di Marcello Carlotti [*]
Clifford (2001) ci ricorda come, con l’istituzione malinowskiana della prassi scientifico-sperimentale dell’osservazione partecipante, si siano non soltanto imposti all’immaginario occidentale i miti del «camaleontismo etnografico» e quello dell’«apprendista turbo», ma anche le retoriche capaci di giustificare tali mitizzazioni: l’antropologo sul campo, infatti, veniva rappresentato non come un individuo qualsiasi, bensì come uno scienziato addestrato, istruito, privo di pregiudizi, relativista, versatile per vocazione e, soprattutto, per formazione e capace, in due annetti di ricerca sul campo, di capire il loro mondo meglio di loro.
Questo narcisismo autorappresentativo (cfr.Rabinow: 1977), ha portato il discorso antropologico occidentale a trascurare la riflessione sulle difficoltà ed i limiti che la nostra pratica comporta. Eppure, prima degli Argonauti del Pacifico Occidentale, nella “generazione dei Codrington” (fine 1800), ci si lamentava che, non due anni, ma neppure due decenni sarebbero stati sufficienti per comprendere efficacemente l’alterità svestendosi della propria pelle, dei propri abiti, dei propri pregiudizi, della propria storia di individuo nato, cresciuto, e desideroso di tornare a realizzarsi e morire nella propria comunità.
Secondo la storia ufficiale della disciplina, questa credenza, o almeno la possibilità di proiettarla all’esterno del ristretto ambito disciplinare, è rimasta a galla fino al 1967, anno in cui la vedova di Malinowski diede alle stampe i diari che Bronislaw aveva tenuto durante il suo doppio soggiorno trobriandese. In questa data, dirà Geertz (1987), non accadde se non che qualcuno lavasse in pubblico i panni sporchi, ammettendo una verità nota a chiunque avesse fatto ricerca sul campo.
Quadro della situazione: oggetti e metodi
Il principale problema per chi si occupa di teoria antropologica è sempre stato quello dell’individuazione dell’oggetto disciplinare (cfr. Bhabha: 2001). Dalla definizione di E. B. Tylor del 1871 ad oggi, i tentativi di definirlo si sono susseguiti in modo frenetico. La questione non va sottovalutata, perché se non è chiaro cosa stiamo cercando, va da sé la difficoltà a stabilire come, dove e quando cercarlo. Dunque, che cosa è la cultura?
Il più citato dei saggi in proposito data 1952, e fu redatto da C. Kluckhohn e A. L. Kroeber (Culture. A critical Review of Concepts and Definitions). Tuttavia, nonostante gli sforzi, del concetto di cultura esistono un’enormità di definizioni, tutte valide e nessuna definitiva. Pragmaticamente si è tentato, ab origine, di definire la cultura in senso diacritico, sostenendo che è cultura tutto ciò che non è natura. A parte il rischio del dualismo ontologico, neppure questa strada pare facilmente battibile, specie se si considerano l’intromissione di un terzo elemento, la mente, e le ultime acquisizioni sulla continuità evoluzionistica del phylum antropiano (cfr. Leroi-Gourhan: 1977) che testimonierebbero dell’innata capacità d’implementare la mente in una relazione dialettica con l’ambiente sociale (le altre menti), simbolico (la rete di simboli prodotta e fruita da una comunità), lo spazio fisico (il dove e quando dell’esserci di un individuo), ecc. Infatti, anche questa definizione sembra presentare un’insormontabile difficoltà, quella di trovare la fine dell’una (la natura) e l’inizio dell’altra (la cultura) e di collocare, fra l’una e l’altra, gli individui con le loro menti, storie e capacità (cfr. Dennet: 1997).
Il punto sembra essere, allora, che quando si parla di cultura, tutti pensiamo di sapere a cosa ci stiamo riferendo, ma nessuno è veramente in grado di trovare un modo inconfutabile di dire cosa sia realmente. Un modo oggi abbastanza accettato per definirla consiste nel ricorrere agli strumenti della semiotica e della teoria dell’informazione (cfr. Lotman: 1992), considerando cultura tutta la memoria e le informazioni trasmesse transgenerazionalmente attraverso simboli che costituiscono il punto di raccordo tra coloro che così costruiscono (ciascuno vincolato dalle proprie filogenesi ed ontogenesi) una propria differenziale competenza fenotipica e, tramite questa, idiosincratici modi di rappresentare e significare il mondo.
Un’impresa senza speranza?
