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Dopo il Covid. Ripensare la vita e accettare la morte

coverdi Sarah Dierna

È giunto il momento di tornare a pensare il nostro tempo, questo, come suggerisce Hegel, è infatti uno dei compiti della filosofia.  Ripensare il nostro tempo, per come esso è stato e per come in parte è ancora, significa prima di tutto comprendere noi stessi in esso, cogliere le ragioni più profonde e vere del nostro agire e del nostro pensare senza più arrestarci sulla soglia: quella che ci fa discutere delle politiche e delle poetiche che hanno investito le esistenze individuali e collettive di ciascuno di noi; quella che si risolve in ingenui dualismi tra bene e male, giusto e sbagliato, salute e malattia, vita e morte. Prospettive – tanto l’una quanto l’altra – ormai troppo parziali e riduttive per potere essere accettate. Siamo adesso chiamati a riflettere sull’epidemia Sars-Cov2 ma farlo richiede coraggio perché non si tratta più di ricostruire una mera fenomenologia del potere e della sua implementazione nei nostri giorni né di meditare su cos’altro avremmo potuto fare: la prima infatti ci dirà solo il come ma non ci spiegherà il perché; porre la seconda sarà un interrogativo persino sterile come lo è ogni ‘participio futuro’ che ‘avrebbe potuto’ o ‘sarebbe stato’, poiché non potrà comunque cambiare il corso degli eventi.

Al di là delle scelte che ciascuno di noi ha preso e delle conclusioni a cui è giunto c’è però qualcosa su cui possiamo e dobbiamo meditare. Qualcosa che non vale solo per alcune categorie tra quelle individuate nel corso degli ultimi due anni, qualcosa che inerisce il nostro stesso stare al mondo e che per questo coinvolge tutti come individui e come collettività. È dunque un presente, il nostro, che ha ancora l’urgenza di essere studiato nella sua complessità; di essere argomentato nella sua pluralità, di essere disvelato nella sua reale natura. Studiarlo, argomentarlo e disvelarlo «con coraggio e lucidità, sine ira et studio, con equilibrio esistenziale e scientifico» [1] è il lavoro che si propone Alberto Giovanni Biuso in Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra editore, 2022). 

Catania, metro, 2020  (ph. Sarah Dierna)

Catania, metro, 2020 (ph. Sarah Dierna)

Come ogni libro, anche questo può essere letto secondo prospettive diverse; è un libro di sociologia, se per sociologia intendiamo lo studio dei corpi collettivi; è un libro di politologia, se con politologia assumiamo lo studio dialettico del potere e delle sue manifestazioni; è un libro di antropologia se con antropologia rimandiamo allo studio dell’umano come individuo e come parte di una comunità; è tutto questo insieme e cioè un libro di filosofia come «una presa d’atto, una consapevolezza, una terapia»: «presa d’atto della condizione nella quale non soltanto l’umano ma ogni vivente si trova; la consapevolezza delle ragioni per cui ci si trova in tale condizione; una terapia per uscirne, sempre nei limiti dati dall’essere temporale dei viventi» [2].

È proprio quest’ultima lettura, forse più delle altre, a rendere questo saggio non soltanto circoscritto e circoscrivibile al ‘presente adesso’ – certo, è anche e soprattutto una critica di questo presente – ma uno studio più universale di comprensione dell’umano e della sua natura che nell’epidemia Sars-Cov19 ha trovato l’occasione per riemergere, confermarsi ed essere quindi ripensata.

