Sono motivata da un grande entusiasmo a scrivere del lavoro politico, culturale e umano delle donne che da quindici anni lavorano in una realtà autonoma e connessa alla Fiera del libro di Torino con un grosso progetto sulla scrittura delle donne migranti, tanto da determinare e rimarcare una “differenza”, l’alterità che dà voce a chi non l’ha, scavalcando ogni mediazione metodologica etno antropologica per attingere e raccogliere verità di viva e diretta testimonianza, aprire dibattiti, coinvolgere esperti, approfondire lo studio delle lingue e non solo in dimensione glottologica, sensibilizzare istituzioni locali, nazionali e internazionali.
Nei giorni scorsi è arrivato Tamburi di carta, l’ultimo volume del concorso Lingua Madre 2022, Racconti di donne straniere in Italia, a cura di Danila Finocchi (Regione Piemonte) e la lettura di quelle 265 pagine riempie di gioia e speranza, in un tempo difficile e cupo.
Come nasce l’idea del concorso Lingua Madre
L’idea è di Daniela Finocchi, giornalista torinese, da sempre interessata ai temi legati alla natura, specializzata in viaggi e reportage (Sud America, Stati Uniti, Nord Africa) e al seguito di spedizioni scientifiche ha realizzato inchieste, programmi per i canali RAI, radicalizzando sempre più il suo interesse per l’incontro con culture diverse da cui trarre preziosi insegnamenti per una pratica di vita politica. Sempre più ricca e giusta senza esclusioni pregiudiziali.
Daniela Finocchi deve aver trovato un terreno estremamente favorevole se con tutto il suo carisma-autorevolezza è riuscita a coinvolgere un gruppo notevole di donne femministe pronte ad intraprendere un nuovo percorso di rivendicazioni che si è arricchito negli anni di iniziative collaterali e nuove intelligenze. Mi riferisco ai numerosi progetti speciali, curati dal concorso: la sezione audio racconti on line, la borsa di studio e bandi di ricercatrici universitarie, la collaborazione a riviste nazionali letterarie, mostre, libri, spettacoli teatrali tratti dai racconti, il gruppo di studio formato da docenti universitarie italiane e straniere sui temi legati alla migrazione femminile.
Prima di riportare tre esempi di scrittura, cerco di saperne di più da Daniela:
Che cosa nei racconti delle donne migranti ci arriva direttamente al cuore e ci avvolge come un caldo abbraccio?
Ovviamente non è la fredda descrizione di una inchiesta sociologica; i racconti nella loro evocazione, sfiorando l’intimismo, sono pieni di energia e tratti trasgressivi; potrebbero essere anche nostri scritti in un momento di malinconia, nostalgia, felicità, gioia. I racconti sono di donne di ogni età con i loro corpi sessuati al femminile, in una danza di relazioni affettive piene di eros nel senso di vitalità e voglia di vivere. La scrittura non è asettica, impersonale, non catalogabile né banale o melliflua. È un fiume in piena che scorre lungo una genealogia femminile universale che vede le forme fondamentali dell’essere donna (madre o figlia, sorella o sposa o amante) tra solidarietà, relazioni, desiderio di appartenenza, bisogno di autonomia e libertà ma anche erotismo nell’accezione degli antichi greci per i quali Ἔρως, Érōs è il dio dell’amore fisico che trascina verso il bello e il buono.
Chi sono le migranti? possono essere annoverate fra gli stranieri?
In codesta sede non intendiamo affrontare il tema della migrazione. È complesso e riguarda forme varie e motivazioni diverse dello spostarsi. Altro è il senso dell’essere o sentirsi straniero, cioè estraneo, non omologato alla gente del posto; in pratica sentirsi diverso – estraneo appunto. Allora stranieri si diventa e ci si può sentire in ogni luogo se non si vive in armonia con il contesto, o se non si è accettati con cura e dignità. Di tanto sono consapevoli le protagoniste dell’antologia “Lingua madre” che trasformano l’esperienza migrante in un dato di consapevolezza e di forza propositiva soggettiva e sociale, rivolgendosi al contempo a lettori e lettrici interessati a uno spazio di scambi, relazioni e di ascolto verso l’altro e verso l’oltre, arricchiti da esperienze molteplici.
