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Donne e lotte sindacali in ambito minerario europeo

         

Miniere di Montevecchio, cernitrici (da Agoravox)

Miniere di Montevecchio, cernitrici (da Agoravox)

di Sonia Salsi

A partire dagli anni cinquanta sino agli anni ottanta del Novecento in Europa apparvero sulla scena industriale mineraria grandi movimenti di lotte composti da uomini e donne implicati in numerosi scioperi. Ciò diede un forte significato sociale e culturale alle organizzazioni operaie. Lottare insieme significava per gli uomini e le donne fortificare reciproci rapporti di collaborazione e di rivendicazioni. Numerosi ricercatori Leen Roels, Lilith Verdini, Eleonora Todda, Barbara Solari, Jean Spence e Carol Stephenson, hanno portato alla luce testimonianze di donne che nei contesti carboniferi svolsero una funzione fondamentale per la mobilitazione di campagne di sensibilizzazione e solidarietà. La componente femminile, infatti, tenne conferenze in molte città europee tese a ottenere consensi riguardo il miglioramento delle condizioni di lavoro e di salario degli operai nelle miniere.

Il lavoro nelle miniere era prevalentemente rivolto agli operai maschi, meno conosciute furono le donne coinvolte nelle attività nelle e attorno le miniere. La loro presenza nei bacini minerari in Europa fu notevole e, nonostante le loro mansioni non fossero ritenute importanti, esse apportarono notevoli guadagni alle Società minerarie. Numerose donne furono attirate dal lavoro in miniera per la mancanza di altre fonti di sussistenza nei Paesi industrializzati europei. Possiamo dire che senza il loro contributo sicuramente le industrie carbonifere non si sarebbero espanse nella medesima misura. E tuttavia le minatrici, già a partire dalla fine dell’Ottocento sino agli anni settanta del Novecento, furono vittime di gravi pregiudizi di ordine morale (Jane Humphries). Erano giudicate ambigue per il fatto di indossare vesti maschili pur di lavorare in miniera. Specialmente in epoca vittoriana, alla donna, si sa, si attribuiva l’immagine di angelo del focolare, il cui compito non era altro che essere moglie e madre, legata per natura alla vita domestica e all’accudimento dei figli.

donne-e-bambine-nella-miniera-di-montevecchio-di-iride-peis-concasIn Italia, studiose come Sabrina Sabiu, Iride Peis Concas si sono occupate di donne che vissero sulla propria pelle le difficili condizioni di lavoro all’interno delle aree carbonifere in Sardegna. In Belgio, le ricercatrici Leen Roels e Susy Pasleau hanno offerto elaborate descrizioni della vita e del lavoro di donne e bambine presso le miniere di Seraing, Liegi. In Inghilterra sono uscite rilevanti pubblicazioni nate da ricerche precedentemente effettuate nei distretti minerari dello Yorkshire e del West Lancashire.  Patricia Hilden ha documentato, ad esempio, la vita di donne e bambine in miniera. In Germania, Christina Vanja ha fornito, grazie alle sue indagini, importanti informazioni sul mondo femminile presso il Ruhrgebiet.

Verso la fine degli anni quaranta del Novecento appare una nuova tipologia di donna sulla scena mineraria: la componente femminile assunse un ruolo attivo nell’arena pubblica delle lotte operaie. Le donne non solo scesero in piazza, ma fecero opere di sensibilizzazione, tennero riunioni per convincere altre donne a collaborare, a far sentire la loro voce. Il sostegno attivo alle lotte minerarie comportò numerosi arresti, percosse, diffide e denunce penali. I casi delle lotte sindacali delle donne nei diversi territori mirano a individuare e valorizzare le specificità dei diversi contesti presi in considerazione nel quadro di una esperienza di contaminazione tra lotta di classe e mobilitazione femminista che, seppure con modalità diverse, di fatto si realizzò nelle diverse nazioni prese in esame.