Tuttavia, anche così, l’impresa del ricercatore etno-antropologico è poco meno che disperata, dal momento che tutto può assumere valenza simbolica, ed ogni individuo può, privatamente, creare un codice semiotico e dare un suo senso al suo mondo. Per farsi un’idea della portata di simili difficoltà basterà confrontarsi con i problemi sollevati da Buttitta (1996: 15):
«Il concetto di cultura occupa uno spazio tanto vago da rendere quasi impossibile la delimitazione dei suoi confini. Il significato del termine e dei suoi equivalenti da nazione a nazione, da gruppo a gruppo, da individuo a individuo, e perfino da momento a momento nei comportamenti verbali dello stesso individuo, oscilla in un arco semantico che va dalla indicazione solo di particolarissimi prodotti dell’intelletto, ritenuti qualitativamente pregevoli, alla denotazione dell’intera realtà umana. Ciò finisce naturalmente con il restringere oppure con il dilatare il fenomeno fino al punto di negarlo. È infatti fin troppo ovvio che nel primo caso ciò che può essere cultura per alcuni, per altri non lo è, mentre nel secondo è evidente che un uso totalizzante del termine fino a comprendervi tutto ciò che appartiene all’uomo, porta a identificare la cultura con la vita, l’universo etc. […] Appare, dunque, evidente che un concetto funzionale di cultura deve riferirsi a un fenomeno più concreto e nettamente delimitato».
Un’altra definizione, interessante e programmatica, è quella minimalista proposta da Augé (2000: 37):
«L’antropologia tratta del senso che gli esseri umani in collettività danno alla loro esistenza».
Il senso è qui inteso in relazione ad una concezione estesa degli strumenti semiotici attraverso i quali un individuo, in quanto membro di una comunità, affronta l’esistenza e si esprime, o comprende l’esprimersi altrui, spaziando dal discorso esplicito ed autocritico alla pratica semicosciente implicata nell’interazione sociale (cfr. Sperber: 1984). A ciò si deve aggiungere la considerazione che questo modo di dare e darsi senso non deve intendersi come un sistema chiuso (cfr.Dennet e Hofstadter: 1997). Si tratta infatti di un modo ed un sistema di senso aperto e fluido, storicamente variabile a seguito delle fluttuazioni individuali e dei contatti tra individui, classi, gruppi, comunità, collettività, diaspore ed etnorami (cfr. Appadurai: 2001).
Agli albori della disciplina, tuttavia, queste complicazioni teoretiche non erano state poste, e la concezione di cosa fosse una «cultura» era determinata in rapporto ad un’ubicazione logistica: un campo individuato e delimitato [1], al quale la cultura veniva rapportata ed intesa come uno specifico corpus di conoscenze più o meno algoritmizzate [2], sia nel senso di già codificate, o in via di codificazione, da parte degli osservati, sia nel senso di innervate nei loro comportamenti e pertanto inducibili attraverso questionari prima (si pensi al Notes and Queries preparato ed istituito nel 1849), e ricerca diretta sul campo poi.
Tali concezioni erano legate a quella polarizzazione antitetica i cui estremi erano il paradigma evoluzionista e la concezione di stampo empirista dell’universalità della mente umana. Questa mappa era ulteriormente complicata dall’influsso delle teorizzazioni di Dilthey a proposito di conoscenza e metodi nel campo delle scienze umane e dal successo riscosso, in quest’ambito, dal concetto di empatia e dalla pratica dell’osservazione partecipante.
Il metodo che prese ad imporsi in antropologia è ben delineato dall’Introduzione di Malinowski ad Argonauti del Pacifico occidentale. Uno scienziato sociale che si isoli dai suoi compatrioti per un tempo sufficiente, che pratichi – come la sua formazione gli permette di fare – il relativismo culturale, e che viva tra i selvaggi un tempo sufficiente – ovvero una ventina di mesi – comportandosi come loro, sarà in grado di fornire, grazie all’osservazione partecipante e all’empatia, un quadro sinottico della loro vita, della loro cultura e della loro visione del loro mondo.
Per quanto riguardava gli strumenti, questi erano basati sul suo stesso sentire, e dunque sulla sua capacità di praticare l’empatia e l’immedesimazione, e sulla sua formazione scientifica, che lo avrebbe portato a redarre delle note, scattare delle foto, verificare nella pratica ogni ipotesi, e, ovviamente, fornire le fonti del suo sapere in modo tale da renderlo vero, verificabile e/o falsificabile.
