Il mediatore culturale è una figura professionale che ha il compito di rimuovere, attraverso conoscenze acquisite in precedenza, le barriere linguistiche e culturali che si vengono a creare dall’incontro fra due persone provenienti da Paesi diversi. Egli collabora con enti pubblici o privati in tutte le situazioni di difficoltà comunicative o d’incomprensione culturale, nel tentativo di fornire prestazioni d’aiuto in campo sanitario o giuridico amministrativo verso l’utenza immigrata.
«Il pieno riconoscimento della differenza avviene per mezzo del processo di comunanza, al quale si arriva attraverso la mediazione interculturale. Solo il riconoscimento della differenza dà la possibilità, al Paese ospitante, di costruire un percorso comune. Oggi però si parla soprattutto d’invasione e ciò significa non guardare alle diversità, ma concentrarsi sullo schema interno dei propri confini…» (Saita 2015)
Il mediatore che opera nell’ambito socio-sanitario, ha il compito di assistere il medico durante le ore di ambulatorio svolte presso tutti i centri di prima accoglienza della provincia, che si rivolgono all’azienda sanitaria provinciale (ASP) di riferimento. Grazie all’impegno del mediatore, il quale interagisce in maniera diretta con il paziente, il medico ha la possibilità di velocizzare la diagnosi patologica ed essere certo nel frattempo, che la terapia che il paziente dovrà seguire nei giorni successivi, sia recepita correttamente dall’utente e seguita come da prescrizione. Il lavoro di primaria importanza eseguito dal medico, se assistito in maniera efficiente dal mediatore interculturale, porterà al raggiungimento dell’obiettivo comune: la buona condizione di salute del migrante. Non si tratta di una sola traduzione linguistica, quanto di un abbattimento di barriere culturali che possono venirsi a creare fra paziente e medico.
Il mediatore conosce la storia e le tradizioni socio-culturali del Paese di provenienza del malato, lavora per “smussare gli angoli” e cerca di far comprendere il sistema sanitario italiano all’utente straniero. Non c’è un vero e proprio modus operandi che stabilisca le norme dell’attività collaborativa fra medico e mediatore. Fin da subito entrambi instaurano un profondo rapporto reciproco di fiducia, che sarà la base per un corretto svolgimento delle attività di collaborazione future. Altro aspetto curato dal mediatore è quello di creare uno stretto rapporto di stima con il paziente. Il disagio psicofisico che ha accompagnato il migrante fino all’Italia, è una precondizione che un mediatore ha ben chiara nella sua mente. L’ascolto e la comprensione del disagio sono il primo passo per una efficace cura di un’eventuale patologia.
Il mio primo giorno
La mia esperienza lavorativa come mediatore interculturale presso l’Asp 8 di Siracusa, inizia il 3 luglio 2014. La notte precedente non ero riuscito a chiudere occhio, una considerevole dose d’ansia mi aveva tenuto sveglio. L’indomani avrei iniziato il mio nuovo lavoro, il primo in cui avrei messo in pratica gli anni di studio delle lingue straniere. Non avevo capito precisamente quali sarebbero state le mie mansioni o meglio sapevo che il mio ruolo era di agevolare linguisticamente il lavoro del medico che avrei trovato in ambulatorio, ma non avevo esperienza a riguardo e pensavo che la mia preparazione universitaria non fosse sufficiente ad affrontare i bisogni dei pazienti che mi sarei trovato di fronte.
Mi sarei dovuto presentare alle ore nove del mattino presso il centro di prima accoglienza “Scuole Verdi” di Augusta, un vecchio edificio scolastico adibito a struttura d’accoglienza per giovanissimi migranti arrivati sulle coste siracusane senza genitori (MSNA). Non conoscevo il posto quindi in prossimità dello svincolo per Augusta sulla statale 114, ho impostato “Via Dessié” sul navigatore e mi sono fatto guidare, sperando di arrivare a destinazione. Uscito dall’autostrada e arrivato in paese, sono rimasto stupito nel vedere rotatorie, negozi di modeste dimensioni e tantissimi rifornimenti di carburante, ma non il mare. Dov’è il porto dove sbarcano ogni giorno centinaia di migranti e dov’è il mare? Non può esistere un porto senza dell’acqua e da quello che il paese mostrava a un primo superficiale sguardo, non c’era posto per niente che gli somigliasse in mezzo a quel caldo asfissiante. Finalmente, dopo aver superato l’ultima rotatoria, tutto è stato più chiaro: il mare stava proprio lì davanti, ma il porto no. La strada continuava dritta e in pochi minuti mi sono trovato sul ponte che collega la città nuova alla vecchia e che unisce le due isole che compongono il territorio, permettendo ogni giorno a chiunque di raggiungere il centro storico in pochi minuti.