Il virus come elemento biochimico infatti sparirà, come la storia ci insegna, ma non spariranno le radici latenti a tale epidemia e che all’epidemia non sono riconducibili, ecco perché secondo l’autore 

«abbiamo bisogno di pensare l’epidemia anche al di là della sua tragica e liberticida contingenza. Abbiamo bisogno di comprendere in modo quanto più lucido possibile il terreno nel quale affondano le radici del presente. Abbiamo bisogno di offrire una lettura fenomenologica della cronaca e una lettura metapolitica delle sue cause. Abbiamo bisogno di una lettura filosofica del deserto che le comunità umane vanno sempre più diventando» [3].

cover_9788845927157__id6462_w1200_t1461056897Per mesi le città sono state simili a quella Crisopoli descritta da Morselli nella sua Dissipatio H.G. e da Biuso giustamente ricordata, una «Crisopoli ridotta a Necropoli» [4]: senza più studenti all’ingresso degli istituti scolastici, senza più adulti che escono di casa per recarsi presso i rispettivi luoghi di lavoro, senza più ragazzi con la voglia di rientrare tardi la sera. La didattica si è svolta a distanza con insegnanti e allievi ridotti a «una sorta di ologramma disincarnato e digitalizzato» [5]; il lavoro si è fatto smart con la sua «effimera illusione di una comoda libertà» [6] e «l’annullamento della sana e necessaria separazione tra l’ambiente di lavoro e l’ambiente personale» [7]; il coprifuoco non è stato più il genitore a stabilirlo.

C’è però un aspetto che ha continuato a distinguere il silenzio di Crisopoli dal nostro e a cui l’autore attribuisce un’importanza determinante in questa vicenda. Il silenzio di Crisopoli è stato «davvero primordiale» [8] con la sparizione del genere umano e con le sue televisioni erette a cimelio nella pubblica piazza; il silenzio delle nostre città soltanto apparente. A sparire sono stati i cittadini – Biuso parla di una primavera senza i corpi – ma non le televisioni che, con un palinsesto ormai ripetitivo e indifferenziato, hanno contribuito al dilagare di un’infodemia riduttivistica e talvolta persino inesatta ottenendo come unico scopo il plasmarsi e l’accrescersi di un’atmosfera apocalittica. 

«È sembrato davvero che fossero tutti morti. Spariti non certo nella lucidità del senso civico, improbabile, ma nelle bare della paura, nel feretro dei numeri ripetuti dalla televisione a ore fisse. Numeri ossessivi come i versi delle apocalissi» [9]. 

Ritorna di continuo nelle pagine di Disvelamento la convinzione che siano stati proprio questi dispositivi ad avere reso il virus conoscibile – e di fatto conosciuto – da parte di milioni di persone; un’affermazione sicuramente forte e impegnativa per coloro che al medium televisivo sono ormai assuefatti. Se ci riflettiamo però, quale sarebbe stato il nome di questa ‘malattia’ se la televisione non avesse suggerito quello di ‘Covid19’? Quale etichetta avremmo assegnato ai nostri sintomi se non fossero stati introdotti dei dispositivi salivari atti ad attestare la cosiddetta ‘positività al virus’? Forse ci saremmo accontentati di ‘influenza’, quella mediante la quale la più parte di noi avrebbe persino continuato le proprie attività quotidiane senza interruzioni a tempo indeterminato.

Invece, come in un esperimento di Orson Welles, ma con la televisione al posto della radio, e la realtà del Covid19 al posto dell’ipotesi solamente fittizia dell’arrivo dei marziani, gli spettatori si sono ritrovati a credere e quindi a obbedire – un ritorno all’ormai superato paradigma dell’ago ipodermico – a quanto veniva loro prima solo caldamente consigliato e poi anche imposto, trascurando così la base prima di tutto politica che sempre regola e orienta la cosiddetta agenda dei media e che fa della vicenda epidemica una vicenda non più solo sanitaria ma anche e soprattutto politica ed economica.

Un’esperienza, quella strettamente sanitaria, sulla quale abbiamo inoltre il dovere di riflettere. Perché le diverse misure attuate dai decisori politici, restrittive ma provvisorie, esigenti ma ‘necessarie’, hanno avuto tutte come compito primario di preservare la vita e scongiurare la morte, ottenendo però la morte a scapito della vita. Bisogna dunque intendersi sul senso con cui assumiamo la morte e la vita.

