populismo e demologia
di Francesco Virga
Nell’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei, l’antropologo Fabio Dei si è chiesto come sia possibile «ripristinare una demologia di taglio gramsciano» [1] in un mondo che sembra aver messo a dura prova tante categorie gramsciane. Il saggio di Dei merita una attenta lettura anche perché, oltre a passare in veloce rassegna alcuni studi che hanno messo a fuoco le profonde trasformazioni sociali e culturali degli ultimi anni, pone domande particolarmente stimolanti: «dove sta il popolo oggi? Come individuare la linea di demarcazione fra l’egemonico e il subalterno?» e conclude così:
«la sinistra non può rispondere all’attuale crisi dell’egemonia con una semplice critica al “popolo”, non abbastanza sofisticato, non abbastanza intelligente da distinguere i problemi veri da quelli falsi; fondamentalmente irrazionale, prono alla propaganda sciovinista che produce paure fittizie, incline a pensare, come spesso si dice, “con la pancia”. Non può sostenere che il “popolo” non esista, né che sia solo una finzione impugnata della destra; o che, invece, va bene solo se si adegua ai valori ritenuti corretti, progressisti, politicamente corretti. In questo senso, sia la politica sia (nel suo piccolo) la demologia hanno bisogno di una scossa populista per capire qualcosa della intricata e scandalosa situazione politico-culturale nella quale ci siamo trovati immersi senza ben saper come».
Riservandomi di tornare in modo più articolato ed approfondito sui tanti problemi sollevati dall’antropologo, in questo mio breve intervento voglio concentrare la mia attenzione sulla questione centrale posta: «dove sta il popolo oggi? Come individuare la linea di demarcazione fra l’egemonico e il subalterno?».
Gramsci nei suoi scritti usa poco il termine ‘popolo’. Soltanto nei suoi ultimi appunti scritti in carcere ne troviamo una chiara definizione, laddove precisa che per “popolo” deve intendersi «l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita» [2]. Non mi sembra casuale il fatto che questa definizione si trovi proprio nelle sue celebri Osservazioni sul ‘folclore’ che, a partire dall’ultimo dopoguerra, tanta fortuna hanno avuto negli studi demologici italiani. Lo stesso Dei, in un suo recente libro [3], ha dato una spiegazione delle ragioni della fortuna e del successivo declino di questi studi.
Indubbiamente le veloci e profonde trasformazioni della società italiana hanno contribuito a mettere in crisi alcune categorie gramsciane. La scomparsa, nel giro di pochi lustri, della millenaria civiltà contadina, in cui trovava radici gran parte della cultura popolare nazionale, non poteva non produrre effetti. Il boom economico prodotto dal disordinato sviluppo industriale del Paese, il consumismo e la mutazione antropologica degli italiani denunciati da un incompreso Pasolini [4], il proliferare delle mafie hanno fatto il resto. Per non parlare della rivoluzione informatica e della globalizzazione.
Appare oggi sempre più evidente che le classi dirigenti, specialmente in Italia, non hanno saputo governare i cambiamenti epocali avvenuti. E la maggior parte degli intellettuali italiani, con il loro conformismo e opportunismo, hanno fatto parte di questa classe dirigente e sono stati organici al sistema di potere esistente. Aveva ragione Pasolini di scrivere nel 1975:
«quando si saprà […] tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle elites colte italiane. E quindi la loro omertà. [...] Mai la distanza tra il potere e il Paese è stata più grande» [5].
La realtà è molto diversa da come spesso viene rappresentata. Intanto le “classi”, anche se diverse e molto più frammentate rispetto a quelle dei tempi di Gramsci, esistono ancora. E non credo che «le differenze tra le classi sociali dipendono più da elementi culturali che da elementi obiettivi»[6], come sostiene P. Sylos Labini, anche se gli elementi culturali contano e non vanno mai sottovalutati. Ma dove ha visto Luca Ricolfi la società signorile di massa? [7]
Una delle poche cose certe oggi mi sembra questa: la classe operaia non ha più, nel processo produttivo e nella società, la centralità che aveva prima. È questo dato di fatto ad aver indebolito il pensiero politico gramsciano e soprattutto la sua idea di partito. Anche per questo sbagliano, secondo me, quanti ancora pensano di trovare in Gramsci un prontuario per la soluzione di tutti i problemi odierni. Gramsci, come Marx, non ha predisposto ricette per l’osteria dell’avvenire. Anzi è Gramsci stesso in carcere a temere di non riuscire ad essere all’altezza del proprio tempo:
«Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è ‘anacronistici’ nel proprio tempo, che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi» [8].
