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di Salvina Chetta e Nicola Grato
Sedie ben distanziate e bandierine: su una piazza è pronto il gran pavese del ballo tradizionale, quello che negli anni ha “chiamato” tanti turisti cittadini e che un tempo era un rito propiziatorio, una festa del paese, uno spazio sacro nello scorrere senza posa del tempo e della vita. Scirocco grosso, le strade delle due del pomeriggio invitano alla resa senza condizioni anche i più incalliti fra i camminatori.
Vetrine di barbieri, tante vetrine di barbieri: in questo paese radersi è forse l’attività prediletta da questi abitanti: ma quali abitanti? Non ne vediamo, certo lo scirocco è davvero troppo forte, saranno rintanati. O forse non ci sono proprio, e per le strade solo alcuni turisti seduti sui gradini cercando un filo di ombra, una pergola, un riparo.
Guardiamo dentro una di queste vetrine lucide di un salone da barba: un uomo molto vecchio sembra morto da poco: la testa rivolta all’indietro, la bocca aperta, il bastone tenuto sghembo tra le mani ossute. Ma è un’impressione: dorme e ha soprassalti nel sonno.
Di un balcone è rimasta soltanto la ringhiera di ferro: crollato il resto, la finestra di legno ha le stecche rotte. Chissà chi ci abitava qui un tempo, chissà perché è andato via, perché sono andati via. Il sole fa giochi con i ferri sporgenti dall’intonaco giallino del muro, così sembrano tante linee di una meridiana queste ombre che girano, si allungano: sembrano segnali da decifrare.
Quando visitiamo i paesi, durante le nostre passeggiate per vicoli e piazze, attraverso vanidduzzi “insignificanti” o per strade vuote, pensiamo sempre o quasi: vorremmo vivere qui, sarebbe bello uscire di casa e parlare con questa donna che ha fatto festa ai nostri bambini. Non fare i turisti, vivere proprio in ogni luogo.
È questa chiaramente una idea vaga, più un moto istintivo e impetuoso dell’affetto che una precisa scelta raziocinante; eppure al fondo di questo invaghimento per i paesi esiste, crediamo, una ricerca di profondità. Ricerca che “parte” innanzitutto da noi stessi, dall’osservare il nostro modo di stare al mondo, per poi appuntarsi sui luoghi, sui paesi, sui margini.
Mentre percorriamo queste strade accaldate si gioca Italia-Galles: la radiocronaca proviene dal bar, tre ragazzi seduti sorseggiano bevande. A Scaletta Superiore neanche un bar: gli anziani stanno seduti in un luogo fuori dal centro, un luogo di cemento con un tavolino improvvisato al centro: giocano a carte.
Nella parte bassa, sulla costa, Scaletta Zanclea, di cui questo borgo arroccato è frazione: ferite aperte ancora dell’alluvione del 2009. Rombano auto e camion sul serpente dell’autostrada. Scaletta Superiore e l’ammasso di cose nelle case abbandonate: reti di letti, tegole, bottiglie, frigoriferi e panni stesi ma nelle case non c’è nessuno e pare uno scherzo del demonio la pianta di gerani sul balcone diroccato.
Ha trentasette anni e la scuola l’ha fatta qui: l’ultimo anno, poi l’hanno chiusa. Abbiamo parlato con due donne, c’erano bambini che giocavano – un uomo con lo sguardo triste quasi schermendosi ci dice di ritornare, ché il castello domani sarà aperto.
Il dodici dicembre del 1974 Turi Pavone è partito dal paese: ce lo testimonia una scritta sulla porta di questa vecchia casa chiusa; una macelleria coi ganci per la carne esposti in una vetrina: sarà chiusa da almeno trent’anni; quello che resta di una vecchia officina di fabbro è questo tornio arrugginito, le figurine Panini del Campionato di serie A 1990/91 attaccate alla saracinesca.
Sulla piazzetta della chiesa un camminatore in abbigliamento tecnico ci chiede di fargli una fotografia, vuole per sfondo proprio la chiesa e questa piazza vuota, attorniata da case chiuse.
Spazi dell’incolto e del residuo, luoghi di memoria e di dimenticanza in alterno dispiegarsi, i paesi ci offrono il loro vero volto: non quello agghindato per i turisti, non quello delle sagre e delle feste ma il volto vero, ossia quello di luoghi colmi di case vuote, che alcuni vorrebbero mettere in vendita ma che difficilmente saranno vendute a qualcuno.
I paesi possono oggi essere i luoghi dell’innovazione e forse della transizione ecologica, ma intanto sono spazi dell’abbandono: parliamo dei paesi dell’interno, dei paesi montani del Messinese che si affacciano sulla costa densamente popolata.
