In letteratura è sempre stato forte il fascino esercitato sui lettori dal mistero, dalla suspense, e tanto più di questi tempi si può dire che i romanzi gialli conoscono un successo straordinario. La maggior parte degli autori crea dei prodotti con lo scopo di intrattenere, di captare l’attenzione del lettore e di tenerlo avvinghiato alla trama, per puro divertimento, come innocua distrazione dalla realtà quotidiana. Qualche altra volta – ci sono stati degli esempi sublimi, come il primo romanzo di Umberto Eco o, ancora prima, quelli di Leonardo Sciascia – chi scrive si serve di un intreccio per descrivere realtà sottostanti, come se ci fossero più trame sovrapposte, e contemporaneamente offre al lettore spunti di riflessione su un particolare momento storico-politico e culturale o sulle dinamiche sociali rappresentati.
Né luna né santi di Santo Lombino (Navarra edizioni, 2021) è un piccolo libro che si presenta come un avvincente giallo rivelando non l’identità degli assassini di un parroco di campagna ma, attraverso tante microstorie quante sono i personaggi, la storia di un paese dell’entroterra siciliano, che può essere letta come una metafora della Sicilia tutta. Siamo nel 1920, la guerra è da poco terminata e in un borgo dal nome immaginario viene ucciso don Innocenzo Misseri, parroco benvoluto e apprezzato dagli abitanti, da quasi tutti gli abitanti. La trama fa riferimento a un fatto realmente accaduto, l’uccisione dell’arciprete Castrenze Ferreri avvenuta a Bolognetta nel maggio del 1920 davanti la sua abitazione, e successivamente del sacrestano Rosario Di Pisa, entrambi testimoni involontari di un delitto di mafia.
Il fatto – ci racconta l’autore, attento studioso di storia locale ‒ non fu per niente un avvenimento isolato in Sicilia negli anni cruciali dal 1919 al 1923 e cita alcuni tra gli omicidi di religiosi, a Ciaculli, Gibellina, Casteldaccia, San Giuseppe Jato, Resuttano, uccisi per essere stati attivi nel contrasto alle cosche mafiose o nella fondazione di cooperative di consumo o forme di credito per i contadini nullatenenti, al fine di contrastare l’usura. Il canonico del duomo di Monreale Gaetano Millunzi, letterato, storico e poeta, che fu tra i fondatori della Cassa Rurale dei Prestiti, dopo avere subìto intimidazioni e atti vandalici fu ucciso nel suo vigneto, molto probabilmente – Lombino fa dire ad un personaggio del libro – per essersi opposto al controllo mafioso della distribuzione dell’acqua.
La forma narrativa è quella di un diario scritto da un giovane ferroviere che mette insieme una serie di indizi, di cui è casualmente testimone o di cui viene a conoscenza, tentando di gettare luce sul misterioso omicidio; ma da subito il lettore intuisce che si tratta di un pretesto funzionale alla descrizione di un mondo, di una intera comunità rurale soggiogata dalla miseria e costretta all’emigrazione, che deve fare i conti su base locale con poteri antichi collusi con strati emergenti e di cui avere paura, e a livello più alto con le decisioni politiche e le promesse disattese di un governo lontano.
Sul fatto criminoso sono più le ipotesi e le versioni riportate che una risoluzione certa. Alcuni paesani hanno sentito le grida della vittima, altri degli spari, qualcun altro ha visto ombre muoversi nell’oscurità a quell’ora e le ultime, confuse parole del religioso morente conducono ad un nome, anzi a due, ma anche su questo vengono avanzati dubbi perché il povero prete non era del tutto in sé.
Chi poteva volere tanto del male a don Innocenzo che, al di là di un carattere piuttosto volitivo ed esuberante, si era sempre prodigato in favore dei suoi fedeli? Per cercare spiegazioni o indizi vengono introdotti numerosi personaggi che confondono ancora più la scena, perché la loro esistenza serve all’autore per fotografare la realtà di un paese dove le strade quasi non conoscono illuminazione, dove se qualcuno viene ferito a morte deve attendere che un medico arrivi dopo ore a dorso di mulo da un paese vicino, dove il lavoro agricolo viene praticato da braccianti con mezzi del tutto primitivi e capita che un’intera famiglia venga ritenuta capace di «spargere di notte il veleno della spagnola per le strade del paese». Non a caso chi osserva e descrive la vicenda è un ferroviere, considerato che l’unico elemento che porta notizie e un po’ di vivacità in questo ambiente stagnante è proprio il treno, sul quale molti paesani saliranno per recarsi a Palermo dove si svolge il processo all’unico imputato per i delitti. E poco importa se dovranno testimoniare in modo lacunoso e fuorviante, ricompensati dall’offerta di un panino, di una gassosa e sigarette offerti dal capo di un gruppo di “mala gente”.