L’osservazione partecipante
Nel 1937, E. E. Evans-Pritchard sosteneva tranquillamente: «Non mi è stato difficile scoprire quello che gli Azande pensano della stregoneria […] si tratta soltanto di osservare e ascoltare». [3] Secondo la definizione datane dal Dizionario di Antropologia curato da U. Fabietti e F. Remotti, l’osservazione partecipante è una
«Tecnica di ricerca antropologica inaugurata ufficialmente da Malinowski (1922), fondata sulla presunta neutralità dell’osservatore partecipante. Implica l’immersione nelle attività quotidiane della comunità da studiare, attraverso prolungati periodi di lavoro sul campo e la padronanza della lingua […] Fondata sul concetto di empatia, mira a minimizzare il problema della reattività e l’effetto distorcente della partecipazione dell’antropologo, dissolvendo la presenza dell’osservatore fra gli osservati». [4]
Secondo la Encyclopedia of Social and Cultural Anthropology, può essere definita come:
«Term used for the most basic technique of anthropological fieldwork, participation in everyday activities, working in the native language and observing events in their everyday context».[5]
Non c’è dubbio che questo tipo di pratica abbia costituito un significativo passo avanti rispetto all’antropologia da tavolino; pur tuttavia l’atto simbolico del «piazzare la tenda» di fianco alla capanna del capo non poteva essere in modo alcuno considerato un analogo del microscopio e del vetrino dello scienziato. Vedere il loro mondo, partecipare alle loro attività, osservarli, ascoltarli e dialogare con loro (in prima persona, ma, più spesso, attraverso un interprete), non significa essere uno di loro, sentirsi come loro, per il semplice fatto che l’esperienza del sentirsi uno di loro non è un fatto prettamente intellettuale, quanto, piuttosto, uno stato emotivo, e che il mero fatto di essere e/o sentirsi uno di loro, non significa di per sé essere un antropologo – come ci ricordano De Martino (2002) e Geertz (1987, 1988).
Tornando ai fondamenti dell’osservazione partecipante, un posto di rilievo spetta a Dilthey, il quale aveva individuato, tra «scienze della Natura» e «scienze dello Spirito», una differenza di oggetto le cui ripercussioni a livello metodologico ed epistemologico risultavano fondamentali. Dilthey si concentrava sul problema del rapporto tra oggetto e soggetto della conoscenza affermando che tale rapporto, esterno nel caso delle scienze naturali, non poteva che essere interno in quello delle scienze umane, giacché nelle prime soggetto ed oggetto della conoscenza appartengono a classi differenti, mentre nelle seconde fanno capo alla stessa classe: l’umanità.
La differenza di rapporto escludeva, per principio, la possibilità di impiegare i metodi delle scienze naturali nelle scienze umane, e proponeva la pratica dell’esperienza di vissuto, «il ritrovamento dell’io nel tu», come metodo proprio ed autonomo delle scienze dello spirito. Il punto fondamentale della sua riflessione consisteva, quindi, nell’evidenziare come, a differenza della relazione esterna oggetto-soggetto delle scienze naturali (che vincolava la propria conoscenza e pratica discorsiva alla pura osservazione fenomenologica e alla descrizione oggettiva), la relazione interna soggettoX-soggettoA permetteva un tipo di conoscenza ed una prassi discorsiva che, partendo dalla descrizione fenomenologica, poteva valicare i limiti del percetto esterno e, spingendosi oltre la comprensione, approdare alla dialettica e, in certo modo, a conoscere i contenuti della mente di un altro attraverso i contenuti della propria mente.
Questo ragionamento poneva al centro della riflessione il meccanismo dell’empatia, o immedesimazione, la capacità cioè di un soggetto di essere al contempo sé stesso e un altro, reperendo nel proprio vissuto delle chiavi per accedere al vissuto altrui.
Problemi epistemologici della empatia
Questa teoria, tuttavia, nascondeva delle intrinseche difficoltà concettuali. Oltre alle irrisolte questioni filosofiche dell’accesso diretto e dell’infallibilità, fra tutte spiccava la questione dell’identificazione del sé nell’alterità. Quello che doveva essere uno strumento a disposizione della comprensione divenne, nella pratica, una vaga illusione di identificabilità ontica (essere uno di loro), il cui reale risultato scientifico ha aumentato i problemi piuttosto che fondare un raffinamento effettivo della comprensione prima e della narrazione poi.