Quale umanità vive oggi in questi luoghi? Perché chi abita nei paesi, quei pochi che ancora restano, non sono andati via? Beninteso: non parliamo soltanto dei paesi siciliani, i piccoli paesi che assistono quasi ogni giorno alla chiusura di una casa, forse per sempre; parliamo ad esempio anche dei paesi abruzzesi, abitati soltanto in estate perché in questa stagione ci sono i turisti e qualche emigrato vi ritorna.
Non abbiamo una risposta, ma soltanto domande, le stesse che ci facciamo ogni giorno alle quali non è possibile rispondere se non con idee provvisorie, suscettibili di mutamento repentino.
I paesi sono spazi residuali, l’organizzazione è al centro e forse abitare in un piccolo paese oggi ha molto a che fare con la possibilità di cercare un nuovo orientamento nel mondo contemporaneo, nonostante lo squilibrio forte tra territori serviti e paesi abbandonati in cui per arrivare non è raro si debbano attraversare fondi privati “in mezzo alla terra”, perché la strada di collegamento è interrotta.
Se però dobbiamo dire oggi perché restiamo in un piccolo paese, ci viene in mente quel signore che al bar offre a tutti: dal mattino fino al tardo pomeriggio tutti sono suoi ospiti. Non stiamo parlando di un ricco magnate ma di una persona che vive di una esigua pensione, di un uomo che fa lunghe passeggiate nei boschi e ritorna in paese coi doni: lumache, funghi, castagne.
È stato in Germania dove ha lavorato duro come muratore, qui fa lavori saltuari. Anni fa ebbe un incidente con l’auto che lo ha conciato male, soprattutto dal punto di vista del morale: per un lungo periodo è stato triste, ombroso e scostante. Ma sembra essere una storia relegata al passato. Restiamo qui per lui? Sarebbe ingenuo pensarlo e affermarlo, ma certamente raccontare di lui è un’esperienza che possiamo fare qui, in questo paese e “da” questo paese.
Restiamo perché è possibile passeggiare tra i boschi, seppure il supermercato con i prodotti “buoni” è distante, è in città. Non vogliamo parlare di piccola patria, ma in un tempo di cambiamento climatico così feroce qui gli alberi non mancano di certo e se ne può respirare l’odore ogni giorno. Ma non è questo l’Eldorado, perché rischiamo nei prossimi anni di essere sempre più isolati, sempre più fragili: lo sappiamo, forse un giorno andremo via ma intanto restiamo pervicacemente.
«Chiedo a ogni cosa il suo silenzio»: è questo un verso – a nostro avviso bellissimo – di Sebastiano Aglieco: non sempre ogni angolo del paese ci parla delle vite che vi sono passate, occorre ascoltare anche questo silenzio, osservare l’abbandono di case e strade: sarà seme buono per un futuro rifiorire dei paesi?
Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Salvina Chetta, vive a Mezzojuso (PA). Si è laureata in Lettere moderne ed è insegnante di Sostegno nella scuola primaria. Ha fatto parte della Compagnia del Teatro del Baglio di Villafrati (PA). Studia fisarmonica e si interessa di musicoterapia. È appassionata di fotografia e ha pubblicato alcuni saggi sull’emigrazione siciliana in Tunisia. Per la rivista “Nuova Busambra” ha curato la rubrica “Nìvura simenza” sulle scritture popolari.
Nicola Grato, laureato in Lettere moderne con una tesi su Lucio Piccolo, insegna presso le scuole medie, ha pubblicato tre libri di versi, Deserto giorno (La Zisa 2009), Inventario per il macellaio (Interno Poesia 2018) e Le cassette di Aznavour (Macabor 2020) oltre ad alcuni saggi sulle biografie popolari (Lasciare una traccia e Raccontare la vita, raccontare la migrazione, in collaborazione con Santo Lombino); sue poesie sono state pubblicate su riviste a stampa e on line e su vari blog quali: “Atelier Poesia”, “Poesia del nostro tempo”, “Poetarum Silva”, “Margutte”, “Compitu re vivi”, “lo specchio”, “Interno Poesia”, “Digressioni”,“larosainpiù”,“Poesia Ultracontemporanea”. Ha svolto il ruolo di drammaturgo per il Teatro del Baglio di Villafrati (PA), scrivendo testi da Bordonaro, D’Arrigo, Giono, Vilardo. Nel 2021 la casa editrice Dammah di Algeri ha tradotto in arabo per la sua collana di poesia la silloge Le cassette di Aznavour.
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