Addentrandosi in questo film ci si avvicina ai veri protagonisti e al tema centrale: la mancata riforma agraria, legittima aspirazione rivendicata da masse di contadini senza terra che avevano combattuto nella terribile guerra di trincea e dove avevano maturato una coscienza collettiva. A loro la terra era stata ufficialmente promessa, anche come risarcimento. Nella Storia della Sicilia, vol III, Francesco Renda riporta la dichiarazione fatta alla Camera dal Presidente del Consiglio Salandra:
«Dopo la fine vittoriosa della guerra, l’Italia darà la terra ai contadini con tutto il necessario perché ogni eroe del fronte, dopo aver valorosamente combattuto in trincea, possa costituirsi una situazione di indipendenza. Sarà questa la ricompensa offerta dalla Patria ai suoi valorosi figli».
Anche se ‒ per lo storico siciliano ‒ «la formula “la terra ai contadini” lanciata per prima dal Partito Socialista e in modo particolare dalla Federazione dei lavoratori della terra, riscosse grandi consensi, anche perché era sufficientemente elastica e imprecisa». Al fine di avvalorare l’intenzione di procedere, a guerra finita, ad una riforma agraria, fu istituita nel 1917 l’Opera Nazionale Combattenti, che divenne il punto di riferimento delle numerose associazioni di combattenti e reduci. Tale blocco sociale – afferma Renda ‒ era «un raggruppamento interclassista politicamente ambiguo ed oscillante» non avendo una visione organica della società, ma come unico programma politico quello di ottenere un riconoscimento per chi aveva combattuto. Sempre secondo Francesco Renda,
«Il movimento contadino del primo dopoguerra fu senza dubbio un grande fatto sociale e politico…che ebbe incidenza di portata durevole ma…l’agitazione del 1919-1921 fu diversa da quella del 1860 e del 1893, perché non fu egemonizzata dalle forze più avanzate della società nazionale».
Proposte di redistribuzione fondiaria furono presentate anche dalla nuova formazione politica del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, fondato nel 1919, che, nel portare avanti temi generali avanzati come il disarmo, il voto alle donne, e importanti riforme in senso democratico dello Stato, aveva al suo interno forze contrastanti; avrebbe dovuto mettere insieme la difesa degli interessi di conservazione agraria con le aspirazioni contadine e popolari. E a questo proposito Renda osserva:
«Naturalmente il prete di Caltagirone non era favorevole al collettivismo agrario propugnato dai socialisti e non era neppure consenziente con la propaganda del ruralismo di guerra, poiché, a suo giudizio, la rottura del latifondo non doveva avere altro fine che l’incremento della piccola e media proprietà».
Nel romanzo di Santo Lombino le rivendicazioni popolari sono rappresentate da un personaggio, il sergente Antonello Mazzara, che ha una precisa coscienza e, in una occasione ufficiale, si rivolge coraggiosamente al Sindaco per chiedere una solidarietà fattiva e non di facciata. É forse l’unico ad accorgersi con preoccupazione che come controffensiva alle richieste popolari sono iniziati omicidi politici di sindacalisti e attivisti da parte dei mafiosi e dei latifondisti, mentre le forze dell’ordine «fanno molti arresti».
In un recente convegno tenutosi nella Arcidiocesi di Monreale sulle lotte sociali e violenze dopo la Prima guerra mondiale sono stati ricordati gli omicidi di parroci coraggiosi, di presidenti di cooperative e attivisti in difesa dei contadini. Tra queste vittime il sindacalista Giovanni Orcel, segretario generale della Fiom, assassinato nel 1920. Fondatore dalla Lega dei Lavoratori si impegnò strenuamente per il miglioramento delle condizioni di vita dei salariati, per il riconoscimento del sindacato e, chiaramente ispirandosi a ciò che avveniva allora in Unione Sovietica, promosse l’unione di operai e contadini in un momento in cui questo faceva paura persino ad una parte dei socialisti, oltreché al resto dell’Italia.