Dobbiamo tenere presente costantemente questa domanda per non diventare fossili prima del tempo. Secondo me la dialettica gramsciana tra il polo egemone e quello subalterno della società è ancora uno strumento utile per comprendere il mondo di oggi. Non a caso, mentre in Italia si archivia Gramsci, nel resto del mondo fioriscono i cosiddetti ‘Subaltern Studies’ [9] che, fin dal nome, si richiamano allo studioso sardo. Per non parlare del successo mondiale del film coreano Parasite che mette in scena una modernissima forma di “lotta di classe” che conserva, comunque, tratti dell’antica guerra tra poveri.
Insomma, anche se tanta acqua è passata sotto i ponti della storia, continuano ad esistere classi dominanti e classi subalterne e le disuguaglianze sociali, invece di diminuire, crescono. A mancare oggi è soltanto quella che una volta si chiamava “coscienza di classe”; e questa coscienza manca soprattutto tra le classi subalterne proprio perché subiscono spesso l’egemonia delle classi dominanti.
È la realtà dei fatti e non una nostra fissazione a rendere ancora attuale gran parte dell’opera di Gramsci. Il suo stesso concetto di “egemonia” aiuta ancora a comprendere quello che accade sotto i nostri occhi. Oggi, infatti, anche attraverso la televisione, è la visione del mondo delle classi dominanti che viene ogni sera rappresentata e che il popolo, ossia le classi subalterne, fa propria.
Esemplare appare, da questo punto di vista, il metodo di analisi seguito dal pensatore sardo per descrivere i subalterni. Uno dei suoi ultimi Quaderni, scritto nel 1935, ha questo titolo: «Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni».[10] In esso si sofferma ad analizzare alcuni studi del suo tempo intorno alla figura di Davide Lazzaretti e a dare alcune importanti indicazioni di metodo. Gramsci coglie acutamente il difetto principale di tali studi:
«questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico» [11].
Ecco perché non si è compresa la ragione vera del successo avuto da Davide Lazzaretti nel 1870 tra i contadini e i pastori del monte Amiata, prima della sua brutale eliminazione fisica compiuta dagli apparati repressivi dello Stato. La verità è che si voleva nascondere il grande malessere sociale che regnava in Italia in quel periodo. La stessa cosa, aggiunge Gramsci, è avvenuta più in grande per il brigantaggio meridionale. Malessere sociale accresciuto anche dal fatto che, al Governo del nuovo Stato unitario, erano andate da due anni le sinistre suscitando nel popolo speranze e aspettative presto deluse.
È interessante anche notare l’attenzione prestata da Gramsci alla presenza di elementi e motivi religiosi nel movimento di protesta guidato dal Lazzaretti. Particolarmente significativo appare ai suoi occhi il fatto che la bandiera usata da Davide, nel corso delle sue manifestazioni, era rossa con la scritta «La Repubblica e il regno di Dio». E qui non si può non citare quanto aveva scritto due anni prima, in un contesto completamente diverso, anche per mostrare come, dietro la scrittura frammentaria del sardo, ci sia una unità ed una forte coerenza interna:
«la religione è la più gigantesca utopia, cioè la più gigantesca metafisica, apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica: essa afferma […] che l’uomo ha la stessa natura […], in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, […] e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (- utopico -). Così le idee di uguaglianza, di fraternità, di libertà fermentano tra gli uomini, in quegli strati di uomini che non si vedono né uguali, né fratelli di altri uomini, né liberi nei loro confronti. Così è avvenuto che in ogni sommovimento radicale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e ideologie determinate, siano state poste queste rivendicazioni» [12].