Ho tentato nel mio scritto di circoscrivere il campo di indagine, ricercando una certa ‘omogeneità ambientale’ e quindi orientandomi sui maggiori centri produttivi minerari dei quattro Paesi presi in considerazione: Inghilterra (Nottinghamshire), Francia (Le Nord-Pas du Calais, La loire), Belgio (Limburgo) e infine Italia (la miniera di Ribolla, in Toscana e le zone minerarie sarde, Carbonia, Sulcis). La lotta delle donne dei minatori costituisce un caso di studio interessante per quanto riguarda l’emancipazione femminile nel settore industriale e rappre­senta un osservatorio privilegiato per analizzare in profondità le condizioni lavorati­ve dei minatori e di come le donne diedero il loro sostegno nella marcia collettiva contro i proprietari delle miniere.  Ho cercato di indagare sulle dinamiche di genere, anche culturali e simboliche nel contesto sindacale, mantenendomi ancorata alla ricostruzione della realtà sociale e politica delle lotte condotte dalle donne. Ho preso in esame studi e ricerche effettuate da studiose come Barbara Solari, Eleonora Todde, Antonietta Podda, Leen Roels, Jean Spence and Carol Stephenson, Anne Kane, Sandra Fayolle.

9780856647482-uk-300In Inghilterra durante lo sciopero del 1984-1985, le donne dei minatori raggiunsero un obiettivo importante: divennero protagoniste nelle manifestazioni di massa. A questo movimento di protesta parteciparono circa 30 mila donne provenienti da tutte le zone minerarie del Paese, che sfilarono nelle vie di Londra. Esse ricevettero il sostegno politico dalle donne del Partito laburista e dalle organizzazioni femministe. Provenienti da tutti i bacini minerari inglesi iniziarono a costituire gruppi locali e si spostarono per condividere le informazioni nelle prime settimane dello sciopero. Emblematica è la figura femminile di Betty Heathfield che accompagnata da Margaret Vallins visitò le zone calde degli scioperi in atto. Crearono news letters per distribuire informazioni e slogan come “Here we Go”, a sostegno delle donne del Nottinghamshire. Il movimento National Women Against Pit Closures, nacque da una rete di attiviste con forti legami con la sinistra, tra cui il Partito Comunista e il Movimento di Liberazione delle Donne. Sulle questioni chiave si produssero tuttavia divisioni all’interno dell’organizzazione nazionale man mano che cresceva. In particolare, gli attivisti erano divisi sul fatto che il movimento dovesse mirare esclusivamente a sostenere lo sciopero o se dovesse avere obiettivi più ampi relativi alla vita delle donne, al genere e al femminismo. In relazione a ciò, il movimento si divise sui rapporti con Arthur Scargill e la National Union of Mineworkers e sulla questione di quali donne avrebbero dovuto essere autorizzate a essere membri.

