, ancor più significativo in un’area dove l’accesso all’istruzione e alle risorse culturali è, spesso, limitato. La Danza, come detto da Germaine Acogny, diventa, in tal senso, una strada per la libertà.
[12] Mudra è una scuola di danza fondata a Bruxelles nel 1970 da Maurice Béjart, che intende dare una dimensione internazionale al balletto contemporaneo. La Scuola fu finanziata essenzialmente dall’UNESCO.
[13] Olivier Dubois è un coreografo francese (1972), nativo di Colmar, in Alsazia. Inizia la sua carriera come danzatore solo a 23 anni, fonda una sua Compagnia (COD) nel 2007, che cambia nel 2014 il nome in “Ballet du Nord Olivier Dubois”.
[14] Discours sur le Colonialisme, di Aimé Césaire (1913-2008), fu pubblicato per la prima volta nel 1950, di seguito ristampato. Il significativo frammento, in parte recitato dalla Acogny durante lo spettacolo, è tratto dall’edizione del 1955:
«Colonisation et civilisation?
La malédiction la plus commune en cette matière est d’être la dupe de bonne foi d’une hypocrisie collective, habile à mal poser les problèmes pour mieux légitimer les odieuses solutions qu’on leur apporte.
Cela revient à dire que l’essentiel est ici de voir clair, de penser clair, entendre dangereusement, de répondre clair à l’innocente question initiale : qu’est-ce en son principe que la colonisation ? De convenir de ce qu’elle n’est point: ni évangélisation, ni entreprise philanthropique, ni volonté de reculer les frontières de l’ignorance, de la maladie, de la tyrannie, ni élargissement de Dieu, ni extension du Droit ; d’admettre une fois pour toutes, sans volonté de broncher aux conséquences, que le geste décisif est ici de l’aventurier et du pirate, de l’épicier en grand et de l’armateur, du chercheur d’or et du marchand, de l’appétit et de la force, avec, derrière, l’ombre portée, maléfique, d’une forme de civilisation qui, à un moment de son histoire, se constate obligée, de façon interne, d’étendre à l’échelle mondiale la concurrence de ses économies antagonistes.
Poursuivant mon analyse, je trouve que l’hypocrisie est de date récente ; que ni Cortez découvrant Mexico du haut du grand téocalli, ni Pizarre devant Cuzco (encore moins Marco Polo devant Cambaluc), ne protestent d’être les fourriers d’un ordre supérieur ; qu’ils tuent ; qu’ils pillent ; qu’ils ont des casques, des lances, des cupidités ; que les baveurs sont venus plus tard ; que le grand responsable dans ce domaine est le pédantisme chrétien, pour avoir posé les équations malhonnêtes : christianisme = civilisation ; paganisme = sauvagerie, d’où ne pouvaient que s’ensuivre d’abominables conséquences colonialistes et racistes, dont les victimes devaient être les Indiens, les Jaunes, les Nègres.
Cela réglé, j’admets que mettre les civilisations différentes en contact les unes avec les autres est bien ; que marier des mondes différents est excellent ; qu’une civilisation, quel que soit son génie intime, à se replier sur elle-même, s’étiole ; que l’échange est ici l’oxygène, et que la grande chance de l’Europe est d’avoir été un carrefour, et que, d’avoir été le lieu géométrique de toutes les idées, le réceptacle de toutes les philosophies, le lieu d’accueil de tous les sentiments en a fait le meilleur redistributeur d’énergie.
Mais alors, je pose la question suivante : la colonisation a-t-elle vraiment mis en contact ? ou, si l’on préfère, de toutes les manières d’établir le contact, était-elle la meilleure?
Je réponds non.
Et je dis que de la colonisation à la civilisation, la distance est infinie; que, de toutes les expéditions coloniales accumulées, de tous les statuts coloniaux élaborés, de toutes les circulaires ministérielles expédiées, on ne saurait réussir une seule valeur humaine».
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Flavia Schiavo, architetto, paesaggista, insegna Fondamenti di urbanistica e della pianificazione territoriale presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha pubblicato monografie (Parigi, Barcellona, Firenze: forma e racconto, 2004; Tutti i nomi di Barcellona, 2005), numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali e contributi in atti di congressi e convegni. Docente e Visiting professor presso altre sedi universitarie, ha condotto periodi di ricerca, oltre che in Italia (come allo Iuav di Venezia), alla Sorbona di Parigi, alla Universitat Autònoma de Barcelona (UAB) e alla Columbia University di New York. La sua ultima pubblicazione, Piccoli giardini. Percorsi civici a New York City (Castelvecchi 2017), è dedicata all’analisi dei parchi e dei giardini storici e contemporanei della Mega City.
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