di Flavia Schiavo [*]
Guardando la città come un “testo visuale” – “la città è una scrittura”, ha sostenuto V. Hugo – è possibile riflettere su due città, Parigi e New York, anche esplorandodue rappresentazioni urbane:
- un “corto” (b/n, 9’,40’’) del 1921, intitolato Manhatta, opera di due statunitensi, Paul Strand (fotografo) e Charles Sheeler (pittore e fotografo);
- un corpus selezionato, tratto dalle fotografie di Eugéne Atget, fotografo francese che documentò Parigi in una fase coeva al decollo della modernizzazione e della globalizzazione della capitale francese.
Le immagini, quelle cinematografiche e quelle fotografiche, non solo mostrano due città differenti ma, agendo da “innesco” e rafforzando un processo in corso, mettono in luce aspetti esistenti e istituiscono due “paesaggi” umani e sociali, oltre che fisici, per certi versi dicotomici. Parigi e NYC configurano, così, una coppia oppositiva perchè un insieme di fatti, ideologie, discorsi, convergono verso direzioni differenti, in sintesi: il monumentale vs l’antimonumentale; la gestione urbana accentrata (il potere istituzionale) vs quella partecipata (le azioni degli abitanti) ante litteram.
Le forme di rappresentazione prese in esame appaiono significative in quanto raccolgono, agiscono, fondano e potenziano la natura urbana delle due “Capitali”, “natura” che, rimandando al milieu urbano nel suo complesso, richiama anche le modalità urbanistiche (i Piani) attraverso cui gli interventi di trasformazione furono condotti durante la maggior fase di crescita urbana della Rivoluzione Industriale.
I “Piani”, elaborati durante il XIX secolo, per Parigi e per New York, infatti, innescarono e consolidarono una specifica identità che:
- a Parigi si fonda sull’assertività delle scelte di trasformazione (il Piano è “opera unica” e autoriale di Haussmann e di Napoleone III), dalla quali i cittadini, tutt’al più strumenti manipolati, sono esclusi; dialoga in modo tensivo e conflittuale, nonché fortemente retorico con la storia pregressa, in parte recisa, in parte cancellata e modificata, proprio attraverso i Grands Travaux, rendendo l’assetto monumentale della città inequivocabilmente potente, innegabile, riconoscibile, percepito e duraturo nel tempo;
- a New York City si basa sia su un “piano” atipico, molto differente da quelli del Vecchio Mondo, privo di regole se non quelle della maglia degli isolati tracciata a terra, un semplice streetplan, sia su un differente processo di gestione, più apertamente conflittuale, tendenzialmente orizzontale e “partecipativo” ante litteram, in cui l’iniziativa individuale e i gradi di libertà e di azione dei singoli, nonché i livelli di conflittualità esplicita, e la sperequazione (il dominio del Capitale, degli stakeholders) che incidono sono più manifesti e rilevanti che a Parigi.
Le azioni urbanistiche di Haussmann a Parigi, infatti, agiscono per costruzione intenzionale di un “disegno” urbano e di un’idea preordinati. Incidono sulla città esistente, attraverso un modello d’ordine, con la pianificazione di sventramenti, diradamenti ed edificazioni; azioni coordinate che “piegano” lo spazio esistente e quello futuro all’ethos e al logos del potere istituzionale, al controlloe rafforzano la presenza di elementi monumentali, sia puntuali che a rete; generando, così, un’identità specifica, attiva a livello locale e globale, che viene percepita come altro da sé dai cittadini che non sono primi attori delle grandi trasformazioni, ma soggetti interni, manipolati e subalterni a una gerarchia tendenzialmente piramidale.
A New York, viceversa, la trasformazione, fin dall’insediamento dei coloni olandesi, configura un equilibrio in moto, un iter di formazione non pianificato e dunque caratterizzato da un apparente disordine (soprattutto se osservato da occhi europei) che, a partire dallacittà di fondazione, istituisce una precipua identità, basata sull’assenza di progetto unitario e sulla forza trasformativa, a tratti scardinante e imprevista, dell’iniziativa anche individuale e dei capitali privati, che potrebbe rimandare a un ethos molteplice. Una identità niente affatto figlia della storia e della continuità, né delle geometrie razionali proprie di un progetto organico, né tanto meno della monumentalità europea, pur “ammiccando”, in modo debole e solo in una certa fase, al modello organizzativo/formale del vecchio Continente.
La comparazione tra tali Universi, mostra in termini fattuali come due “retoriche” totalmente differenti, dotate di potere comunicativo per certi versi antitetico, abbiano dato vita a una città monumentale nel caso di Parigi e ad una città, NYC, che si potrebbe definire antimonumentale. E in termini simbolici mostra come la presenza di differenti metodi di “progetto” e di dissimili ruoli dei cittadini “nel” progetto, inneschi un feedback, una percezione e comportamenti differenti negli abitanti stessi; nel caso di Parigi assai meno primi attori delle modificazioni, nel caso di New York a volte (forse potrebbe dirsi spesso o “sempre” a prescindere dagli esiti) [1] con-partecipanti agguerriti in una arena di conflitti e di sperequazioni più dichiarati ed esplicitati.
