Molte teorie si cibano dei processi sociali che osservano a distanza. Altre ancora costruiscono concetti che alludono alla realtà ma che spesso si trasformano in camicie di forza. Oppure cercano di spingere le articolazioni della società coeva all’interno di uno schema che ripropone dogmatismi del passato. In pochi scelgono di fondare la loro cifra teorica a partire dalla empirica e banale quotidianità. Elevando l’esperienza, caleidoscopio di ingiustizie e possibilità, a categoria di pensiero e a scrittura (popolare), evitando però che la propria biografia prenda il sopravvento. Ci vuole una giusta distanza, anche da se stessi, per scavare nella profondità del reale. Questo incedere teorico è un tratto caratteristico di bell hooks – intellettuale e attivista afroamericana, rigorosamente minuscola per intercettare i processi alla base (sociale) – che ritorna al pubblico italiano con un doppio testo (Elogio del margine e Scrivere al buio: Maria Nadotti è curatrice e traduttrice del primo e autrice del secondo, una lunga conversazione con hooks), riunito in un unico volume, a distanza di più di vent’anni dalla loro prima pubblicazione, per merito dell’intuizione dell’esordiente casa editrice napoletana Tamu.
La sensazione, tuttavia, non è quella di una riedizione perché i temi affrontati – il radicato razzismo della società americana, l’intersezione strategica tra questo, il sessismo e il sistema di produzione nella determinazione di modelli oppressivi (per i neri) – aderiscono perfettamente alle divisioni che lacerano gli Stati Uniti oggi, alla correità degli apparati di sicurezza con la trama razzista e alle uccisioni dei tanti George Floyd che indicano come la Black Atlantic, il retaggio schiavista, agiscano ancora sotto traccia.
In un certo senso la storia di bell hooks, che prende avvio nel Kentucky dell’apartheid, anni Cinquanta e Sessanta, nel municipio di Hopkinsville dove la ferrovia divideva il mondo dei bianchi da quello dei neri, e in cui l’unica interazione era la servitù che i neri offrivano ai bianchi, ne propone indirettamente un’intensa spiegazione. Certo l’ordine del discorso e dei fatti hanno in parte subito un cambiamento che ha allentato il segregazionismo. Ma non abbastanza da archiviare in modo definitivo rappresentazioni che ripropongono l’usuale dinamica egemonia-subalternità e che spesso accettano di essere aggirate (dai neri) solo attraverso la loro mutuazione. Frantz Fanon lo aveva anticipato come deriva sediziosa in Pelle nera, maschere bianche.
Quelle di bell hooks – pseudonimo che riunisce i nomi della mamma e della nonna, e che ha sublimato l’identità iniziale di Gloria Jean Watkins – sono esperienze al margine e non solo di margine. Attraverso il proprio corpo, le articolazioni della vita, le relazioni (le prime con un bianco le avrà a 16 anni) la pensatrice costruisce delle situazioni liminali, di possibile (ma non certa) trasformazione della realtà. Dunque, il margine non è solo l’unità di misura della privazione. Ma una soglia che allude a passaggi di campo, a interferenze che deviano le rappresentazioni, smarcando grammatiche e simbologie stratificate. È «un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza» dove si costituisce il discorso controegemonico, dove dissolvere la subalternità che agisce non solo nel linguaggio ma anche «nei modi di essere e vivere». Un luogo, anche, dove ridefinire centro e periferia o semplicemente dove dissolverli.
La rappresentazione è una delle direttrici del doppio testo perché è al suo interno, come osservava Stuart Hall, che si definisce l’identità. L’atto di rappresentare è un crinale sottile e spesso si traduce nel piegare la realtà alla propria visuale, deformarla e costruire saperi che poi la fissano. Come spiegava Said in Orientalismo, secondo cui la rappresentazione è «un tentativo di essenzializzare, denudare e in fondo sminuire l’umanità di un’altra cultura, di un altro popolo, di altri modi di interagire con l’ambiente». Quella africana, e le sue derivazioni e mescolanze, ha poi generato un archivio di cliché e luoghi comuni. Negli intrecci tra razza e sesso, per esempio, con la classificazione del nero stupratore, «minaccia e pericolo della società» che va controllata con ogni strumento a disposizione, «inclusa l’eliminazione fisica».
