«La molla che spinge a fondare rivistine e a scrivere su quelle pagine è spregevole: provincialismo, narcisismo, arrivismo, lei non sa chi sono io, lirismo. Ma c’è qualcosa di peggio: il lettore di queste riviste minime: un tizio che, per pietà, amicizia, parentela, mafia, minacce o per ragioni ancor più misteriose e abbiette, si abbona ad una rivista, guardandosi bene dal leggerla».
Quando mi è stato proposto di partecipare a questa discussione sulle riviste portando l’esperienza del Grandevetro, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata la bozza di un intervento sul filo del paradosso che nel 1999 il nostro Alberto Pozzolini preparò titolando “Come evitare di leggere e persino di abbonarsi alla Grandi Riviste che fanno la Storia del Nostro Tempo e vivere felici”.
Un punto di vista così irriverente e provocatorio non può che fare bene, più di un aumento di abbonati. «Credo solo nella satira, anche violenta. Credo nello sguardo irridente, nello sberleffo, nell’ironia, nel sarcasmo, nella critica, nel dispetto, nel ghigno, nella risata liberatoria», dichiarava Pozzolini. Perché in fondo è bene che le rivistine culturali ansimino e boccheggino, senza pubblico; per le grandi esigenze di massa ci sono già la televisione, Instagram, YouTube, Facebook, le partite di calcio. Insomma, per fare una rivistina culturale bisogna essere preparati a rimanere minoranza estrema, come ci ricorda ogni tanto Goffredo Fofi, ridotta da cui tentare con un po’di coraggio qualche sortita e osare il nuovo. Senza questo allenamento, senza lo sguardo irridente si rischia di essere autoreferenziali, quindi miopi, e di fare delle riviste trastulli di pensionati.
Quando ho incontrato Il Grandevetro alla fine del secolo scorso, lo stile, l’aria che mi sedusse fu quella della festa e la leggerezza del fare artistico. Occasione fu una delle grandi feste per il finanziamento. Un giardino delle meraviglie, un centinaio di partecipanti, buon cibo e libagioni, una mostra e l’asta delle opere donate dagli artisti, uno spettacolo. Era facile concludere: Comunisti che sanno vivere bene. Ma il Grandevetro aveva già la sua storia lunga una ventina d’anni.
Quando? Il Grandevetro viene da lontano, dal secolo passato appunto, in particolare da un periodo in cui la parte attiva di una generazione pensava che la rivoluzione sarebbe stata l’indomani, al massimo dopodomani. Questa tensione, poi rivelatasi illusione, si colloca in quel decennio scarso tra il 1968 e il ’77. Diciamo che finisce col sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, quando si sciolgono le ultime ambiguità a proposito della lotta armata. La rivista nasce ufficialmente nel 1977.
Dove? Nel distretto toscano del cuoio, Medio Valdarno. Comune di Santa Croce sull’Arno, che nel dopoguerra aveva visto svilupparsi la sua vocazione industriale grazie alla manodopera che lasciava le campagne circostanti, contadini e mezzadri che si facevano operai e si preparavano a giovarsi dell’ascensore sociale che lo sviluppo del settore prometteva. Promessa mantenuta perché il boom economico e la crescita dei consumi consentì a una quota importante di questi operai ex mezzadri di diventare padroncini mettendosi in proprio.
Avviato il passaggio del Medio Valdarno da prevalentemente agricolo a iperindustrializzato, negli anni ’70 la manodopera arrivava dal sud, poi, negli anni ’90, dai Paesi extracomunitari, albanesi dapprima, in seguito soprattutto africani, senegalesi in particolare. Oggi Santa Croce sull’Arno vanta diversi record: è diventato il principale centro mondiale della produzione di pelli di ogni genere e natura per i Grandi Marchi dell’alta moda; è uno dei comuni più ricchi d’Italia (ovviamente per la regola dei due polli, non tutti i santacrocesi hanno il portafoglio pieno); è anche un esempio positivo di integrazione: gli stranieri (55 nazionalità, più numerosi gli albanesi seguiti dai senegalesi) sono il 24% della popolazione, i nuovi nati sono per il 50% figli di immigrati, Santa Croce è il secondo comune in Italia per la percentuale di bambini non italofoni che frequentano le scuole.
