Esistono barriere invisibili in grado di separare individui, classi sociali e culture, rendendo lontane persone solo fisicamente vicine. Esistono stereotipi e clichè che, radicatisi nell’immaginario comune dei cittadini, si trasformano in “verità oggettive”, capaci di orientare schemi di visione e di percezione della realtà. Esistono, infine, mura immaginarie che dividono persone e luoghi della città, costruendo socialmente ciò che è bene e ciò che è male. È dovere del ricercatore – e di tutti coloro che si trovano investiti di una qualche forma di responsabilità sociale – non solo liberarsi di tali pre-concetti, ma anche mettere in luce i meccanismi simbolici ed i dispositivi istituzionali che li reiterano e li alimentano.
Quali sono le risorse che lo scienziato sociale può mobilitare allo scopo di disvelare tali meccanismi? E quali le operazioni che egli può compiere allo scopo di interrompere quella “spirale del silenzio”[1], che finisce con il riproporre le medesime immagini tipizzate e stereotipate della realtà? Si tratta certamente di interrogativi di non facile risoluzione. E, tuttavia, provare a dargli risposta può rappresentare un primo passo verso una rilettura critica di quel processo di segregazione sociale che, specie a partire dagli anni ’70 del Novecento, ha coinvolto alcune frazioni di popolazione [2].
L’impresa di mettere in luce le modalità e i meccanismi con i quali sono state marginalizzate e discriminate le subculture urbane chiama in causa una molteplicità di prospettive analitiche; prospettive che spaziano dal fenomeno della disuguaglianza e della discriminazione a quello della marginalità sociale e dell’esclusione dai diritti della cittadinanza civile. D’altro canto, mentre la discriminazione e la disuguaglianza si collocano nell’ambito di una riflessione che fa riferimento al paradigma produttivo prevalso in Occidente fino agli anni ’70 del Novecento, la marginalità e l’invisibilità sociale rimandano invece ad un orizzonte post-materialista che, accanto ai rapporti di produzione e di ri-produzione economica, mette in luce i presupposti simbolici sui quali fondano e si alimentano le differenze sociali e culturali [3]. L’impresa poi si complica ulteriormente quando ad essere presa ad oggetto di studio è la popolazione urbana di un quartiere come lo Zen di Palermo: vittima allo stesso tempo della deprivazione materiale e della esclusione sociale. È proprio la volontà di tenere unite queste due prospettive – quella materialista da una parte e quella postmaterialista dall’altra – a costituire a nostro avviso il valore aggiunto del lavoro – ormai di qualche anno fa – di Ferdinando Fava [4], dal quale partiremo per avviare una riflessione sintetica e preliminare sui fenomeni di marginalizzazione fisica e simbolica dei gruppi sociali all’interno delle società contemporanee.
Quando si legge il bel libro di Ferdinando Fava il primo elemento che salta all’occhio è il desiderio genuino di raccontare una realtà sociale scomoda e difficile, spesso semplicisticamente nota al grande pubblico solo per mezzo delle comuni rappresentazioni che di essa vengono reiterate. Si tratta certamente di un lavoro coraggioso nel quale le condizioni di degrado e di marginalità sociale del quartiere Zen vengono mostrate al lettore non tanto per mezzo di dati quantitativi, quanto attraverso le dirette testimonianze di coloro che le vivono e le affrontano quotidianamente. Per questa via, tali condizioni sociali se da una parte appaiono il prodotto di rapporti materiali di squilibrio e di disuguaglianza; dall’altra parte possono essere interpretate come l’esito di rappresentazioni sociali che – alimentate dai media, dagli attori istituzionali e, talvolta, dagli stessi operatori sociali – finiscono con il riversarsi nella vita stessa degli abitanti del quartiere.
Queste brevi, ma essenziali premesse ci consentono di mettere in luce quello che, a nostro modo di vedere, rappresenta l’intento conoscitivo che anima il lavoro di Ferdinando Fava. L’intento, cioè, non solo di mettere in evidenza i presupposti materiali – di natura economica, urbanistica e spaziale – che hanno fatto dello Zen il paradigma della periferia e della marginalizzazione [5], ma anche quello di portare alla luce la complessa relazione esistente tra le varie agenzie che producono marginalizzazione e le vittime che la subiscono.