Per l’intellettuale afroamericana «la fissazione ossessiva dei media su tali rappresentazioni è politica». Il cinema non si è scostato da tale focus rappresentativo, lasciando sullo sfondo le donne nere, stereotipandole in ruoli lascivi (la puttana, la megera) e contrapponendo l’ideale di donna bianca che lo doveva essere sempre di più per creare un contraccolpo inarrivabile all’Altra nera. «Le convenzionali rappresentazioni delle donne nere hanno fatto violenza all’immagine» scrive hooks. E lo stesso è accaduto con i primi film-maker neri che hanno mostrato le donne nere «come oggetti dello sguardo maschile». Il cinema, dunque, procede come un’arte al servizio di un potere che, come insegnava Foucault, si articola a più livelli e quasi mai in modo repressivo ma dialogico attraverso la produzione di sapere, di simbologie. «Quando i neri degli Stati Uniti ebbero per la prima volta occasione di andare al cinema o di guardare la televisione, lo fecero sapendo perfettamente che quello dei mass media era un sistema di conoscenza e di potere che riproduceva e manteneva la supremazia bianca» rimarca ancora hooks.
Lo sguardo diventa allora un crocevia essenziale per stabilire i rapporti di forza, per fissare le raffigurazioni, per un’idea di vero. Cosa osserva chi guarda? Come ricompone il reale, la quotidianità? E, a sua volta, l’osservato si manifesta solo in una posizione passiva? hooks premette che lo sguardo è sempre politico perché «c’è potere nel guardare». E invita proprio per questo ad assumere uno sguardo oppositivo, critico. Quello che, per esempio, nel cinema rifiuta «di identificarsi con la femminilità bianca (…) di assumere su di sé lo sguardo fallocentrico del desiderio e del possesso». Non è un discorso semplice quello che conduce al pensiero critico. Perché anzi il desiderio di avanzare, di riscattarsi, di lasciare alla deriva la propria condizione di nero spesso si trasforma nell’accettazione del canone bianco, nella sua assunzione, come nel film di Spike Lee, Lola Darling, in cui hooks rileva la riproduzione di «pratiche filmiche patriarcali che riflettono i modelli dominanti» e che fanno del cineasta «il perfetto candidato nero all’entrata nel canone hollywoodiano». Profezia avverata.
La pensatrice di Hopkinsville non ha nessuna indulgenza verso la suggestione di contrapporre all’idealtipo bianco una nazione nera. Nel saggio dedicato all’estetica della nerezza nota come nell’arte afroamericana si è manifestata una tendenza «a evocare in modo immaginifico la nazione nera, la terra natale, ricreando dei legami con il passato africano e allo stesso tempo evocando una mitica nazione a venire in terra d’esilio». La tentazione era quindi quella di creare un movimento essenzialista «caratterizzato da un’inversione della dicotomia noi/loro», ma non è questo un obiettivo per hooks. Anzi, è un pendio da non praticare, quello del nazionalismo, perché – come per l’archetipo familiare patriarcale e per lo stupro simbolico (e reale) del colonizzatore bianco sulla colonizzata nera – rischia solo di mutuare lo stesso modello, invertendo semplicemente i rapporti di forza. La politica della differenza e l’idea dei soggetti plurali, in divenire, sottoposti a ciclica revisione culturale, è l’unica strada per una ricostruzione paritaria delle relazioni, per la riallocazione dello sguardo sul mondo, per la ricomposizione della realtà con schemi aperti.
Questa strategia, che deriva dal pensiero post-moderno, hooks la applica anche al campo del femminismo che fino a quel momento si era cesellato sulle esigenze delle donne bianche. Nell’intervista a Maria Nadotti, la pensatrice spiega che all’università aveva inserito nei suoi programmi di studio anche i women’s studies,
«che allora erano frequentati per lo più da bianche. La loro posizione era radicalmente diversa dalla mia: per loro il problema centrale era l’esclusione delle donne dalla forza lavoro. Tornavo a casa dicendomi che non riuscivo nemmeno a capire di cosa stessero parlando: tutte le donne che in vita mia avevo conosciuto avevano sempre lavorato. Fu così che cominciai a pensare che forse, nel fatto di essere una donna nera, c’era qualcosa di peculiare, di diverso».
Per le donne nere, poi, agli occhi di hooks il lavoro non era mai stato un terreno di emancipazione, ma piuttosto di plastica dimostrazione di sottomissione ai bianchi. Nel contatto con i women’s studies, come annota Maria Nadotti nell’introduzione del 1998, «bell si accorge che la parola-concetto “donna” che lì si praticava rischia di non contenerla, di esporla ad una nuova invisibilità».
