Che non abbiamo soltanto un corpo ma siamo un corpo è consapevolezza dolorosamente esperita nell’angoscia collettiva della pandemia, nella tragedia della improvvisa e universale vulnerabilità. Il corpo celebrato e spettacolarizzato, trionfante ed “aumentato” nelle infinite protesi estetiche e tecnologiche, il corpo immaginato e idealizzato nei miti dell’eterna giovinezza e nelle potenti e pervasive rappresentazioni mediatiche, mai come ora questo corpo – una sorta di totem della contemporaneità – è apparso debole e inerme, fragile e precario, umano troppo umano. Forse mai come ora la corporeità che abitavamo come in un culto quasi autistico è stata percepita e restituita nella sua dimensione relazionale, nelle sue radicali e ineludibili connessioni con la vita e il destino degli altri.
Crocevia di segni e di legami, di discorsi e di pratiche, campo di forze in perenne e dialettica tensione, il corpo è, in verità, nodo inestricabile di natura e cultura e, in quanto tale, oggetto e soggetto di conoscenza, costrutto anatomico e costruzione sociale, fulcro dell’agentività individuale e delle produzioni simboliche. L’antropologia ha contribuito a dare definitiva risoluzione all’ambiguità strutturale dell’antinomia cartesiana – res extensa/res cogitans – iscrivendo e traducendo nell’ordine culturale i codici biologici, riannodando in un unico ordito i fili dell’essere e dell’avere un corpo. Marcel Mauss (1965: 392) ha indicato nel corpo «il primo e il più naturale oggetto tecnico e, nello stesso tempo, mezzo tecnico dell’uomo», aprendo la strada alla molteplicità degli approcci conoscitivi, dalla fenomenologia alla semiotica, dalla sfera artistica alla cultura materiale, alla biopolitica. Il corpo come testo è trasduttore di segni (Gil 1982), ovvero veicolo della comunicazione, supporto fisico del senso e significante esso stesso del linguaggio. Il corpo al centro del dibattito pubblico è luogo di esercizio del potere (Foucault 1993), plasmato dalle dinamiche sociali e storiche ma anche produttore di esperienze soggettive e strategie di resistenze al controllo.
Corpi da disciplinare e sorvegliare, dunque, ma anche corpi da salvare e riscattare, come quelli degli immigrati le cui “vite nude” sono espulse, sequestrate, discriminate. Corpi come merce da smistare e sfruttare o come ultime risorse su cui investire per affermare e testimoniare la propria esistenza. Da qui le forme di autolesionismo: cucirsi le labbra con ago e filo per notificare la propria volontà di non collaborare al riconoscimento o bruciarsi i polpastrelli delle dita per sottrarsi alle operazioni delle impronte digitali. La protesta può passare attraverso il corpo quando la nuda vita, archetipo contemporaneo di cui ha scritto Agamben (1995: 6), «sostituisce il biologico al sociale, confermando il primato della vita naturale sull’azione politica». Il corpo ferito, violentato e prostituito è spesso il prezzo pagato per il viaggio, la traversata, il viatico per fuggire la morte.
Il corpo dunque è soglia e frontiera di pratiche performative che hanno densità antropologica e valore politico, per la sua liminalità è luogo elettivo di intersezione di saperi, tecniche e mondi simbolici diversi, per la sua versatile e ineludibile presenza compendia le questioni connesse alla complessità e mobilità delle identità culturali. Non è senza significato che incorporare sia paradigma verbale e concettuale entrato nel lessico delle scienze umane, definisca il processo di somatizzazione delle posture culturali in rapporto allo spazio, sia esso pubblico o privato, e al tempo, quotidiano o festivo. «Il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo», ha scritto Merleau-Ponty (2003: 260), con il corpo, infatti, nucleo di sensi e di energie, irradiazione e traduzione del sensibile, entriamo in contatto con il mondo, lo conosciamo, lo ordiniamo, costruiamo la nostra soggettività, con il corpo agiamo e diamo forma a quell’insieme irriflesso di modelli mentali e comportamentali “incorporati” che con Bourdieu abbiamo imparato a chiamare habitus.