La validità di tale pratica è venuta meno quando l’ermeneutica, la teoria della traduzione, le scienze cognitive, la filosofia della mente e in parte la stessa antropologia, nonché le varie critiche (culturali, postmoderne, postcoloniali, subalterne, ecc.) hanno dimostrato che l’immedesimazione totale presupposta dall’empatia diltheyana è inattuabile nella pratica. Come accade quando si riscopre l’acqua calda, è emerso infatti non solo che non si può mai essere-uno-di-loro – dove anche quello di «loro» diviene un concetto di dubbia verifica estensionale – ma che non si può neppure essere un altro, essendo ciascuno condannato ad essere sempre e solo sé stesso.
Quanto detto non deve intendersi come uno svilimento dell’osservazione partecipante – o, come viene ridefinita ultimamente, esperienza intenzionale di esperienza, partecipazione osservata, perduzione, serendipità ecc. Semplicemente, è da intendersi come un monito circa i limiti oggettivi e soggettivi della conoscenza in generale e di quella etno-antropologica in particolare. Di fatto, l’osservazione partecipante sintetizza due pratiche e processi cognitivi rapportabili, fra loro, in ordine gerarchico variabile: osservare e partecipare. Il punto chiave della questione consiste nello sforzarsi di chiarirne i complementatori: cosa si osserva realmente e a-cosa si prende parte realmente?
Lo sguardo del ricercatore, al proiettarsi «fuori della tenda», incontra altri sguardi, il suo orecchio s’inserisce in flussi discorsivi multipli e stratificati. Ora, se è vero che molti di quegli sguardi, atti e discorsi possono prescindere dalla sua presenza, non bisogna ignorare che buona parte sono indotti proprio dalla sua presenza, in quanto egli e le sue pratiche sono fatti oggetto di discorso.
Punto di vista nativo e relativismo culturale
Ma basta davvero il mero partecipare alla loro vita per denudarsi del proprio punto di vista e cogliere il loro, la loro posizione davanti alla vita e comprendere la loro visione del loro mondo? E tutti i nativi hanno un medesimo punto di vista collettivo?
Ad un attento esame, l’ambizione metodologica si è rivelata col tempo per quello che era: un’ambizione che poggiava su un’immagine metaforica con cui, fino a quel momento, si era tentato di nobilitare la possibilità operativa della pratica antropologica. Ma una volta che quell’immagine è stata sottoposta ad un attento vaglio epistemico, è parso evidente che i suoi denotatum e connotatum (il denudamento relativista e il rivestimento empatico), essendo stati spinti troppo oltre – fino a reificare più di quel che avrebbero potuto – contribuivano ad occultare una strana fallacia concettuale.
Si attribuiva infatti all’etnografo una singolare plasticità emotiva e gnoseologica in virtù della quale, dopo essersi sfilato la pelle dei propri pregiudizi e gli abiti delle proprie categorie, assumendo ad interim i panni altrui, era ritenuto capace di tornare carsicamente uno scienziato in grado di consegnare a terzi l’oggettività di quanto, con quei loro-panni, era giunto a provare, capire e comprendere-in-sé. L’avvento del paradigma ermeneutico, oltre ad obbligarci a chiederci se sia davvero possibile praticare un simile denudamento, ha spinto molti antropologi ad interrogarsi su una questione: fino a che punto tutto questo vestirsi, denudarsi, rivestirsi ecc. può ritenersi utile?
È proprio su questi aspetti, infatti, che le pagine dei Diary imponevano, a quanti avessero voluto rifletterci prendendo l’intera questione sul serio, il logico sbocco di dover ripensare l’oggetto di studio, e le strategie conoscitive e analitiche con cui, cercando di approssimarsi ad esso, era possibile provare ad approcciarlo. Infatti, se parlare d’immedesimazione per poter conoscere il loro mondo dal loro punto di vista – ammesso, e non concesso, che esso sia uno – perdeva di legittimità epistemica; se parlare dell’«esistenza» del punto di vista nativo si era fatto quantomeno rischioso, allora verso cosa e in che modo, l’etnografo, avrebbe dovuto tendere la propria indagine?
Luoghi semiotici
Uno dei modi per provare a sciogliere i principali nodi dell’intera questione è suggerito da Geertz [6], quando segnala come, nelle scienze sociali, si sia realizzata una pericolosa fusione nella semantica del termine “pensiero”. Il termine pensiero, infatti, può essere inteso, di volta in volta, sia come «processo», sia come «prodotto». In breve, quando si parla di punto di vista nativo, cosa cerca l’antropologo? L’accesso al loro pensiero come processo (con conseguente ricerca di mezzi per algoritmizzare questo tipo di eventi), oppure quello ai prodotti sociali del loro pensiero?