Nella prefazione al libro di Philippe San Marco dal titolo Restituite la terra! I conti e i contadini senza terra, imperniato sulle lotte contro la grande proprietà in particolare nel paese di Villafrati, lo storico Giuseppe Oddo afferma che «i contadini senza terra di Villafrati sono stati in ogni epoca tra i più combattivi dell’Isola» e per dare un’idea della sopraffazione cita alcuni risultati di una delle prime inchieste parlamentari, quella affidata al professor Giovanni Lorenzoni, insigne economista agrario, pubblicata nel 1928:
«Soltanto due latifondi del conte di San Marco occupavano il 54,5% della superficie agricola del territorio comunale. Nel rimanente 46,5% non c’era una sola ara di terra libera dai pesanti canoni enfiteutici (censi) che si pagavano al conte di San Marco. E i censi gravavano inoltre su tutte le case di abitazione. I salari dei braccianti erano tra i più bassi dell’Isola…».
Alla drammatica condizione dei contadini poveri siciliani, quasi tutti ex combattenti, l’Italia liberale, sospinta anche dalla mole di occupazioni di terra in molte regioni, con corrispettivo di scioperi e occupazioni di fabbriche degli operai del nord Italia provò a rimediare con alcuni decreti, il Visocchi (1919), Ministro dell’Agricoltura allora, e i successivi Falcioni e Mauri, che riguardavano la concessione e la successiva assegnazione di terre incolte o mal coltivate alle cooperative contadine. A questo proposito e per comprendere quanto lo stesso decreto Visocchi fosse insufficiente va ricordato che la terra sarebbe andata «in occupazione temporanea» alle associazioni di «contadini che potevano coltivarla», il che voleva dire che avessero i mezzi e gli strumenti; una contraddizione evidenziata con parole semplici e chiare già decenni prima da Sidney Sonnino (I contadini in Sicilia, Firenze 1877, in Il sud nella storia d’Italia, Antologia della questione meridionale a cura di Rosario Villari, Laterza 1961), che pur essendo un liberale conservatore, indirettamente fa capire quanto fosse importante la fondazione di casse rurali, tanto osteggiate dai detentori della proprietà e dalla loro mano armata, che tolse di mezzo chi provava a costituirle.
«Il tarlo roditore della società siciliana è l’usura…il contadino siciliano è quasi costantemente indebitato…l’usura rende impossibile al contadino siciliano ogni risparmio…l’ordinamento feudale durò intiero e rigoglioso fino al 1812, l’abolizione di diritto del sistema feudale non produsse nessuna rivoluzione sociale perché i feudi, all’infuori delle sole terre che erano state regolarmente date in enfiteusi, furono lasciati in libera proprietà agli antichi baroni e il contadino si trovò libero in diritto, senza doveri ma anche senza diritti e quindi ridotto di fatto a maggior schiavitù di prima».
Se uno dei personaggi del libro di Lombino esprime delusione per il fatto che «i noti decreti Visocchi nel 1921 non erano ancora del tutto rispettati», a togliere dalle “teste calde” qualunque idea di riscatto o di rivolta pensò il fascismo che nel 1923 annullò i decreti.
Questo giallo rurale può anche essere una lettura di divertissement ma, secondo il volere o il sentimento del lettore, può essere un conciso romanzo storico nel senso che la tormentata storia politica e sociale di quegli anni e in quel contesto viene fuori in modo chiaro dai dialoghi, dai comportamenti, dai sogni e financo dall’abbigliamento dei personaggi. E l’autore fa bene a farci ricordare quali vicende ha attraversato la maggior parte della popolazione delle campagne siciliane e meridionali.
Dialoghi Mediterranei, n. 52, gennaio 2021
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Eugenia Parodi Giusino, laureata in Filosofia, si è sempre occupata di problematiche sociali, di ingiustizie e soprusi per motivi razziali e differenze culturali. L’analisi dei Paesi “in via di sviluppo” e il razzismo negli Usa è stato l’oggetto della sua tesi. Ha insegnato materie letterarie ad Orano, in Algeria, e ha lavorato come redattore ed editor in diverse case editrici a Milano, Padova, Roma (Feltrinelli, Laterza, Arsenale Cooperativa editrice, Liviana, Piccin). Da qualche anno è presente come editor e autrice di articoli e recensioni nella redazione della rivista Per salvare Palermo della Fondazione omonima e in riviste on line. Vive a Palermo.
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