Il mio corpo: un posto felice
di Diana Paola Agamez Pajaro (Venezuela)
La mattina, all’alba, di solito faccio il bagno assieme a mia nonna. Lei non resiste a lungo e così ci sediamo l’una di fronte all’altra. per me è importante rimanere all’altezza dei suoi occhi per guardarla e condividere l’intimo spazio di una doccia. Ci spogliamo e lasciamo scorrere un po’ l’acqua per non sentire il freddo del primo impatto. Lei si guarda, poi guarda me e sorride; io faccio lo stesso. È come se ricordasse quello che è stata ed è come se io scoprissi cosa sarò se dovessi arrivare a novantotto anni. Siamo il passato e il futuro nello stesso riflesso. Guarda e sorride. Guarda e stringe le mie tette. In quel gesto irrequieto delinea la forma di un ricordo, poi abbassa lo sguardo verso le sue tette e mi racconta che una volta erano fiorite come le mie. Descrive un momento di contemplazione del suo corpo, come se stesse ammirando e anticipando ciò che non ci sarà più dopo il passaggio della morte. Non c’è nostalgia nei suoi occhi piuttosto la soddisfazione di una vita lunga novantotto anni.
Mia nonna è amica del suo corpo, accetta volentieri che la sua pelle sia scesa e allo stesso tempo sa descrivere le sensazioni che un tempo la nutrivano. Parla senza esaltazione del suo corpo e dei figli che da lì sono usciti. La voce assume una tonalità mistica quando ricorda le vibrazioni che le hanno provocato gli orgasmi di una lunga e faticosa vita a fianco allo stesso uomo. Prima del nonno altri uomini l’avevano sfiorata. Molte volte aveva goduto i piaceri dell’amore davanti al fiume Magdalena, sdraiata vicino alla riva, il sole che le tramontava fra le gambe.
Nella sua voce non c’è nostalgia né malinconia. Vive un eterno presente. La sua voce è più sicura quando dice che fra le sue gambe c’era un posto felice che forse ora non va più bene come una volta, ma ora guardandomi lì tutta nuda e fresca con due tette come due melegrane, e le gambe forti tornano le sensazioni: di nuovo si avvicina ai toni della sua intimità e al bagliore che una carezza accendeva sul suo corpo. La vecchiaia non ha alterato le sue pulsioni vitali e neppure la sua creatività quando costruisce un nuovo erotismo dalle particelle dei ricordi e dall’impeto della vita che alla sua età non smette di palpitare.
Mia nonna è consapevole che ciò che ci collega agli spazi onirici e trascendenti del corpo, della vita è l’erotismo mai spento in lei e ne approfitta ogni mattina. È il suo modo di ricordare che è viva e che il suo corpo ha acquisito un valore diverso che vuole riconoscere. Il suo corpo non è un deposito; è movimento e trasformazione, esperienza e dolore, piacere, immaginazione e trasgressione. Sì, trasgressione perché osa lasciarlo andare ad un punto della vita per cui, per il mondo, siamo esseri inutili parcheggiati in attesa dell’ora della morte.
La traiettoria di ciò che non è più è esattamente quanto la riporta a ciò che è ora, ed è lieta di percorrerla mentre io la insapono e massaggio la sua testa con lo shampoo alla lavanda che emana nel bagno un odore fresco che si mischia a quello del caffè, appena fatto, che arriva dalla cucina.
Ogni giorno partecipiamo al rito della doccia. Ogni giorno il ricordo rinverdisce come una foglia nuova. La preparazione che precede il rito è un inventario esaustivo. Prima di spogliarsi la nonna apre le porte dell’armadio e osserva, come fosse la prima volta, i suoi vestiti (…), li passa in rassegna tutti e sorride come una bambina che ha tutti i suoi giocattoli al sicuro. La nonna traccia ponti tra oggi e ieri. Poi mi dice –lavami – ma si ricorda all’improvviso che c’è un vestito senza maniche e con voce tormentata mi dice: “nipote mia, i vestiti senza maniche sono una calamità”.