Dal momento che le oscillazioni tra un senso e l’altro del termine «pensiero» non sono innocue, e che, specialmente dentro il campo della pratica etnoantropologica, si comincia troppo spesso ad indagare gli uni e si finisce quasi sempre per scivolare nell’altro (i vari strutturalismi e prelogismi ne sono una prova), bisogna fare costante chiarezza.
Se si cerca l’accesso ai processi di pensiero nativo – ma anche di un qualsiasi individuo – quest’accesso è onticamente interdetto a chiunque, poiché di un qualunque individuo si può, al limite, constatare l’attività dei suoi tessuti neurali (sia con un EEC o una PET), e di lì inferire l’attività neurofisiologica soggiacente alla performazione dei processi di pensiero. Se, invece, si cerca l’accesso ai prodotti sociali che i processi di pensiero di più individui esteriorizzano nei simboli – ovvero, se ci si riferisce ai prodotti sociali del pensare – allora l’immedesimazione non rappresenta più il metodo per accedere alla comprensione dei modi mediante i quali l’alterità semiotizza il mondo e l’esperienza.
Insomma, il luogo suggerito da Geertz e Buttita non è più dentro la loro testa, ma sopra e/o dietro le loro spalle. Si tratta infatti di un luogo semiotico, e il cammino d’approssimazione è, principalmente, quello dell’analisi semiotica dei prodotti sociali del loro pensiero. Ciò implica di delimitare la ricerca sul campo entro nuovi e più funzionali confini:
«[…] questo problema generale ha provocato discussioni metodologiche in antropologia per almeno dieci o quindici anni […] forse il modo più semplice e diretto per porre il problema è nei termini di una distinzione formulata, per altri fini, dallo psicoanalista Heinz Kohut, tra ciò che definisce concetti “vicini all’esperienza” e concetti “lontani dall’esperienza”. Un concetto vicino all’esperienza è, sommariamente, un concetto che chiunque […] può utilizzare naturalmente e senza sforzo per definire ciò che lui e i suoi colleghi vedono, pensano, immaginano e così via, e che comprenderebbe prontamente quando utilizzato da altri. […] Chiaramente è una questione di gradi […]. E la differenza, almeno per quanto riguarda l’antropologia […], non è di tipo normativo, nel senso che un concetto debba essere preferito ad un altro. Il limitarsi a concetti vicini all’esperienza lascia l’etnografo immerso nelle immediatezze, e intrappolato nel linguaggio comune. Il limitarsi a concetti distanti dall’esperienza lo lascia arenato in astrazioni e soffocato dal gergo. Il vero problema, e quello che è messo in luce da Malinowski dimostrando che nel caso dei nativi non occorre essere uno di loro per conoscerli, è che tipo di ruoli giocano i due tipi di concetti nell’analisi antropologica. O, più esattamente, come […] bisogna utilizzarli per ottenere un’interpretazione di come vive una popolazione che non sia imprigionata né nei suoi orizzonti mentali, un’etnografia della stregoneria scritta da una strega, né sistematicamente sorda alle tonalità peculiari della sua vita, un’etnografia della stregoneria scritta da un geometra». [7]
Il primo passo di una simile analisi consiste nel tentativo di individuare il detto del flusso del discorso sociale. Il secondo, nel riconoscere e distinguere i concetti vicini e lontani dalla loro esperienza, ovvero ciò che il membro di un gruppo dice in quanto rappresentante di quel gruppo, da ciò che dice l’etnografo in quanto etnografo che entra in contatto con quelle persone. L’impresa etnografica non può né deve prescindere da nessuna di queste prospettive discorsive e riflessive.