Il corpo, scolpito e modellato, smembrato e ricomposto, può essere oggetto di studio della prossemica, della cinesica, dell’antropologia dei sensi, della medicina in cui sono ripensate le categorie della salute, della malattia, della stessa cura e, più in generale, può essere fulcro generatore dell’antropopoiesi, ovvero della costruzione dell’essere e perfino del genere umano. Può diventare altro da sé attraverso le pratiche di trasformazione quali tatuaggi, piercing o scarificazioni, può essere al centro di ostensioni o di repressioni tracimando dal campo somatico a quello sociale e segnico, alla dimensione estetica, etica o etnica.
«Il corpo – ha scritto Marc Augè (1987: 78-79) – costituisce contemporaneamente tutto ciò che si può apprendere dell’interiorità individuale e la forma immediata dell’esteriorità, insieme la parte più intima dell’uomo e quella più sensibile dell’universo. Materia e vita, esso è passivo e attivo, superficie d’inscrizione, emittente, portatore e produttore di segni…. Esso è innanzitutto ciò che permette di ordinare il resto, perché può servire a mettere in ordine il mondo esterno e perché serve, molto fisicamente, molto materialmente, a codificare la memoria sociale».
Il corpo occupa pertanto tutti i punti del continuum natura/cultura, e questa demartiniana e ineludibile presenza è storicamente attestata nel sistema delle relazioni tra gli uomini, tra gli uomini e le cose e soprattutto tra gli uomini e gli dèi, il soprannaturale, l’immaginario, il sacro. «Matrice identitaria, il corpo, eretto tra cielo e terra, è il filtro attraverso il quale l’uomo si appropria della sostanza del mondo e la fa sua attraverso la mediazione dei sistemi simbolici che egli condivide con i membri della propria comunità» (Le Breton 2007: XIII). Per il fatto di esservi iscritte la vita e la morte, il corpo è al centro dei riti di iniziazione e di transizione, di trasformazione della natura e di ordinamento del cosmo, di celebrazione del tempo e di protezione dello spazio, di catarsi, di espiazione e di trasgressione. «Il corpo è produttivo e riproduttivo, genera e recepisce, agisce e patisce, sottostando, comunque, all’assunto preliminare di essere destinato a perire» (Kamper 2002: 409). Cosa sono i riti se non l’esercizio di gesti, posture, performance in una sequenza cerimoniale prescritta e secondo un preciso codice di segni e simboli? Nessuna religione trascende il corpo, può fare a meno delle sue potenzialità tecniche ed espressive, delle sue diverse parti, di pelle e ossa, di carne e sangue. Si pensi solo alla fenomenologia connessa alla magia, agli innumeri temi della propiziazione, della contaminazione, del sacrificio, del pasto sacro, del pellegrinaggio, delle offerte votive.
Il corpo può, per esempio, diventare edule nelle forme dei pani rituali, che si preparano in occasione delle festività dei santi patroni. Può essere di cera o di argento, quando riproduce polmoni, mani, seni o arti guariti per grazia ricevuta. Una dissezione anatomica che accentua il ruolo del corpo come luogo fisico di mediazione metafisica, di penitenza e riscatto, di trait-d’union tra natura e cultura. Così è quando tra il corpo del santo rappresentato nel simulacro e il corpo del devoto che si avvicina al santuario si accende un cortocircuito somatico, un corpo a corpo, che vale a materializzare ed esaltare l’efficacia simbolica del rito. Nel caso dei pani anatomorfi, la loro commestibilità sancisce il particolare processo di assimilazione fisica e di intimo scioglimento del voto all’interno del corpo stesso dell’offerente, in una sorta di autoeucarestia, una concreta reincorporazione. Si compie attraverso l’introduzione del divino la reintegrazione dell’umano.
Nelle feste, in tutte le occasioni festive il corpo è al centro di prassi e sintassi ritmiche, di «un fare esemplare» – secondo l’acuta definizione di Giallombardo (2000: 194) – un corpo amplificato, indisciplinato, liberato, «che si espande gioiosamente in danza o in corsa, si ostenta in prove di forza o di abilità, oppure si contrae nel lento incedere, nel pallido riflesso dei simulacri della morte» (ivi: 195). Nei movimenti che tessono l’ordito cerimoniale – siano le ascensioni del pellegrino o i passi cadenzati e codificati sotto le vare in processione – il tempo è scandito da performance fisiche e sonore, un insieme di pratiche ritualizzate in cui si mettono in scena su un piano fuori dall’ordinario le articolazioni interne delle comunità, le tensioni e i conflitti, le sfide e le alleanze, le emozioni e le pulsioni. In una parola le relazioni sociali dissimulate o trasfigurate nell’orizzonte sacro del culto religioso, nella dialettica di transizione e risoluzione dal caos al cosmos.