Alla seconda conferenza nazionale delle mogli dei minatori, il 9-11 novembre 1984, a Chesterfield, Ann Scargill e Betty Heathfield, Presidente di Women Against Pit Closures (WAPC), assicurarono la presenza alle riunioni di una quarantina di donne, come rappresentanti ufficiali delle manifestazioni nazionali. Organizzarono, insieme a numerose mogli di minatori, una petizione al Buckingham Palace a Londra, il 12 agosto 1984. Il 3 marzo 1985, un congresso straordinario del NUM decise di interrompere quello che è stato lo sciopero più lungo della storia e una delle battaglie più sanguinose del movimento operaio britannico. La sconfitta fu la conseguenza diretta del tradimento delle direzioni del Partito laburista e della Confederazione dei sindacati britannici. Lo sciopero dei minatori britannici del 1984-1985 fu l’aspra lotta di un anno condotta dalla National Union of Mineworkers (NUM) in cui donne si unirono a uomini in opposizione al National Coal Board (NCB) e al governo conservatore di Margaret Thatcher. Nella fase cruciale dello scontro, la Thatcher definì il NUM “il nemico interno”. Al termine di un meeting organizzato in margine al congresso della TUC del settembre 1984, Betty Heathfield, del Comitato di coordinamento nazionale delle donne delle regioni minerarie, dichiarò che le attività di solidarietà delle donne erano importanti nel risvegliare e unire tutto il movimento operaio. A partire da questa forza ritrovata le donne dei minatori strinsero legami con altre donne. Architettarono e misero in campo proprie iniziative e organizzazioni, che spesso si ispirarono all’esempio delle “Donne per la pace” di Greenham Common. È certo che il sostegno ai minatori ha fatto nascere forme nuove di organizzazione tra i soggetti più oppressi e più sfruttati. I giovani hanno partecipato e diretto la costruzione di vari gruppi: Lesbiche e omosessuali a sostegno dei minatori, Donne contro la chiusura dei pozzi, gruppi di solidarietà organizzati da Neri. Il settore giovanile della “Campagna per il disarmo nucleare” (CND) ha collegato la battaglia contro il nucleare a quella contro l’attacco all’industria carbonifera e alla disoccupazione giovanile, in modo molto più efficace di quanto non abbia fatto la Gioventù laburista (LPYS). Arthur Scargill, marito della Ann Scargill, presidente dal 1981 del Sindacato nazionale dei minatori (NUM), diede un’impronta fortemente militante agli scioperi (Jean Spence, Carol Stephenson).

s-l1600In Italia, nel caso di Ribolla, nei primi anni cinquanta del Novecento, le donne si mobilitarono in massa per sostenere e incoraggiare le lotte sindacali dei loro padri, dei loro fratelli e dei loro mariti minatori. Le battaglie sindacali furono seguite e appoggiate dall’UDI (Unione Donne Italiane), prima direttamente, poi attraverso l’associazione “Le Amiche della Miniera”. Le donne, infatti, specialmente quelle più politicizzate e appartenenti al Partito Comunista o al Sindacato Minatori, molto fecero per coinvolgere altre donne in difesa degli interessi e delle condizioni di vita delle loro famiglie. Erano “amiche della miniera” anche le operaie impiegate nei lavori di cernita, carico di lignite sui vagoni, lampisteria e cucina; in genere provenivano da famiglie bisognose, molte erano “orfane” o “vedove” della Montecatini. Chi lavorava in cucina o si occupava delle pulizie degli alloggi degli operai non partecipava agli scioperi e alle manifestazioni, per non venir meno al tradizionale “dovere di cura” dei minatori senza famiglia, ma offriva il proprio contributo alla lotta sindacale facendo propaganda sul posto di lavoro.

Al di là degli obiettivi concreti della lotta (migliori stipendi, maggiore sicurezza, assistenza sanitaria adeguata, etc.), un forte senso di precarietà della vita era alla base del movimento di protesta. Tutto si svolgeva intorno e in funzione della miniera. Finisia Fratiglioni fu indicata da molti come la vera e indiscussa leader della vita sociale e politica ribollina (Barbara Solari). In Sardegna, dal 7 ottobre 1948, s’innescò tra i lavoratori della Miniera di Serbariu una protesta che, nella memoria collettiva della città di Carbonia, è ricordata come la “lotta dei 72 giorni”. Per la sua durata, le motivazioni da cui scaturì e la forma che assunse, questa lotta rimane ancora oggi uno degli esempi più significativi nella storia del movimento operaio e sindacale sardo e nazionale. La lunga agitazione, rispetto alle altre lotte che i lavoratori di Carbonia hanno sostenuto, prima e dopo il 1948, è anche un simbolo per la città di Carbonia, rappresentando lo sforzo cosciente di difendere il proprio posto di lavoro e di opporsi ad un disegno volto a cancellare la vita di una città che aveva come unica ricchezza l’attività mineraria. Chiudere la miniera avrebbe significato far morire Carbonia. La lotta iniziò, dunque, per motivi di carattere strettamente economici, gli aumenti tariffari, ma il motivo centrale fu la difesa dell’occupazione lavorativa e la salvaguardia dell’attività estrattiva.