«Ponendo il problema in questi termini – nei termini di come bisogna fare l’analisi antropologica e come inquadrare i suoi risultati, piuttosto che nei termini della costituzione psichica che gli antropologi devono avere – si riduce il mistero di quello che significa “vedere le cose dal punto di vista dei nativi”. Ciò, comunque, non rende la cosa più facile, né diminuisce il bisogno di essere percettivo da parte dello studioso sul campo. Cogliere concetti che, per altre popolazioni, sono vicini all’esperienza, e farlo sufficientemente bene da collocarli in connessioni illuminanti con i concetti distanti dall’esperienza che i teorici hanno costruito per cogliere le caratteristiche generali della vita sociale, è un compito per lo meno delicato, anche se un po’ meno magico del mettersi nella pelle di un altro. Il trucco sta nel non entrare in sintonia di spirito troppo stretta con il proprio informatore […] Il trucco sta nel capire che cosa loro pensano di stare facendo. Da un certo punto di vista, ovviamente, nessuno lo sa meglio di loro; da qui deriva la passione per lasciarsi trascinare dal flusso della loro esperienza, e l’illusione successiva di esserci in qualche modo riusciti. Ma […] questo semplice truismo è semplicemente non vero. Le persone usano concetti vicini all’esperienza in modo spontaneo, inconsapevole, in modo colloquiale. Esse non riconoscono, tranne che occasionalmente e superficialmente, che vi sono implicati dei «concetti»: questo è ciò che significa vicino all’esperienza – che le idee e le realtà che esse informano sono indissolubilmente e naturalmente legate insieme […] L’etnografo non percepisce – e secondo me in buona misura non può percepire – quello che percepiscono i suoi informatori. Ciò che egli percepisce […] è ciò che essi percepiscono con – o per mezzo di o attraverso». [8]
Possiamo e dobbiamo ricapitolare la questione con altri due passaggi di Geertz: uno che attiene alla posizione della disciplina etno-antropologica in seno alle Scienze Sociali ed al suo approccio conoscitivo, e l’altro che apre una problematica filosofica – collegata e conseguente alla posizione della disciplina – su cosa apprendono gli antropologi quando lavorano sul campo.
«Passare dal tentativo di spiegare i fenomeni sociali intessendoli in grandi trame di cause e di effetti al tentativo di spiegarli collocandoli in forme locali di conoscenza, significa scambiare una serie di difficoltà ben definite con altre largamente imprevedibili. Imparzialità, generalità e fondamenti empirici sono contrassegni caratteristici di qualsiasi scienza degna di questo nome, come lo è la logica. Chi sposa l’approccio determinista ricerca queste virtù nascoste operando una distinzione radicale tra descrizione e valutazione, limitandosi poi alla parte descrittiva, ma chi sposa quello ermeneutico, negando la radicalità delle distinzioni o trovandosi in mezzo ad esse, viene bloccato da una strategia così forte». [9]
«Descrivendo gli usi dei simboli diamo una descrizione delle percezioni, dei sentimenti, delle apparenze, delle esperienze. E in che senso? Che cosa sosteniamo quando affermiamo di comprendere i mezzi semiotici attraverso i quali, in questo caso, le persone si definiscono reciprocamente? Che conosciamo le parole o che conosciamo le menti?».[10]
Oggi, dunque, siamo più propensi a credere che il «punto di vista» di un qualunque soggetto sia privato, idiosincratico e storico, legato com’è al modo in cui ciascuno, confinato nelle contingenze del presente, sta continuamente in bilico tra passato e futuro. Inteso così, allora, il punto di vista è solo in quanto presentificato da un soggetto che lo esperisce nel suo essere e sentire particolari. In questo senso, infatti, neppure uno stesso individuo ha accesso diretto e immediato ai suoi «punti di vista» passati o futuri, se non sussumendoli e approssimandoli, indirettamente e mediatamente, in base alla peculiare ottica del suo «punto di vista» presente. Anche quando penso al passato (o al futuro), quando cerco cioè di provare o sentire quello che, vivendo, ho provato o sentito (o quello che proverò o sentirò), lo faccio sempre partendo da un «punto di vista» presente, ovvero da quel «punto di vista» esperenziale che ho nel concreto momento in cui sto pensando e sentendo.
In quest’ottica, se la ricerca del «punto di vista» di qualcun altro è una chimera che soltanto le «spie e i romantici» possono trovare plausibile perseguire, ancor più chimerico ed implausibile risulta la pretesa di perseguire il «punto di vista» che accomuna tutti i membri di una cultura. Semplicemente, non esiste (non nel senso ristretto e specifico della pipistrellità di Nagel, della nuerità di Evans-Pritchard, ecc.) qualcosa che possa essere considerato il «punto di vista» comune o pubblico, in quanto il «punto di vista» non è, né può essere, unico, e/o generico, e/o medesimo per tutti. Ergo, parlare di «punto di vista dei nativi» significa, nel migliore dei casi, ricorrere ad una licenza poetica. In termini epistemologicamente appropriati, sarebbe infatti più corretto parlare di «punti di vista» differenziali soggettivamente presentificati ed onticamente non intercambiabili. Tuttavia, essendo l’impresa di raccogliere e documentare il differente «punto di vista» di ogni soggetto, tanto ingenua quanto superiore alla portata di qualsiasi studioso, molto meno ingenua appare la proposta di ricercare un buon «punto di osservazione» di quelli che sono i mezzi semiotici e storico-sociali cui, idiosincraticamente, ricorrono i membri di un gruppo quando, ciascuno di loro privatamente, performano il proprio differenziale «punto di vista».