Su questi temi, sulle dinamiche che investono la corporeità nei complessi mitico-rituali e nei processi culturali delle tradizioni popolari ha scritto un libro di grande interesse teorico e documentario l’antropologa Paola Elisabetta Simeoni, Il corpo sacro. Itinerari nella durevolezza del mito (Meltemi 2022). Vi sono raccolti i materiali desunti da ricerche condotte dall’autrice nell’arco di quasi quarant’anni in diversi contesti festivi. Un lungo percorso scientifico e umano quasi del tutto dedicato ad esplorare l’universo del sacro nelle sue stratificazioni storiche, nelle connessioni spaziali, nelle memorie ereditate come nelle soluzioni di permanenza e attualizzazione. Un impegno totalizzante esercitato in felice simbiosi con una costante attenzione per i molteplici aspetti dell’immaginario popolare e con una spiccata e personale sensibilità artistica brillantemente espressa nella lavorazione e nell’esecuzione di sculture in creta, in marmo e in bronzo.
«Per mia formazione multiculturale ho praticato una sorta di nomadismo intellettuale e esperienziale e camminato sui confini, oltre le frontiere culturali e disciplinari». Così scrive la studiosa nelle prime pagine del libro, confessando che l’esperienza artistica l’ha aiutata a coltivare l’immaginazione e la creatività. Da qui il suo sguardo olistico, la sua capacità di mettere in dialogo l’arte con le scienze, l’archeologia con l’etnomusicologia, la psicanalisi con la neurologia, l’antropologia simbolica con quella dei beni culturali, dei musei, dei patrimoni materiali e immateriali. L’approccio eminentemente femminile alla ricerca e alla scrittura ha orientato e caratterizzato lo stile delle sue indagini aperte allo studio di tutti i possibili livelli di conoscenza del mondo empirico, «una lettura della realtà che guardasse ai processi più che alle cose», naturalmente incline «a oltrepassare le categorie offerte dallo sguardo scientifico».
Nell’esplorazione dell’universo popolare e dei vari aspetti della produzione culturale e dell’organizzazione sociale in relazione alle costruzioni immaginifiche, Simeoni mette al centro di questo libro «quel corpo ‘integrato’ dove si condensano dinamicamente natura e cultura, (…) una vera e propria cerniera tra la dimensione fisica e quella spirituale». E in questa prospettiva processuale di superamento delle tradizionali dicotomie l’antropologa si muove tenendo conto della complessità delle interazioni che connettono il corpo individuale a quello cosmico, il corpo fisico a quello magico, il corpo profano a quello sacro. Ripercorre la letteratura scientifica sulla nozione del sacro, da Emile Durkheim a Rudolf Otto, da Roger Caillois a Mircea Eliade, da Gregory Bateson ad Alphonse Dupront fino a Marcel Mauss, a Michail Bachtin, a Ernesto de Martino e ne ribadisce la connotazione globale, l’immagine di una visione complessa del mondo iscritta nella particolare grammatica della religiosità popolare, nella quale l’autrice individua «quella “corpolentissima fantasia” vichiana che “fa di tutta la natura un vasto corpo animato, che sente passioni ed affetti”».
Il riferimento a Giambattista Vico si salda nel libro con originale empito alle ultime acquisizioni scientifiche della fisica della mente, agli sviluppi dei concetti di integrazione di corpo, mente e ambiente in uno straordinario flusso dinamico di reciproche modificazioni. In questa rappresentazione che ripensa e amplia la latitudine concettuale della natura, «il corpo è il perno dell’esistenza biologica e dei processi di metaforizzazione e di creazione dei simboli», è «veicolo di continuità transgenerazionale che mette in relazione vivi e morti», è «il luogo deputato alla performance rituale che riattualizza il mito che fonda e rifonda la continuità della vita e dell’oltre la vita».