Catania, Piazza Teatro, 2020 (ph. Sarah Dierna)

Catania, Piazza Teatro, 2020 (ph. Sarah Dierna)

Non è la vita nella sua natura olistica che i decisori politici hanno scelto di ‘preservare’ ma una sua parte – quella biologica – che ci si è illusi di potere considerare autonoma rispetto all’unità psicosomatica che siamo, una concezione che Biuso giudica «assolutamente riduttiva e volgarmente positivistica della salute» poiché ha sostituito alla complessità dell’esistenza umana la sua mera immunità dal virus, «come se la solitudine, l’allontanamento dai propri cari, la distruzione dei legami sociali, la perdita del lavoro, la catastrofe economica, l’angoscia, non fossero cause scatenanti di gravi malattie» [10]. Di più. Da marzo 2020, quella dimensione biologica sembra possa ammalarsi o morire solo a causa del virus lasciando così cadere nell’oblio ogni altra possibile patologia e ritardando in questo modo diagnosi e cura di malattie altrettanto pericolose ed egualmente mortali (o forse un po’ di più). Stiamo assistendo senza averne piena consapevolezza, a una grave riduzione della vita a una sua sola parte, una nuda vita che per l’autore smette di essere persino vita per farsi morte: quella stessa dalla quale rifuggiamo, quella stessa che tutti noi già siamo per il solo fatto di esserci.

Recuperando gli esistenziali di Essere e tempo, Biuso delinea quindi la fisionomia originaria e costitutiva dell’esserci alla quale avremmo tuttavia rinunciato; una fisionomia che ci definisce come animali prima ancora che come Homo sapiens e, abdicando alla quale, si è finito per considerare ‘umano’ colui che preserva la salute e quindi la vita solo parziale del proprio soma, mentre ‘disumano’ colui che non fa della salute un bene supremo, ma del corpo che siamo una realtà più completa e articolata; come scrive Pierandrea Amato, disumano è 

«chi guarda oltre la propria salute dal momento che non si preoccupa di salvaguardarla come un bene supremo che protegge ciò che abbiamo di più prezioso: la vita […]. Un tipo del genere sarà considerato, non c’è da dubitarne, un non-uomo; sarà giudicato disumano chi è indifferente al problema della (propria) salute perché è costantemente impegnato a conquistarla» [11]. 

qqUna conquista che non passa solo per la ‘negatività’ al virus, ma che è il risultato sempre in fieri di una dinamica complessa che si consuma e si realizza nella trama del mondo del quale siamo parte, nell’abitare questo mondo consapevoli della nostra natura ontologicamente prassica, relazionale e finita e nel saperla adeguatamente fronteggiare. La vita è qualcosa di «molto più ricco, plurale e profondo»[12] e rinunciare a tutto questo in nome della nuda vita significa di fatto rinunciare alla vita. Perché alla fine, ci renderemo conto che «saranno più le vittime del fumo, della depressione, dei fallimenti economici che quelle causate dal Covid19» [13], e cioè ci ammalerà di più tutto ciò a cui abbiamo per lunghi mesi abdicato. Rispetto a tutto questo allora, «vale la pena tutelare a qualsiasi costo [la vita], pure al costo della vita»? [14]

Benché si insista molto sulla responsabilità dei decisori politici in quanto autori di queste scelte e assai meno sul ruolo determinante dell’obbedienza – sia da parte dei conformisti, sia da parte di quel «terzo elemento» a cui fa riferimento Davide Miccione [15] – che in fin dei conti ha reso davvero questo possibile, nella sua analisi Biuso cerca comunque di comprendere le cause di tanta passiva accettazione. È la gnosi a fornire una spiegazione plausibile: l’uomo si troverebbe «gettato nel mondo, stretto da limiti di ogni genere, sostanzialmente e inevitabilmente finito» [16] ma maschera in tutti i modi questa difficile condizione, cerca in tutti i modi di rimandarla, è disposto a tutto – anche a una servitù volontaria – pur di evitarla, dimenticando però che «la morte è dentro la vita, è un fatto della vita, che non proviene dall’esterno ma nasce dal di dentro, giorno per giorno» [17].