Osservazione partecipante in epoca postcoloniale
È significativo, ora, rimarcare come il metodo dell’osservazione partecipante, impostosi all’interno di un paradigma evoluzionista e comportamentista, sia stato fortemente ridimensionato dalla metà del XX secolo, in concomitanza con la fine dell’epopea coloniale moderna, ovvero quando le voci degli altri hanno cominciato a levare il proprio dissenso.
Da quel momento, diventa necessario cominciare a pensare che l’etnografia non possa porsi l’obiettivo di fornire una descrizione forte. Se è il «senso degli altri» ciò che interessa l’antropologia, allora esso, lasciato libero d’esercitarsi, non può più essere chiuso entro gabbie concettuali (strutture, leggi, determinismo, ecc.) che, nel tentativo di contenerlo, finiscono per estrometterlo.
Quel che oggi appare chiaro è che nel 1967 venne ufficializzato qualcosa che lo stesso Malinowski sapeva fin dall’inizio e che, più o meno coevamente a lui, era stato rilevato e rivelato almeno da Bateson e Leiris. Nel 1967, insomma, fu reso nuovamente evidente che neppure mentre si pratica l’antropologia, nemmeno per quelli che sono considerati i migliori scienziati di quella disciplina, è possibile svestirsi dei propri pregiudizi, del proprio esser uomini storicamente irripetibili e connotati (relativismo culturale), soprattutto poi se, in certo modo, si deve necessariamente rimanere, almeno in parte, sé stessi.
All’ermeneutica e all’empatia diltheiana, cominciarono ad essere contestati e rilevati problemi e limiti simili a quelli che Gadamer, portando oltre il programma fenomenologico ed ermeneutico ereditato da Heidegger, e rivalutando il ruolo cognitivo svolto dal pregiudizio aperto (o iniziale), contestava da qualche decennio all’abuso di quel medesimo concetto (ed alla sua applicazione ed applicabilità) nel campo della comprensione storica.
Se per gli epistemologi della ragione storica era da tempo caduto il mito della possibilità di un «relativismo storico assoluto», per gli antropologi, che cominciarono ad interrogarsi pubblicamente sui limiti oggettivi e le possibilità cognitive della loro disciplina, era iniziata l’assunzione di responsabilità determinata dal cedimento di molti dei presupposti ideologici e politici che il «relativismo culturale assoluto» nascondeva sotto il suo ombrello – non ultimo un malcelato evoluzionismo etnocentrico.
Il sapere era ritenuto sempre più il prodotto storico di una pratica interpretativa orientata e limitata, e sempre meno la risultante neutra ed oggettiva di una pratica assoluta e disincarnata: l’attività cognitiva umana era, insomma, sempre più distante dal mito dell’intelligenza laplaciana, e il produrre conoscenza, di qualunque genere, era ormai ritenuto un forma di presa di posizione che suscitava effetti e rivendicava una piena assunzione di responsabilità.
Dal 1967, s’imposero, in tutta la loro evidenza, i limiti ontici ed epistemici cui ogni interpretazione è costretta, specie se interpretazione dell’alterità culturale e dell’alterità autoermeneutica. Ovviamente, questo fermento interno alla disciplina non è autonomo e indipendente, ma s’inscrive, ricavandone un fondamentale sostegno, nel più generale quadro storico in cui furono attivi movimenti e sistemi di pensiero e azione tali come la decolonizzazione, l’abolizionismo anti-segregazionismo, i movimenti culturali per i diritti dell’uomo, delle minoranze e delle classi marginali, ecc. del secondo dopoguerra occidentale, e, via via, la contestazione studentesca antireazionaria, le conquiste dei movimenti umanitari e pacifisti degli anni Sessanta, una più piena interpretazione internazionale del diritto all’autodeterminazione dei popoli, il movimento dei diritti delle donne, l’identitarismo, il multiculturalismo, ecc.