Tornando al Quaderno intitolato Ai margini della storia, rimasto purtroppo incompiuto, Gramsci, dopo aver notato che i gruppi subalterni subiscono quasi sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono, invita «lo storico integrale» a cercare e valorizzare ogni traccia di iniziativa autonoma dei gruppi subalterni. (ivi: 2283-4). Quanti storici hanno seguito il metodo di Gramsci per raccontare la storia delle classi subalterne?
In ogni caso Gramsci muovendosi nella direzione della “unificazione culturale del genere umano”, pur criticando il “senso comune” (dove spesso si depositano i pensieri egemoni) ha sempre avvertito maieuticamente l’utilità di partire da esso per superarlo. Da questo punto di vista è fondamentale l’idea gramsciana secondo la quale «tutti gli uomini sono filosofi»:
«Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia un alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono “filosofi”, definendo i limiti e i caratteri di questa “filosofia spontanea”, propria di “tutto il mondo”, e cioè della filosofia che è contenuta: 1) nel linguaggio stesso, che è un insieme di nozioni e di concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto; 2) nel senso comune e buon senso; 3) nella religione popolare e anche quindi in tutto il sistema di credenze, superstizioni, opinioni, modi di vedere e di operare che si affacciano in quello che generalmente si chiama “folklore”» (Q. : 1375).
È questa sua profonda convinzione che permette a Gramsci di guardare con fiducia alla possibilità che le classi subalterne si liberino dalla loro subalternità:
«È preferibile “pensare” senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè “partecipare” a una concezione del mondo “imposta” meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente (e che può essere il proprio villaggio o la provincia, può avere origine nella parrocchia e nell’”attività intellettuale” del curato o del vecchione patriarcale la cui “saggezza” detta legge, nella donnetta che ha ereditato la sapienza dalle streghe o nel piccolo intellettuale inacidito nella propria stupidaggine e impotenza a operare) o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorìo del proprio cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità?» ( Q. : 1063).
Tra le numerose incomprensioni dell’autentico pensiero gramsciano un posto centrale occupa l’accusa di populismo. Su questo punto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo del 1965, prese un incredibile abbaglio, mai abbastanza stigmatizzato, considerando populista la ben più complessa nozione gramsciana di nazionale-popolare. Gramsci non ha mai mitizzato il popolo e non l’ha mai considerato naturaliter progressista. Il sardo, con il suo spiccato realismo critico, ha semplicemente osservato che senza la partecipazione popolare nessun cambiamento potrà mai realizzarsi [13].
La cosa che rimane per me più viva e vitale in Gramsci è la sua serietà, la sua onestà intellettuale, la sua sobrietà. L’invito costante ad osservare storicamente e criticamente tutto e a respingere ogni forma di dogmatismo e di fanatismo. Le sue domande, spesso, contano più delle risposte. Il suo rifiuto di considerare il marxismo un formulario meccanico che pretende di avere tutta la storia in tasca. (Cfr. Q XI: 25). Ecco perché lo stesso Gramsci, nella solitudine del carcere, quando si sentì incompreso e tradito dai suoi stessi compagni, trovò la forza per superare i momenti di sconforto e scrivere:
«Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di genî incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori errori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà» (Q.: 2331-2).
E di questo mi pare che ci sia particolarmente bisogno oggi.
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Fabio Dei, Populismo e demologia, in Dialoghi mediterranei, n. 42, 1 marzo 2020.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III: 2312. Per una più completa visione della mia interpretazione del pensiero di Gramsci, rimando all’articolo Gramsci nel tempo della frattura tra élites e popolo pubblicato nel n. 36 (marzo 2019) di questa stessa rivista.
[3] F. Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, Bologna 2018.
[4] P. P. Pasolini, Scritti corsari, Einaudi, Torino 1975.
[5] Pasolini, Lettere luterane, Einaudi Torino 1976: 108.
[6] P. Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1986.
[7] Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La Nave di Teseo, Milano 2019.
[8] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, op. cit.: 1377.
[9] Erich Hobsbawm, Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo, Rizzoli, Milano 2011.
[10] A. Gramsci, op. cit.: 2277.
[11] Ibidem: 2279
[12] Ibidem: 1488
[13] Successivamente Asor Rosa ha corretto il suo giudizio.
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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012).
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