In questo frangente, L’UDI (Unione Donne Italiane) organizzò in tutta Italia delle raccolte di fondi e di viveri da inviare a Carbonia e si fece carico di iniziative come organizzare la partenza di decine di bambini provenienti dalle famiglie dei minatori più disagiate ospiti presso famiglie di lavoratori in diverse regioni dell’Italia. All’interno delle proteste le attiviste Nadia Gallico Spano e Giuseppina Salis con spirito combattivo si schierarono con i propri compagni nelle lotte minerarie (Antonietta Podda). Infine, nel 1951 a Guspini si tenne un convegno per la costituzione di un organismo denominato “Associazione Donne delle Miniere”. Erano per lo più mogli di minatori, disposte a lottare a fianco dei loro uomini per la difesa e lo sviluppo del bacino minerario. Chiedevano sostegno per i figli dei lavoratori, assistenza medico-ospedaliera per le famiglie degli operai, alloggi e condizioni di vita umani. Queste donne denunciavano il continuo ripetersi in miniera d’incidenti spesso mortali e il dilagare della malattia della silicosi provocata dalla prolungata esposizione al biossido di silicio.

les-charbonnages-belges-liege_0L’azione delle donne e il loro ruolo attivo nel coinvolgimento di grandi strati della popolazione determinarono la vittoria dei minatori con l’occupazione dei pozzi a Montevecchio nel 1961 (Annalisa Atzori). In Belgio le donne manifestanti firmarono appositi opuscoli, fornirono informazioni ai lavoratori, ampliarono il movimento De mijnwerkersvakbond (sindacato dei minatori), convocarono assemblee generali. Le azioni dei manifestanti, a cui parteciparono anche numerosi studenti della scuola normale di Bokrijk, nel Limburgo belga, si basarono sulla non violenza. Alle riunioni parteciparono sia i minatori che le donne. La campagna condotta dal movimento Mijnwerkersmacht ebbe come risultato il collasso dei sindacati. In una manifestazione avvenuta ad Hasselt (il 16 gennaio 1970), la portavoce femminile Nadine Huybrechts (denominata la Giovanna d’Arco dei minatori), studentessa di economia, dichiarò che le donne si dovevano emancipare e che avevano il diritto di farsi sentire per il bene delle famiglie, rivendicando con forza una riduzione dell’orario di lavoro.

Tra il 1966 e il 1969 apparvero sulla scena mineraria numerosi scioperi a cui parteciparono complessivamente più di 25 mila minatori accompagnati dagli studenti dell’Università di Hasselt e Leuven. Gli scontri avvennero a causa del fatto che il governo, con un messaggio emanato dal ministro dell’Economia Leburton (Partito socialista belga), aveva rifiutato di pagare il bonus di fine anno di 6.000 franchi belgi, somma di cui i minatori avevano un disperato bisogno. Quando una folla di oltre mille scioperanti tentò di occupare gli uffici amministrativi delle miniere di Zolder e Waterschei, si innescarono violenti scontri tra la polizia e i minatori. Seguirono le rivolte presso la miniera di Winterslag, Beringen e Zolder a cui parteciparono numerose le donne accompagnate dagli studenti dell’Università di Leuven e Hasselt. A gennaio del 1970 ebbe luogo uno lungo sciopero di 44 giorni, a cui partecipò Kris Hertogen, allora appena laureato in psicologia, a capo della Mijnwerkersvakbond, che così ricorda la forza della classe operaia e il legame di solidarietà che nacque tra minatori e studenti: «Gli studenti ci hanno difeso quando la gendarmeria ha cercato di allontanarci dai cancelli delle miniere, si sono uniti a noi durante le riunioni clandestine, ci hanno accolti in casa durante la notte». Nelle lotte fu presente il figlio del governatore provinciale del Limburgo, Louis Roppe. Kris Hertogen oltre ad essere il fondatore della Mijnwerkersvakbond, fu anche membro del sindacato studentesco di sinistra (SVB), il quale ebbe come compagni di lotta Ludo Martens, Herwig Lerouge, Walter De Bock e Paul Goossens (De Rijck Tine, Van Meulder Griet). Il primo diventerà poi presidente del PVDA, il secondo caporedattore di Solidair, l’ultimo fondatore del De Morgen. (Fonte: consultato il 20 marzo 2021: www.npdoc.be).