Dunque, anche all’interno del campo del femminismo la proposta è di far lavorare la logica della differenza, di allargare lo spettro delle strategie per includere anche qui quegli sguardi incautamente tenuti fuori. Rispetto all’affermazione di nuove teorie sul genere, hooks non nasconde il suo interesse («Trovo assolutamente straordinario e affascinante quanto si va producendo nel campo della cosiddetta queer theory e a proposito di cross-dressing o di transgender»), ma non ne condivide la centralità. «Continuo a pensare che non siano queste le priorità quotidiane della grande maggioranza delle donne e degli uomini. Per me, ad esempio, resta di primaria importanza che le donne capiscano che, all’interno del patriarcato, gli uomini hanno il permesso di mentire».
Come si possa agire per trasformare o rivoluzionare la realtà, bell hooks lo affida a quello che potremmo definire la (ri)politicizzazione della quotidianità. Intanto costruendo dei diversi significati, delle relazioni di senso, come il valore politico attribuito al focolare domestico come luogo di protezione dal razzismo. E poi contrastando quei meccanismi di sessismo e razzismo che i neri talvolta tendono a riprodurre come nel caso dello stupro simbolico come atto di sottomissione o di presunta liberazione o i processi di assimilazione per cui un nero sdogana la sua appartenenza di classe, razza e sesso solo se aderisce al sistema dei bianchi. Questa politicizzazione deve funzionare nella vita spicciola come nell’arte, nei media, nelle relazioni, nella lingua, nello sguardo per produrre una decolonizzazione della mente.
L’eredità del black feminism – che oltre a bell hooks annovera Angela Davis, June Jordan, Michele Wallace e altre – propone, nelle parole di Nadotti, anche delle riflessioni applicabili al Mediterraneo «per interrogarci sul rapporto che intendiamo intrattenere con i nostri neri, i vicini d’oltremare che anelano a lasciare il proprio Paese, resi schiavi non dai negrieri, ma dalla povertà, dalle guerre umanitarie, dal tentativo di scrollarsi di dosso dittature incancrenite e le efferatezze scatenate dal virtuoso, ma non disinteressato, interventismo occidentale. Resi schiavi, in modo solo apparentemente più indolore, dalla fata morgana della libertà e del consumo, dal desiderio di diventare come noi». Sono uno dei tanti volti del Mediterraneo “europeizzato” che sempre di più, per il moto impetuoso dei processi postcoloniali e di un differente approccio alla costruzione della Storia, sta riacquisendo la sua natura ibrida e molteplice.
Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Riferimenti bibliografici
bell hooks, Maria Nadotti, Elogio del margine e Scrivere al buio, Tamu Edizioni, Napoli, 2020.
bell hooks, Insegnare a trasgredire, Meltemi, Milano, 2020.
Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Edizioni Ets, Pisa, 2015.
Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2013.
Michel Foucault, Lezioni sulla volontà di sapere. Corso al College de France (1970-71), Feltrinelli, Milano, 2015.
Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 2016.
Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, Meltemi, Milano, 2016.
Eve Kosofvsky Sedwick, Epistemology of the Closet, University of California Press, Los Angeles, 2008
Edward Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano, 2013.
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Simone Casalini, giornalista professionista, è caporedattore del Corriere del Trentino-Corriere della Sera e collabora con alcune riviste di politica internazionale (Eastwest e Dialoghi mediterranei), curando in particolare l’evoluzione sociopolitica della Tunisia e il tema delle migrazioni. È anche docente a contratto all’università di Trento. Si è laureato in Scienze politiche all’Università di Urbino. Ha pubblicato Intervista al Novecento (Egon, 2010) in cui attraverso la voce di otto intellettuali – tra i quali Sergio Fabbrini, Toni Negri, Franco Rella e Gian Enrico Rusconi – ha analizzato l’eredità del secolo breve e Lo spazio ibrido. Culture, frontiere e società in transizione (Meltemi, 2019). È coautore del libro collettivo La Trento che vorrei (Helvetia, 2019) e del documentario sulla primavera araba tunisina: Tunisia, nove anni dopo. La rivoluzione sospesa (2020, con Roberto Ceccarelli, https://vimeo.com/395279730 ).
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