Lo Zen di Palermo – originariamente solo acronimo di un’indicazione geografica (Zona Espansione Nord) – è diventato oggi sinonimo di degrado, di criminalità e di disagio sociale. Il quartiere è stato al centro di numerosi progetti politici e urbanistici, animati – come accade spesso di fronte a simili enclave sociali urbane – dalla preoccupazione di “correggere”, con modalità e finalità talvolta contrastanti tra loro, tali forme di anomalia sociale. Solo poche di queste azioni progettuali sono però riuscite ad individuare le ragioni profonde del complesso processo di ghettizzazione e di marginalizzazione della popolazione residente nel quartiere. Sotto questa luce, secondo la prospettiva di analisi adottata dall’autore, scoprire lo Zen vuol dire “liberarlo” innanzitutto dalle immagini – talvolta stigmatizzanti, talaltra esotizzanti – proposte fino ad oggi. D’altro canto, studiando gli stereotipi reiterati da alcune di queste rappresentazioni sociali, Fava ha ben messo in evidenza come tali categorizzazioni della realtà abbiano finito con l’appiattire l’eterogeneità delle traiettorie di vita presenti nel quartiere e, pertanto, con l’ostacolare l’emergere di una riflessione scientifica più analitica e rigorosa. Alla riproposizione delle medesime immagini tipizzate dello Zen ha fatto da contraltare la cristallizzazione di conoscenze che hanno agito da filtri simbolici necessari al mantenimento di una relazione asimmetrica tra cittadini “degni di raccontare” e cittadini degni, invece, solo di “essere raccontati”. Da qui la scelta dello studioso di adottare uno stile narrativo che mette al centro non più le sole visioni “dominanti” del quartiere, ma «la parola altrui raccolta sul campo» [6]. Il lettore viene così introdotto empaticamente all’interno della vita quotidiana dello Zen attraverso la viva voce di coloro che lo abitano.
Il libro può essere considerato la “storia” delle numerose storie – raccolte da Ferdinando Fava nel corso di ben sette anni di ricerca etnografica – che lasciano intravedere immagini sempre nuove e variegate del quartiere. Si tratta quindi del resoconto di un duplice viaggio; il viaggio che sia l’autore, sia il lettore – attraverso la «riproposizione di voci, dialoghi ed eventi» [7] – sono chiamati a compiere tra i meandri più nascosti e meno indagati dello Zen. È proprio questo percorso a ritroso – che parte non più dal discorso dominante degli eruditi, ma dalle traiettorie biografiche dei residenti – a lasciare scorgere dal di dentro i tratti caratterizzanti della socialità intrinseca agli universi culturali dello Zen.
Quanto appena scritto rappresenta solo una prima riflessione su un tema che richiederebbe un’attenzione di ben altro tipo. Tuttavia, volendo entrare nel merito di alcune considerazioni strettamente personali, riteniamo che il lavoro di Fava rappresenti uno stimolo non solo per gli “addetti ai lavori”, ma anche per tutti coloro che, con modalità e finalità differenti, vogliano intervenire a vario livello nel microcosmo sociale. Nello specifico, ciò che più colpisce del lavoro di cui qui discutiamo è il rigore analitico con il quale l’autore è riuscito a mettere in discussione quel complesso di discorsi, di articoli e di rappresentazioni che – attraverso strategie retoriche seducenti – avevano “raccontato” lo Zen, talvolta come un viaggio nell’aldilà dell’accettabile, alla scoperta dell’inimmaginabile e del minaccioso; talaltra come un ritratto idilliaco di una periferia felice [8]. Lo sforzo conoscitivo compiuto da Ferdinando Fava è di ben altra natura. Conoscere lo Zen vuol dire scomporre questo «racconto olistico di una totalità sociale omogenea» [9].
Non più dunque un approccio olistico, ma un approccio pluralista. Non più un solo Zen, ma tanti Zen. È questa la sfida che, a partire dagli stimoli offerti dal volume dell’antropologo, sono chiamati ad accogliere tutti coloro che, con competenze e professionalità differenti, intendano mettere il mondo in questione [10]
Dialoghi Mediterranei, n. 8, luglio 2014
Note