Alle sei del mattino di un giorno qualunque mia nonna mi dona la più bella poesia mai esistita. Io non posso resistere a domandarle perché i vestiti senza tasche siano una calamità. Lei mi risponde rassegnata: “perché voglio tenere tutto dentro il mio corpo e non mi ci entra”.
Dove è la vita se non in questo impulso, nel desiderio nascosto della pelle di continuare la sua fioritura, di ospitare nei suoi solchi nuovi modi di crescere, anche se sembra che la crescita non sia più possibile?
Quando la nonna parla, tutto acquisisce nuove possibilità, tutto cresce.
di Elena Catalina Conon (Romania)
Alice era una bambina di quattro anni, andava all’asilo e quando ritornava a casa succedeva di tutto. La porta era sempre chiusa, la stanza era buia e lei teneva in mano un orsacchiotto rosa regalatole dalla nonna prima che morisse. Invece nell’altra stanza c’erano i suoi genitori che litigavano ogni sera.
Alice una sera si fece coraggio e andò nell’altra stanza per fare smettere i suoi genitori di gridare, ma invece appena uscita dalla stanza suo padre le fece male. Lei se ne andò nella sua stanza con le lacrime
che le scendevano per quanto suo padre le aveva fatto. Il giorno dopo sua madre la svegliò per andare all’asilo. Lei si alzò fece tutte le sue cose e poi uscì con la madre per andare all’asilo. Quel giorno si sentiva osservata dai compagni e poi la chiamarono le maestre per chiederle cosa avesse sulla guancia, se qualcuno le avesse fatto male. Lei non sapeva cosa rispondere poi raccontò cosa le era successo e tornò a giocare con i suoi compagni. Il giorno dopo le maestre chiamarono la madre che disse tutta la verità e allora chiamarono il centro antiviolenza.
Fu così che Alice e sua madre andarono in quel centro dove furono accolte molto gentilmente. Passarono dei giorni e poi decisero che la madre e la bambina dovevano andare in una comunità. Si trovarono molto bene in comunità mentre il padre venne portato in prigione. Alice fece amicizia con tanti altri bambini della sua età. Dopo due anni la mamma chiese se poteva andare a vivere in una casa e la sua richiesta venne accettata. Così la mamma e Alice vissero serene e felici.
di Ikram el Mostachrik (Marocco)
Ad Abdul Masood, morto all’età di 40 giorni sulle coste del Sud del Bangladesh, a chi giace sul fondo del Mediterraneo, agli ultimi della terra.
Nacqui con l’urlo più grande di mia madre. Al tenero calore del ventre materno subentrò una sensazione di ruvido della sabbia su cui caddi. Intorno a me il chiasso era forte e una strana luce disturbava i miei occhi non appena tentavo di aprirli … Due mani giganti e scabre mi alzarono da terra con cautela mentre i canti gioiosi delle donne che accompagnarono il distaccamento dei corpi tra madre e figlia, vennero interrotti da mio padre che avvicinò le sue labbra al mio orecchio destro e intonò con voce carezzevole e commossa, un dolce adan , un richiamo alla preghiera: “Allahu akbar – Allahu akbar”. Era armonioso, avrei voluto non finisse mai, “Ashadu alla iIlaha illa Allah”, si avvicinò alla mamma che continuò all’unisono “Ash-hadu Anna Muhammad rusulu Allah”.
Tornai fra le braccia di mia madre, mi avvolsi nel suo velo e mi strinse finché non sentii i battiti del suo cuore. Ricominciarono i canti delle donne, ero una nuova vita, una nuova speranza e mi chiamarono Baraa: “Innocenza”.
Dopo dieci giorni dalla mia nascita, imparai ad osservare meglio il mondo che mi circondava. La mamma era scarna, a contatto con lei potevo sentire la durezza delle sue ossa; una lunga ferita rossa le percorreva il braccio destro, il suo sorriso era stanco come i suoi gracili occhi che si accendevano solo quando erano rivolti a me. Il freddo e la fame facevano di lei una scultura debole e affranta. La sera, prima di dormire, papà raccoglieva il mio corpo fra le sue mani infreddolite e mi recitava il Corano. Non capivo ma la sua voce dolce e sicura mi infondeva piacere e serenità. Era il momento più bello della giornata. Volevo crescere e imparare anch’io quelle parole così potenti.