Da L'Umanitè

Da L’Umanité

In Francia, si ricorda ancora il lungo sciopero dei minatori del Nord Pas-de Calais nel maggio 1941, durante il quale le donne erano largamente presenti ai picchetti: due di loro furono anche condannate alla deportazione dal comando Occupazione militare tedesca, Christine Bard e Julie Dewintre. Nel 1947-1948, all’Union des Femmes Françaises (UFF), l’organizzazione femminile di massa del PCF, fu chiesto di incoraggiare le donne a partecipare insieme ai loro mariti durante gli scioperi presso la miniera di Saint-Etiènne (Michelle Zancarini). A quel tempo, nelle famiglie della classe operaia, e più in generale nelle famiglie a basso reddito, erano le donne a occuparsi del bilancio familiare. Durante uno sciopero, quando il reddito familiare diminuiva, erano quindi costrette ad adeguare la propria spesa. È anche dalla loro capacità e ancor più dalla loro volontà a sostenere la famiglia in questo contesto che dipendeva la capacità dei coniugi o dei figli di prolungare lo sciopero. In questa prospettiva, l’Union des Femmes Françaises (UFF), l’organizzazione femminile del PCF, fu chiamata ad agire in direzione delle donne, a vigilare affinché si schierassero a fianco dei loro mariti, non rallentassero l’azione dei loro coniugi, imperativo contenuto in questa ingiunzione spesso mobilitata: “Non sia il braccio che trattiene ma il braccio che sostiene”.

Durante questi anni del dopoguerra, la leadership del PCF esitava su come la sua organizzazione femminile dovesse impegnarsi con gli scioperanti (Maurice Duverger). Esitazioni che hanno riguardato sia le forme di azione da promuovere ma anche la visibilità da concedere all’UFF. Dopo le discussioni che seguirono alla riunione del Comitato centrale del dicembre 1947, Yvonne Dumont, allora membro della segreteria dell’UFF, stabilì le modalità d’intervento organizzativo durante lo sciopero. Di fronte ai membri del Comitato Centrale, Dumont affermò: «È positivo che le casalinghe partecipino alle manifestazioni, ma è certo che il ruolo essenziale di un’organizzazione come l’Union des Femmes Françaises si basi sulla solidarietà tra donne a fianco dei propri mariti/minatori». Nel gennaio 1953, Jeannette Vermeersch (compagna del segretario generale del PCF Maurice Thorez) invitò «a riunire le mogli dei minori, affinché discutessero sulle azioni da intraprendere per far sì che i loro mariti avessero un aumento di stipendio, diritto alla pensione, e alloggi per le loro famiglie». I comitati delle mogli dei minatori manifestarono nuovamente numerose alla fine di marzo 1963. Il quotidiano PCF, L’Humanité, riportò le cronache delle manifestazioni femminili del 23, 25 e 27 marzo 1963 nella Loira, in Lorena. I comitati delle donne si riattivarono, ​​unite da un forte spirito combattivo, guidati e sostenuti dalla CGT; e l’attivista comunista, Henriette Simonetto (1931-2004) fu eletta come portavoce delle donne, mobilitate all’insegna dell’obiettivo: «Tutti uniti nella lotta con i nostri mariti fino al vittoria». Molte di loro indossavano il velo, perché in quel periodo alle donne di quartiere era vietato uscire di casa col capo scoperto. Numerose parteciparono alle manifestazioni sotto la supervisione di sindacalisti uomini, si recarono presso la prefettura della Loira. Radunate in piazza Jean Jaurès, le donne, rivendicarono e ottennero il riconoscimento della malattia professionale e l’aumento dello stipendio (Michelle Zancarini).