Non è stato un processo indolore. Il settore ha attraversato crisi che avrebbero potuto essere fatali all’industria della concia, ma le ha superate grazie, bisogna dirlo, a una classe dirigente che fino a ieri ha saputo governarlo. L’industria conciaria è fra le più inquinanti e pericolose per l’ambiente e per la salute di lavoratori e abitanti. Il problema dell’inquinamento nel corso degli anni ’70 cominciava a essere oggetto dell’intervento dei primi gruppi ambientalisti che sollecitavano alla consapevolezza: la “ricchezza” raggiunta, spaccandosi la schiena in 12-14 ore di lavoro al giorno, non era assolutamente sufficiente a ripagare gli enormi danni che l’avevano resa possibile. La crisi si manifestò in modo esplosivo. La legge Merli del 1976 per la tutela delle acque aveva dato alla magistratura lo strumento per intervenire nei casi d’inquinamento anche con il blocco della produzione e con il sequestro degli impianti industriali responsabili. Nel luglio 1978 un articolo di Sergio Saviane “Inferno cromo” sull’Espresso fece di S. Croce un caso nazionale, il comune più inquinato d’Italia insieme a Seveso.
Dentro una crisi che rischiava di affossare l’intero settore, quella classe dirigente, che aveva il suo fulcro e i suoi sindaci prevalentemente nel PCI, seppe convincere industriali e artigiani da un lato e sindacati e lavoratori dall’altro, persino una parte consistente di ambientalisti e rivoluzionari, ad accordarsi per rilanciare l’industria della concia e bonificare il territorio, un patto interclassista sul progetto di “produrre senza inquinare”. Uno slogan diventato in buon parte realtà, anche se i danni dell’inquinamento, a causa di una produzione che il capitale vuole far crescere senza limiti, ogni tanto riemergono impietosamente. C’è sempre qualche mariuolo che per ridurre le spese sversa i liquami direttamente in canali e fiumi, come ci sono guasti più o meno prevedibili del sistema di depurazione, è la maledizione originaria della concia.
Ecco, Il Grandevetro è nato da alcuni di quegli illusi che volevano fare la rivoluzione nel crogiolo delle lotte per la difesa dell’ambiente e della salute contro l’inquinamento. La rivista fu espressione e strumento di questa lotta. Il titolo, Il Grandevetro, dice che nel gruppo dei fondatori, certo impegnato nella trasformazione della società, c’era anche un nucleo forte che voleva portare l’attenzione oltre la politica, considerandone i limiti, le rigidità, e vedeva nell’arte il mezzo per affrontarli criticamente, l’arte come strumento di sovversione permanente. Grandevetro, dunque, come l’opera di Marcel Duchamp, omettendo il lungo sottotitolo che conoscerete (1915-1923), fu la proposta vincente di Romano Masoni, artista. Il nostro sottotitolo si è poi assestato in Bimestrale di immagini politica e cultura. Attenzione all’ordine delle parole: culturina in fondo!
A scanso di equivoci devo dire che Il Grandevetro non si è limitato a suonare il piffero per la rivoluzione, nella fase iniziale, come detto, è stato parte attiva del processo di trasformazione, poi ha mantenuto una posizione dialettica, diciamo così, rispetto alle amministrazioni, qualche membro della redazione ha persino fatto l’assessore o ha diretto attività culturali e artistiche per conto del comune (Romano Masoni, per es., ha creato e diretto per qualche anno il Centro attività espressive di Villa Pacchiani). Questo senza far venire mai meno una posizione critica
Insomma, chi cercasse nel Grandevetro militanti allineati all’ortodossia del Partito, non li troverebbe, perché ha prevalso e ha lasciato il segno una vena libertaria e anarchica, quella che Masoni chiamava “un’anima da banditi”. Non per nulla ci chiamiamo Grandevetro. Tuttavia per realizzare un progetto non bastano i banditi, ci vogliono anche gli organizzatori, quelli che hanno capacità di ascolto, di condurre a sintesi i rivoli di una discussione e di realizzare i progetti.
L’anima del gruppo che fondò Il Grandevetro fu Sergio Pannocchia, uno che nella “Polisportiva Primavera” coniugava la politica allo sport, al calcio in particolare, per sedurre i giovani, in gran parte operai ma anche studenti: lo sport era lo strumento primario dell’aggregazione, dopo sarebbero venuti i dibattiti e i campeggi estivi di formazione culturale e politica, tenuti da studenti della Normale di Pisa. Tutte le discussioni finivano in un’agendina tascabile di Sergio Pannocchia, quelle che una volta si usavano essenzialmente per i numeri telefonici. Ma Sergio (lo vedo ancora) con una calligrafia minutissima ci registrava temi da affrontare, titoli di articoli, l’infinita rete dei suoi contatti. Perché non si fa una rivista senza una rete ampia di contatti. Già da queste note si intuisce quanto nella rivista confluissero collaboratori di ambienti molto diversi, dal lavoro nelle concerie all’università, dagli artisti allo sport, non solo l’ARCI-UISP, ma anche giornalisti come Gianni Mura o GP Ormezzano.