I diversi testi raccolti nel volume sono correlati e cuciti da questo assunto teorico e metodologico, da questo fil rouge che attorno alla corporeità ha articolato e dipanato le numerose indagini sul terreno condotte dall’autrice. Così si passano in rassegna le manifestazioni teatrali, rituali e ludiche del carnevale di Bosa in Sardegna, l’azione delle maschere, il paesaggio sonoro e gestuale che caratterizza la peculiare esuberanza bulimica della festa. Particolare attenzione l’antropologa dedica alla rappresentazione drammatizzata dello smembramento delle carni nei fantocci, figure mascherate che rinviano in chiave simbolica a miti dionisiaci ed evocano l’archetipo narrativo del sacrificio del dio che muore per rinascere. «Le culture – annota opportunamente Paola Elisabetta Simeoni – sono formate da sincretismi e stratificazioni dove non tutti gli elementi corrispondono all’insorgere del sistema sociale ed economico ma si perpetuano adeguandosi e inglobando nuovi equilibri anche politici in maniera diacronica».
Lo studio delle invarianze e delle persistenze culturali è applicato dall’autrice anche al fenomeno delle Pupazze, figure antropomorfe femminili di grandi dimensioni e di aspetto ambiguo, diffuse in molti contesti festivi dell’Italia centrale. Nella lettura per certi versi strutturale che si propone si identificano analiticamente i nessi con schemi simbolici di ancestrale memoria, modelli rituali che risalgono forse al culto della Grande Madre, «una presenza arcaica che mostra il legame profondo con la terra dell’archetipo femminile primordiale totale». Il fuoco che brucia nel buio della notte l’enorme pupazza per purificare la comunità a scopo catartico e apotropaico, le risa e le grida che accompagnano le danze e la performance, il gigantismo di questi fantocci, spiriti liminari e tutelari, sono tutti eventi ed elementi che appartengono alla complessa costellazione simbolica del sacro del mondo contadino tradizionale.
Anche nel consumo del cibo in determinate occasioni festive la studiosa rintraccia le genealogie storiche con sistemi cultuali dell’antichità restando il corpo “grottesco” luogo nodale nella topografia dei legami tra vivi e morti, al centro di immagini capovolte della realtà, di un mondo di cuccagna che nell’immaginario folklorico realizza, per quanto in soluzioni effimere, le utopie dell’abbondanza e della felicità. Altre figure simboliche si incarnano nei fiori la cui celebrazione contrassegna i riti organizzati sull’incedere della stagione estiva, come quelli della festa di San Giovanni, quando le “bambole di maggio” o i “compari di fiori” in Abruzzo e in Molise incorporano quello “spirito arboreo” che custodisce e garantisce la ciclicità della vita e la reciprocità dell’alleanza tra gli uomini e la Terra.
Del molteplice articolarsi della figurazione plastica e antropomorfa del sacro l’antropologa offre infine ampia documentazione etnografica nell’analisi di due complessi culti, quello della Madonna di Mellitto o “Madonna delle donne” nella Murgia barese e quello di Santa Vittoria nel Lazio. In entrambi è rimarcata la soggettività delle donne (anche nelle sue componenti psichiche e neurologiche), il loro ruolo preponderante e totalizzante nella reificazione e reinterpretazione di un mito legato ad età storiche protoagricole e precerealicole, di quell’eterno femminino mediterraneo, simbolo di lunghissima durata che nell’attraversare i millenni resta testimoniato nella resilienza di riti e credenze popolari. I santi – siano potenze taumaturgiche, protettori o mediatori, dispensatori di grazie, figure liminari o archetipi iconografici esemplari – per il processo di forte personalizzazione delle relazioni con il devoto, per il loro radicamento identitario, la loro riconoscibilità nell’unico spazio della località, sono “corpi” iscritti sul territorio, corpi venerati e contesi, incontaminati e mitizzati, sacrificati e martirizzati, titolari di un patronato segnato dalla presenza delle reliquie, dalle memorie culturali presentificate nei rituali e nelle tradizioni orali. Nei loro simulacri coagula l’imago corporis, quell’investimento simbolico tra Eros e Thάnatos che fa del corpo il campo gravitazionale di organizzazione dello spazio e di misura del tempo.
«Il fatto è che il sacro, che è relazione tra il corpo e il mondo, si manifesta a un livello materiale, e fisico deve essere il contatto con le ierofanie: sono il corpo del santo, gli oggetti a lui appartenuti e i luoghi con i quali è entrato in contatto che acquisiscono infine valore divino. Questa percezione, smarrita nella razionalità del culto cattolico che fabbrica santità eteree, rimane invece percezione fondamentale della religiosità popolare che si nutre delle stesse fonti emozionali delle religioni antiche. Tale dimensione percettiva del corpo in azione è sentita specialmente dalle donne che hanno in molte società il compito di trasmettere di generazione in generazione i valori della tradizione e della fede».