zolfo-carbone-e-zanzareConclusioni

La lotta delle donne dei minatori costituisce un caso di studio interessante per quanto riguarda i processi dell’emancipazione femminile nel settore industriale. Le donne attiviste furono proprio le mogli di minatori che intrapresero un passaggio lineare: dalla domesticità al lavoro nel sottosuolo, all’impegno più strettamente politico. Accanto all’azione di solidarietà nei confronti degli scioperanti, le donne si organizzarono in piccoli gruppi autogestiti impegnati a raccogliere viveri e fondi e a offrire ospitalità ai figli degli scioperanti. Il sindacato dei minatori si trovò ad affrontare un movimento femminile combattente, in grado di convincere gli stessi uomini a partecipare attivamente alle proteste. La loro presenza rappresenta un tassello importante nella ricostruzione complessiva del movimento delle donne: si tratta, infatti, di un elemento a tutt’oggi scarsamente indagato a livello storiografico, ma di particolare interesse dal momento che si colloca all’incrocio tra fenomeni internazionali di indiscussa rilevanza quali il movimento operaio e il movimento femminista. Le attività di mutuo soccorso e la partecipazione agli scioperi si basarono in gran parte su reti di solidarietà di quartiere su cui le organizzazioni al femminile si affidarono sin dall’inizio. I luoghi di maggior incontro, per esempio in Francia, furono i mercati settimanali, dove si distribuirono volantini e cibo per le famiglie in difficoltà economiche. Numerose donne ebbero la possibilità di stabilire contatti fra di loro, occasioni che resero note le intenzioni dei moventi di rivolta nei luoghi minerari in Europa. «È nostro dovere come madri stare al fianco dei nostri mariti quando lottano per salari migliori. È nostro dovere come madri unirci a tutti i lavoratori per preservare la sicurezza sociale. È nostro dovere di madri alzare la nostra voce». Come suggerirono gli appelli delle donne rivolti ai potenti delle miniere, esse incitarono il popolo dell’industria mineraria a mobilitarsi per rivendicare gli aumenti del salario e il miglioramento collettivo delle condizioni di vita delle famiglie a basso reddito. La loro battaglia muoveva contro i licenziamenti e la chiusura delle miniere per difendere i diritti dei lavoratori e il benessere dei bambini, visti come vittime innocenti dei conflitti sociali. Questo insieme di azioni era in linea con i fini dell’organizzazione di massa del movimento, in grado di raggiungere donne che non appartenevano a strutture politiche tradizionali (partiti politici, sindacati). A tal fine, i suoi leader che guidarono consistenti scioperi, a cui presero parte in primis le casalinghe, mogli e compagne dei minatori, come per esempio Nadine Huybrechts, Giuseppina Salaris, Lorraine Bowler, Betty Heathfield, Jeannette Vermeersch, confermarono che le loro forme organizzative nacquero del tutto indipendenti dalla componente maschile.

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Sonia Salsi, ricercatrice indipendente, è nata e cresciuta presso il villaggio minerario di Lindeman in Belgio. Laureata nel 2010 in Scienze antropologiche presso l’Università di Bologna con una tesi sulla storia dell’immigrazione italiana in Belgio verso i bacini minerari del Limburgo. Nel 2014 consegue la laurea magistrale in Progettazione e gestione dell’intervento educativo nel disagio sociale con una tesi sulle donne rifugiate e richiedenti politici a Bologna. A dicembre 2015 ottiene un Master Interculturale di primo livello nel campo della salute, del welfare, del lavoro e dell’integrazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Da diversi anni si occupa di biografie, racconti e narrativa di donne italiane che vissero le migrazioni nei contesti multiculturali in adiacenti le zone carbonifere tra il Belgio, l’Olanda e la Francia.

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