Potrebbe essere interessante istituire, ad esempio, un raffronto per cercare di stabilire quanto, a seguito della pubblicazione del Diary, siano cambiate non l’antropologia culturale anglo-americana e quella francese, ma quanto, piuttosto, siano cambiate quella italiana o quella tedesca. Ad esempio, il 1967 ha marcato in modo altrettanto rumoroso gli sviluppi metodologici, pratici ed epistemici dell’antropologia italiana, oppure questa, influenzata dallo storicismo tedesco e dal marxismo-gramscismo, aveva già trovato e lavato nel suo campo critico ed operativo, grazie a concetti quali, ad esempio, l’etnocentrismo critico demartiniano, o all’attenzione agli aspetti demologici, molti dei panni sporchi che il Diary stese, per la prima volta, dinnanzi al più vasto pubblico anglofono? In che modo quella pubblicazione ha impattato l’antropologia francese? E perché mai, poi, i francesi avrebbero dovuto aspettare la pubblicazione dei diari di Malinowski quando, nel 1934, M. Leiris aveva pubblicato il suo sulla spedizione Dakar-Gibuti?
Probabilmente, nel 1967 erano ormai maturati i tempi affinché l’antropologia (inscritta in, e partecipe di un sistema-mondo in via di rapido rinnovamento e sempre più cosciente della sua frammentarietà) avesse più agio a liberarsi dal giogo positivista-scientista e, accasandosi come prassi ermeneutica, potesse accettare di procedere ad un riconoscimento, tanto più necessario quanto più sereno, dei propri limiti intrinseci e della possibilità di dare vita ad una rivoluzione paradigmatica.
Soprattutto, accadde che si dovette cominciare ad ammettere che un certo tipo di testualizzazione era non solo anacronistica, inadeguata ed impropria, ma addirittura pretenziosa, sedicente e tendenziosa. È da intendersi, allora, che l’impatto dei Diari di Malinowski fu importante più sui gusti del pubblico, più per limitare le propensioni autoapologetiche o mitizzanti degli studenti nei confronti dei padri fondatori della disciplina, che non per quanti lavoravano sul campo.
I Diari, dunque, non furono causa della svolta paradigmatica, ma potrebbero al limite essere considerati l’emblema di una rivoluzione e di un ripensamento con radici teoriche, pratiche, politiche, sociali, economiche, ecc. molto più solide e ramificate. I frutti erano (e sono) maturi e, a mio modo di intendere, solo un’antropologia anche interpretativa (poggiando saldamente i piedi sul campo, e spalleggiandosi con l’ermeneutica, la semiotica, la critica letteraria, la filosofia analitica e della mente, la fenomenologia, la psicologia, l’epistemologia della conoscenza, ecc.) rappresenta l’unico, fra i vari approcci teorico-metodologici, ad essersi presentato pronto all’appuntamento col mondo nuovo.
Di fatto, quest’approccio ci consente di affrontare con più serenità il paradosso sottopostoci da Geertz, senza rischiare nessun impazzimento:
«Se, come io penso, dobbiamo rimanere fedeli all’ingiunzione di vedere le cose dal punto di vista dei nativi, come la mettiamo quando non possiamo più sostenere di avere un’unica forma di vicinanza psicologica, di identificazione transculturale con i nostri soggetti? Cosa accade al verstehen quando l’einfühlen scompare?». [11]
Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
[*] In memoria di Antonino Buttitta
Note
[1] Prima dell’affermazione della ricerca diretta sul campo, questo era individuato a tavolino dal ricercatore su una cartina.
[2] Il concetto è preso da Il sapere della mano; G. Angioni; Sellerio; 1986; Palermo.
[3] In traduzione italiana: Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande; E. E. Evans-Pritchard; Franco Angeli; 1976; Milano: 57.
[4] Dizionario di Antropologia; U. Fabietti, F. Remotti (a cura di); Zanichelli; 1997; Bologna: 544.
[5] Encyclopedia of Social and CulturalAnthropology; edited by A. Barnard and J. Spencer; Routledge; 1996; London: 616.
[6] Il modo in cui pensiamo: verso un’etnografia del pensiero moderno, raccolto in Geertz (1988: 187-208).
[7] Antropologia interpretativa; C. Geertz; il Mulino; 1988; Bologna: 72-73.
[8] Ibidem: 74.
[9] Ibidem: 8.
[10] Ibidem: 88.
[11] Antropologia interpretativa; C. Geertz; il Mulino; 1988; Bologna: 72.
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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.
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