Così chiude il suo volume Paola Elisabetta Simeoni riassumendo i cardini della densa riflessione sulle dinamiche del sacro, sulle sue diverse forme di immanenza e di “incorporazione”. Che non esiste religione come pura spiritualità se non nelle dottrine dei teologi, lo aveva spiegato Ugo Fabietti in una delle sue ultime opere, dimostrando che «per quanto spirituale possa essere una religione, non c’è modo di separarla da una sua base materiale fatta di oggetti manipolabili, di gesti, di immagini reali» (Fabietti 2014: 153-154). Così come non esiste cultura disincarnata dagli elementi tattili e vitali delle materie in cui si manifesta, non è intelligibile la metafisica della religione se non attraverso la fisica del mondo materiale. Se è vero che l’idea del sacro, nella sua originaria accezione di sacer, è antica quanto l’umanità, connaturata e contemporanea alla stessa filogenesi della specie, si capisce che la trascendenza non è una sovrastruttura ma una struttura consustanziale alle virtualità del corpo, al sentire profondo degli individui, al loro stare nel mondo. Il santo non sta nella gloria delle nuvole ma si incarna nei visceri e nel sangue dei viventi. Non è assenza austera, alterità remota ma presenza viva, materica, corporea. Signore del cielo e della terra, prodigioso nei suoi poteri magici e terapeutici, umano è tuttavia il suo volto, umane le sue fattezze, umana la sua storia sovraumana. «Sono gli dèi a discendere sugli uomini, a ‘cadere’ sui loro fedeli, a ‘cavalcarli’, espellendo la loro personalità per esprimersi attraverso la loro bocca o i loro gesti» ha scritto Marc Augè (2002: 136), dal momento che «non c’è vita spirituale che non tragga la propria forza dalla materia vivente» (ivi: 220).
A pensarci bene, dalla necessità di oggettivare e oggettualizzare l’istanza religiosa della vita muove la conversione dell’immagine del sacro nel processo di sacralizzazione della immagine. Nel corpo ritrovato e “denaturalizzato”, al di là di inutili e banali sovrainvestimenti di tipo feticistico, l’antropologia riconosce i segni e i disegni della millenaria storia che l’uomo ha costruito attraverso quel sapiente mosaico di simboli, valori e gesti che chiamiamo cultura. La religione popolare nei suoi riti e nelle sue molteplici espressioni del sacro continua ancora oggi a dialogare con il mondo tra invenzione e conservazione nel flusso incessante che converte la globalità nella località, il caos in cosmos. Si chiede Luigi Lombardi Satriani nell’attenta e puntuale a prefazione a Il corpo sacro di Paola Elisabetta Simeoni, «quanto di ludico vi sia nelle occasioni festive, quanta parte prenda l’autentico fervore religioso, quanto vi sia da chiamare, con ragione, rituale e se i miti facciano parte, come archetipi o come emozioni profonde, alle attività religiose contemporanee, se questi elementi infine possano influire sull’esperienza sociale e religiosa attuale riguardo al tema della ripresa del fenomeno festivo (interrotto nella temperie pandemica)». A questi interrogativi il volume della Simeoni offre risposte chiare e sensate, fondate su una lunga, originale e feconda esperienza di ricerca.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Riferimenti bibliografici
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M. Augè, Corps marqué, corps masqué, in J. Hainard, R. Kaehr (a cura), Le corps enjeu, Neuchâtel, Musée d’Ethnographie, 1983: 77-86
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U. Fabietti, Materia sacra, Raffaello Cortina Milano, 2014
M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi Torino, 1993
F. Giallombardo, Una moltitudine di ritmi. Note a un dramma della creazione, in La forza dei simboli a cura di I. E. Buttitta e R. Perricone, Folkstudio Palermo 2000: 192-206
J. Gil, Corpo, in Enciclopedia, Einaudi Torino, 1982: 1096-1160
D. Le Breton, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Milano, 2007
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M. Merleau-Pounty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani Milano 2003
D. Kamper, Corpo, in Le idee dell’antropologia, a cura di C. Wulf, ed. it. a cura di A. Borsari, Bruno Mondadori, vol. I, Milano 2002:409-418
P. E. Simeoni, Il corpo sacro, Itinerari nella durevolezza del mito, Meltemi Milano 2022.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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