Una verità antica ed eterna che di Disvelamento e in generale della teoresi del suo autore diventa uno dei nuclei teoretici più profondi, che ha reso il potere così pervasivo e le masse obbedienti. Si è creduto che il primo fosse in grado di gestire l’emergenza sanitaria e di liberarci così dal pericolo di morire, che le seconde fossero per questo finalmente al sicuro, ma né l’uno né l’altro è possibile perché non contrarre la Sars2 non garantirà dal morire, perché «la vita universale, la, ζωή, [è] caratterizzata in ogni sua fibra, origine e modalità dalla insecuritas, dalla possibilità inerente a ogni istante di cessare, di chiudersi, finire» [18].

Anche la morte è un esistenziale dell’esserci colto come «l’orizzonte naturale del venir meno così come naturale è stato il venire alla luce» [19] e temerla «non impedisce di morire ma impedisce di vivere. Non di sopravvivere ma proprio di vivere» [20]. Si può essere morti in tanti modi. Vedere il mondo intorno dissiparsi, le relazioni diradarsi (alcune anche interrompersi), sentirsi abbandonati nelle proprie abitazioni, in attesa che finisca è sentirsi già un po’ finiti.  È un potere che non ha nutrito «alcuna pietà verso i bambini, i ragazzi, i più fragili tra i giovani. Un’ondata che impone isolamento, autolesionismo, anoressia, bulimia, suicidi» [21]. Sono numeri questi che la televisione non ci ha fornito ma una cosa è certa: dietro le cifre del Covid19, è vero, ci potremmo essere noi, ma dietro questi numeri periodici indefiniti ci siamo certamente anche noi.

C’è in Biuso una conclusiva nota di fiducia che tutto questo finirà. Finirà sicuramente l’epidemia da Sars-Covid19, riconquisteremo la vita a cui con costrizione o collaborazione ci siamo sottratti, ma resterà sempre prossima la possibilità di rinunciarvi finché non comprenderemo davvero in cosa consista la vita, finché non accetteremo davvero la finitudine. Senza comprendere la prima non la vivremo mai in tutte le sue dimensioni. Senza accettare la seconda non la vivremo invece con pienezza e totalità. Bisogna «riconquistare la tragedia, e dunque saperla accettare senza silenzi e senza disperazione» [22]. Bisogna ripensare la vita e ricomprendere la morte. Un compito difficile a cui la filosofia non ha mai rinunciato. Un compito necessario per vivere con consapevolezza, per vivere bene, per vivere e basta. E questo non solo oggi, ma domani e sempre. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022 
Note
[1] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, Algra Editore, Catania 2022: 13.
[2] Ivi: 129.
[3] Ivi: 141.
[4] G. Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 2012: 63.
[5] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, cit.: 21.
[6] Ivi: 18.
[7] Ivi: 19.
[8] G. Morselli, Dissipatio H.G., cit.: 98.
[9] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, cit.: 84.
[10] Ivi: 63.
[11] P. Amato, «Vita e conoscenza. Annotazioni per una lettura del terzo libro della Gaia scienza», in Metafisica dell’immanenza. Scritti per Eugenio Mazzarella, Vol. I Ontologia e storia, Mimesis, Milano–Udine 2021: 458.
[12] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, cit.: 117.
[13] Ivi: 30.
[14] P. Amato, «Vita e conoscenza. Annotazioni per una lettura del terzo libro della Gaia scienza», cit.: 458.
[15] D. Miccione, La scuola dei transumani, in Aldous. Blog di difesa concettuale, [https://www.aldousblog.it/single.php?id=108], (06.08.2022)
[16] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, cit.: 105.
[17] Ivi: 104.
[18] Ivi: 10.
[19] Ivi: 91.
[20] Ivi: 47.
[21] Ivi: 117.
[22] Ivi: 139.

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Sarah Dierna, studia Scienze filosofiche nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Si è laureata in filosofia con una tesi dal titolo Liberi di scegliere fino alla fine: questioni etiche e politiche su eutanasia e suicidio medicalmente assistito. Sulla rivista Vita pensata ha pubblicato una introduzione al pensiero del filosofo sudafricano David Benatar. Scrive anche sulla rivista Il Pequod.

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