Arrivato nella città vecchia, mi sono reso subito conto della differenza di paesaggio urbano che caratterizza le due isole. In questa parte del ponte, le strade sono più strette, non ci sono rotatorie ma qualche bar e piccole attività commerciali. Senza rendermene conto in poco tempo sono arrivato a destinazione. Sapevo di essere nel posto giusto, perché il giorno prima ero stato avvisato dagli uffici dell’Asp di Siracusa che avrei trovato le auto delle forze dell’ordine parcheggiate al di fuori della struttura. Una camionetta dei carabinieri con tanto di agenti al suo interno, infatti, era parcheggiata sotto l’ombra di un grosso albero, posto di fronte a un edificio fatiscente e grigio, circondato da un modesto giardino e separato dalla strada da una ringhiera di ferro battuto, verniciata di quello che una volta doveva essere un verde intenso e adesso, invece, era intaccata in moltissimi punti dal colore rossastro delle macchie di ruggine.
Ho superato il cancello d’entrata, salito le poche scale che portavano alla porta d’ingresso e sono entrato. Subito davanti mi si è mostrato un operatore del centro, al quale mi sono presentato e ho chiesto se il medico di turno fosse già arrivato. Mi ha risposto che l’ambulatorio era ancora chiuso e che quindi mi conveniva aspettare. Guardando attentamente intorno mi sono reso conto che la scuola sembrava più vecchia di quello che doveva essere realmente: i muri che un tempo dovevano essere bianchi, erano leggermente ingialliti e ricoperti da scritte in lingua inglese, francese e araba. “Dio proteggici”, “Dio salva le nostre vite”. Oltre alle pareti dell’edificio, non erano state risparmiate dalle iscrizioni neanche le porte d’ingresso di quelle che un tempo dovevano essere le classi dell’istituto. I corridoi vuoti mi hanno fatto dedurre, sbagliando, che il centro fosse in sostanza vuoto e, per saperne di più, ho chiesto informazioni a un altro operatore, che nel frattempo avevo incontrato curiosando per l’edificio. Mi ha spiegato che alle nove di mattina quasi tutti i ragazzi ospiti presso la struttura dormono e che non si sarebbe visto nessuno prima delle dieci.
Pochi minuti dopo è arrivato il medico di turno in quel giorno presso il centro: la dottoressa P. S. Anche l’ambulatorio, un tempo doveva essere una piccola aula di una sezione dell’istituto; aveva al suo interno un lettino per le visite, la scrivania del medico e l’armadio contenente i farmaci da poter somministrare ai pazienti. Ho detto alla dottoressa che quello era il mio primo giorno di lavoro e che non avevo idea di come si svolgesse realmente la nostra giornata lavorativa. Lei non si è scomposta per niente, al contrario è sembrata molto felice della mia onestà e senza perdere altro tempo ha iniziato a illustrarmi il suo metodo lavorativo.
I ragazzi ospiti del centro, che si presentano ogni giorno in quest’ambulatorio, mostrano per la maggior parte patologie di non grave entità come: influenza, infezioni alle vie respiratorie o gastrointestinali, piccoli problemi derivanti da dolori muscolari. Nel caso in cui è riscontrata dal medico una patologia di grave entità, lui stesso provvederà alla prescrizione di una visita specialistica o al ricovero immediato in ospedale se necessario. Il mio compito, mi ha spiegato, è quello di estrapolare il maggior numero d’informazioni possibili riguardo ai sintomi della malattia in corso nel piccolo paziente, oltre alla richiesta dei dati personali e il numero di riconoscimento interno al centro, che servono per aggiornare il registro delle visite mediche fornito dall’azienda sanitaria provinciale.
Tutto sembrava chiaro, mancavano solo i pazienti da visitare. A poco a poco il centro si è svegliato, ho sentito il rumore delle prime porte aprirsi e con curiosità mi sono affacciato alla soglia dell’ambulatorio. Un ragazzo molto alto e scuro è uscito da una stanza, si è girato verso di me, ha fatto un cenno con la testa e senza darmi troppa importanza si è diretto verso i bagni comuni, collocati alla fine del corridoio centrale. Pochi minuti dopo si è aperta la seconda porta e sono usciti fuori dei ragazzini, di statura molto più bassa e più chiari di carnagione, li ho sentiti parlare in arabo fra loro, mi hanno guardato e ridendo si sono diretti anche loro verso il bagno. Senza chiedere il permesso a nessuno, ho sbirciato dentro la loro stanza e ho visto dodici brandine disposte a caso all’interno della camera. Sei ragazzini dormivano ancora all’interno, due mi erano appena passati davanti, le altre due brande erano vuote. Sul pavimento c’era un po’ di tutto: mozziconi di sigarette, avanzi di cibo, indumenti sporchi e uno strato di polvere che sembrava aver donato un nuovo colore alle piastrelle del pavimento; insomma tutto quello che si sarebbe potuto trovare in camera mia una decina di anni fa se non avessi avuto il continuo richiamo all’ordine dei miei genitori.