Un salto di qualità avvenne all’inizio degli anni ’80 quando, con l’iniziativa del Pestival contro l’inquinamento fisico e mentale, entrò nella rivista Luciano Della Mea che diede avvio all’attività editoriale centrata sull’obiettivo di dare la parola ai senza storia. E I senza storia e I vagabondi si chiamarono le due collane che Il Grandevetro pubblicò in coedizione con Jaca Book. Luciano Della Mea estese a livello nazionale la rete dei contatti. Allora davvero la nostra rivista di provincia, pur restando radicata nel suo territorio, cercò di liberarsi dai vizi e dai vezzi provinciali. Intanto, arrivavano gli stagisti dall’Università e tramite l’ARCI i ragazzi del servizio civile. Per una ventina d’anni abbiamo avuto una sede e una redazione attive quasi tutti i giorni della settimana per la produzione e la distribuzione dei libri, oltre che della rivista. Gente arrivava e si fermava, perché Il Grandevetro era, e si è mantenuto, un gruppo aperto.
Ora tutto questo non c’è più. O quasi. Semplicemente il movimento sociale e politico che aveva generato la rivista non c’è più. Il fiume che ci aveva generato e di cui eravamo parte si è quasi del tutto seccato. Rimangono i mariuoli che magari fanno strada alle mafie per risparmiare sulle spese di smaltimento di liquami e fanghi al cromo.
Dopo la morte di L. Della Mea (2003), e soprattutto di Sergio Pannocchia (2008) alcuni si sono scoraggiati temendo che la rivista non sarebbe sopravvissuta. Invece ci siamo ancora. Grazie soprattutto alla volontà e al mestiere di Marco La Rosa, a un gruppo di nuovi redattori reclutati nel corso degli anni, al passaggio di giovani laureandi dell’Università di Pisa, alcuni dei quali si stanno affezionando all’impresa, dando a noi vecchi l’illusione che ci sia un futuro oltre il trastullo.
Abbiamo raccolto le forze, ci siamo riorganizzati dandoci la cadenza trimestrale, dando maggior spazio alle immagini, facendo tutti numeri monografici con la variazione / contrappunto dell’inserto. Abbiamo potuto proclamarla con orgoglio la più bella rivista d’Italia, non si sa quanto utile e necessaria, come tutte le cose belle. Negli ultimi tre anni abbiamo persino ripreso a stampare libri, pubblicando le opere inedite del nostro genio non provinciale Alberto Pozzolini e una bella antologia su L’altra Firenze che ha avuto ottima accoglienza. Insomma, boccheggiamo ma ci siamo.
E con le note del nostro Pozzolini possiamo concludere: «Ho sempre trovato Il Grandevetro inutile snobistico presuntuoso. Poi mi sono lasciato vincere ma prendendo energiche precauzioni: scriverci ma non leggerlo, correggere le bozze ma non conservarlo, abbonarsi ma dirne tutto il male possibile, a tutti e dovunque».
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
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Giovanni Commare, Siciliano, insegnante e scrittore, vive tra Firenze e la Sicilia. Quando fu poeta pubblicò: L’azione distratta, Cesati, Firenze 1990; La distrazione, opera aperta, Firenze 1998-1999; La distrazione (Immagini – Per un processo d’identificazione), Poetry Wave, Napoli 2004; La lingua batte, Passigli Editori, Firenze 2006 e Il sonetto italiano del Novecento: morte e resurrezione (2006, uscito anche in francese 2004 e in inglese 2022). Per l’editoria scolastica ha collaborato con Edisco Edit. Torino e RCS Sansoni Editore. È l’autore del saggio – inchiesta Presenti e invisibili. Storie e dibattiti degli emigranti di Campobello, Feltrinelli, Milano, 1978, in collaborazione con Chiara Sommavilla. Suoi racconti e articoli sono usciti su varie riviste tra cui Allegoria, Testimonianze, Lo straniero, Gli asini e Il grandevetro di cui è stato presidente ed è redattore.
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