Sedici giorni – ad un tratto urla terribili, persone che scappavano e chiedevano aiuto … urla urla, paura paura paura … bisognava arrivare in un luogo sicuro dove nessuno potesse farci del male. Mi chiedevo perché in tanta sofferenza dovevamo scappare, perché avrebbero potuto portarci via qualcosa che avevamo e farci del male. Si pagava così il passaggio dal ventre umano a questo cumulo di macerie chiamato mondo? Il viaggio mi sfiancò, non avevo neppure la forza di piangere né mia mamma di allattarmi al seno. Delle notti le donne intonavano canti propiziatori e di ringraziamento ad Allah per quello che ci aveva dato, poi corrotto dagli uomini. Era un modo per addolcire la miseria in cui eravamo costretti a vivere.
Avevo quaranta giorni quando arrivammo sulla costa; di urlo in urlo di lacrime in lacrime … Ci aspettavano delle barchette, bisognava fare in fretta a raggiungerle. Mamma si accucciò accanto a papà che mi teneva in braccio, mi coprirono con un velo per ripararmi dalla brezza marina. Cominciò il viaggio in mare, le onde ci promisero un giorno di vita in più. Vicino alle coste la barca si rovesciò, l’acqua del mare mi accolse nel suo freddo che congelò ogni mio sogno, ogni mia speranza, le onde rubarono il mio respiro, bevvi tutte le lacrime degli uomini sofferenti. Una mano mi afferrò per portarmi sulla terraferma, mia madre posò le sue labbra bagnate da un pianto silenzioso e struggente sulle mie, e si strinse tremante ancora una volta al suo petto. Un lontano Allah Akbar echeggiò dentro di me e regalai l’ultimo respiro al vento.
Chissà se quaranta giorni possono chiamarsi vita! Nacqui con l’urlo più forte di mia madre, morii conoscendo il suo pianto più doloroso.
Conclusioni
Le donne che hanno scritto le loro storie di migrazione e di vita nel paese di accoglienza, in linea di massima, sono rappresentative di tutti i tipi di immigrazione presenti in Italia. Sono storie personali ovviamente che si muovono tra natura e cultura, racconti della terra di provenienza con le particolari caratteristiche che oltre il bisogno di risposta ai bisogni primari di sussistenza esprimono realtà uniche come la guerra in Bosnia, la realtà in Serbia e l’abitudine a vendere le figlie in alcune zone dell’Africa nera, il rapire e avviare alla prostituzione le ragazze dopo la guerra in Albania. Il tutto in una carica emotiva al femminile che punta ad una particolare intensità di forza, coraggio, voglia di autodeterminazione che le rende ammirevoli.
Si tratta di donne che per la prima volta affrontano la sfida della scrittura per capirsi meglio e farsi capire. Per comunicare in una lingua nuova che non le faccia sentire estranee al contesto in cui vivono. La conoscenza non superficiale di una nuova lingua è segno evidente di integrazione e socializzazione nonché delle proprie competenze professionali, umane e letterarie. Le loro narrazioni riescono ad avere delle parole trasparenti talmente lievi da riuscire a rendere decifrabile anche una complessità di pensiero dentro la realtà non semplice delle loro vite. C‘è in quei racconti come una danza della vita, con ruoli che si alternano, con madri, figlie, nonni, nipoti che si stringono, intrecciano affetti e destini. Storie di traumi risolti in un registro elementare da fiaba, come nella storia di Alice. Racconti mai astratti o banali, e anche nella loro cruda concretezza riescono spesso ad essere metaforici, simbolici, riflessivi.
Penso che molte di loro continueranno nella loro ricerca letteraria, magari rinnovandosi, senza enfasi e senza programmi espliciti di poetica, spinte da una necessità interiore o anche dal bisogno di azione politica, finalizzata ad una mutazione dell’esistente. Quel cambiamento che serve a tutti noi perché ci si possa sentire cittadini più maturi e consapevoli, arricchiti dall’autodeterminazione femminile, dalla paziente e tenace soggettività delle donne, dal loro protagonismo nella storia del mondo che verrà.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
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Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.
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