Ormai si stavano svegliando tutti. Sono tornato indietro verso la porta dell’ambulatorio e senza che me ne rendessi conto, mi sono trovato dietro le spalle, il primo paziente della giornata. La prima cosa che ho notato di questo ragazzo, è stata il segno nero e rotondo sulla sua fronte: era un segno particolare, che conoscevo molto bene. Anni prima in Tunisia, mentre passeggiavo con un amico dentro il suq di Tunisi, vidi un vecchio signore con lo stesso marchio sulla fronte, che pregava compiendo il gesto tipico della salat islamica. Incuriosito, chiesi a un venditore di tappeti del perché di quella strana macchia sulla fronte, non sembrava un segno naturale della pelle e avevo avuto l’impressione di vederla già su qualcun altro. Il commerciante mi spiegò che quello era il simbolo che distingue un musulmano devoto dagli altri. Più è grande e nero il segno effigiato sulla fronte, maggiore è la sua devozione verso Dio, perché significa che ha sfregato la fronte al suolo con forza per inchinarsi. Quel ragazzo doveva essere sicuramente un musulmano devoto e mentre chiedevo informazioni sulla sua salute, ho pensato che, qualsiasi patologia avesse, non avrebbe mai ingerito un medicinale, almeno non prima del tramonto del sole. Il Ramadan era iniziato da pochi giorni e un musulmano dedito come lui non avrebbe mai trasgredito.
Ho spiegato la situazione alla dottoressa che nel frattempo aveva iniziato a visitarlo e subito ha adattato la sua terapia alle esigenze culturali del paziente. Essendo un minore, non gli sarebbero state consegnate in mano tutte e cinque le compresse di antibiotico che gli servivano per curarsi ma, ogni giorno, sarebbe stata sua responsabilità chiedere agli operatori del centro le sue medicine. Il primo paziente era andato via, aveva ricevuto le cure di cui aveva bisogno, da lì a pochi giorni si sarebbe sentito certamente meglio; potevo così sedermi e lasciare andare via la tensione che mi accompagnava dalla sera prima. Non ho fatto in tempo ad arrivare alla sedia che hanno iniziato a bussare. Sono andato a vedere e aprendo la porta mi sono reso conto che dietro un ragazzo alto, magro e scuro con i denti sporgenti che aveva appena bussato, si era creata una fila che occupava quasi la metà del corridoio. Non c’era tempo per riposarsi e non c’era tempo per essere ansioso, il battesimo del primo paziente l’avevo appena avuto, adesso non c’erano più scuse: dovevamo darci da fare e aiutare tutti i pazienti in coda.
Verso l’ora di pranzo abbiamo terminato tutte le visite. Stanco ma soddisfatto ho salutato la dottoressa, sono salito in macchina e mi sono diretto verso casa. Per strada ripensavo alle ore di lavoro passate poco prima in ambulatorio. Pensavo di aver fatto un buon servizio, avevo compreso tutte le informazioni fornite dai pazienti e al tempo stesso ero stato molto chiaro nello spiegare ai ragazzi la terapia da seguire. La dottoressa è sembrata molto soddisfatta di me e probabilmente senza il mio aiuto, avrebbe avuto serie difficoltà nel comunicare con loro. Eppure avevo dimenticato qualcosa, o meglio, nonostante avessi lavorato un’intera giornata a contatto diretto con i ragazzi del centro, non ricordavo con precisione nessuno dei loro volti. Quel giorno ero talmente concentrato sulle mie ansie e sulle mie preoccupazioni da dimenticare tutto il resto. Non avevo guardato i loro visi, incrociato gli sguardi, compreso il loro stato d’animo, ma mi ero limitato a tradurre da una lingua straniera alla mia e viceversa tutto quello che mi veniva richiesto. A distanza di mesi però, ho imparato ad ascoltare, con le orecchie e con gli occhi, ho imparato a ricordare i loro volti e le loro storie, perché questo fa un mediatore.
Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Riferimenti bibliografici
Claudio Saita 2015, Minori stranieri in movimento, diritto e mediazione interculturale, Conferenza tenuta a Ragusa, 25 maggio 2015.
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Paolo Grande, laureato in Lingue e Culture Europee ed Extraeuropee presso la Struttura Didattica Speciale di Lingue di Ragusa, lavora come mediatore culturale presso l’ASP 8 di Siracusa dal 2013. Dal 2016 è un mediatore culturale del centro di prima accoglienza “Frasca” sito in Rosolini. Nel 2016 ha collaborato al progetto “RE-Health” fra l’OIM e l’ASP 8 di Siracusa. Nell’ultimo anno ha partecipato in qualità di mediatore culturale al progetto FAMI del CPIA di Ragusa supportando una classe di apprendenti di livello pre A1 presso la città di Pozzallo.
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