Il “potere”– a Parigi più istituzionale e accentrato, distante dai cittadini, a New York più esplicitamente interconnesso con la sfera economica e più ramificato – espresso dalle due configurazioni spaziali osservate in un tempo di media durata, non solo si avvale di linguaggi dissimili e dunque di retoriche distinte e di diverse strategie “persuasive”, ma attiva una differente reazione degli abitanti sullo spazio urbano, manifestando antitetici modelli di trasformazione, di appropriazione e di uso dello spazio stesso.
Si tratta, comunque, di modelli diversamente assertivi: più pianificato, rigido, sacrale e “intoccabile” quello parigino; più fluido e variabile quello newyorchese, desacralizzato e assai meno inviolabile. Ed è proprio per comprendere tale biforcazione che diviene assai interessante comparare le due rappresentazioni urbane, prima citate: Manhatta e alcune tra le fotografie di Atget, queste ultime peraltro discusse e incluse nella lettura profonda che Benjamin elaborerà su Parigi (Capitale del XIX Secolo) ed esaminate e “portate” in America da Berenice Abbott, fotografa statunitense autrice di uno straordinario ritratto fotografico di New York ripresa durante i frenetici cambiamenti degli anni ‘30.
Un esempio assai significativo – qui affrontato in sintesi, che secondo questa visione conferma le argomentazioni sin ora espresse, relativo all’uso dello spazio nelle due città, e consente di costruire un fil rouge temporale per riflettere sugli effetti del “linguaggio” urbano otto-novecentesco – è quello della Street Art, diversamente presente e distribuita a Parigi e a New York. Forma d’arte “popolare” e meno elitaria e in diretta connessione con lo spazio urbano, la Street Art può esser osservata anche come una risposta contemporanea alle “retoriche” che ab origine e nel corso delle grandi trasformazioni della fine dell’Ottocento, le città stesse, intese come congerie culturale e teatro di differenti poteri, hanno posto in essere.
Manhatta
Manhatta, un documentario del 1921, fu realizzato da due esponenti del panorama culturale newyorchese, Paul Strand (nato nel 1890, a NYC) tra i maggiori fotografi americani (aveva studiato da giovanissimo con Hine) e fondatore della straight photography [2] in contrasto con la pictorial photography, il pittorialismo di A. Stieglitz, e Charles Sheeler (nato a Philadelphia nel 1883 e trasferitosi a NY nel 1919), pittore e fotografo.
Il primo (Strand) attento al ritratto umano nel suo rapporto con il contesto, alla geometria degli oggetti, al paesaggio urbano e industriale; il secondo (Sheeler) in grado di cogliere la contemporaneità e di restituire, su tela e con le foto, una nuova visione di bellezza, tutt’altro che classica: la duplice bellezza del progresso unita a quella “industriale”. Al “monumento” storico, alle tracce della memoria (care ad Atget) tale bellezza oppone il frammento industriale, lo spazio residuo e frazionato della città che cresce senza regole geometriche, tra gli interstizi.
Manhatta può essere considerato un primo esempio di cinema sperimentale in America e sicuramente il primo documentario sulla città che stava, in quella fase, affrontando l’impegnativa trasformazione sociale ed economica, iniziata a metà Ottocento, divenendo la prima città produttiva, un luogo metamorfico alla ricerca di un’Immagine trionfante ma non magniloquente che, testimoniando un ruolo egemone e non solo in America, fu ed è una delle sue componenti identitarie e retoriche più forti.
Il film, muto e breve (poco meno di 10 minuti), in un bianco e nero che rimanda all’espressionismo tedesco, pur rivendicando un proprio statuto formale, è il più rappresentativo tra i film che in quella fase raccontarono NYC ed è un singolare prodotto di quel modernismo che inaugura la decostruzione della prospettiva rinascimentale in favore di punti di vista molteplici e cinematici, fondando la veduta “mobile” di paesaggio del Novecento.
Il film – che contiene pure una serie di fotografie statiche in successione, intervallate da piani sequenza, a loro volta interrotti da altri “scatti” fissi – mostra il paesaggio della produzione newyorchese, sia tramite una visibile tensione tra le immagini e un testo verbale, tratto da alcune poesie di Whitman, sia tra la visione modernista e quella romantica del poeta ottocentesco che concepiva l’uomo in armonia con la natura e in forte antitesi con la corsa del Capitale, esprimendo una contraddittoria celebrazione di New York.
Il testo di Whitman, parte della struttura che mostra il paesaggio contrastante, è riportato su alcuni scatti che, nella porzione inferiore dello schermo, “fotografano” – trasformandolo in “icona” e nel contempo reificandolo – lo skyline urbano in cui sono riconoscibili alcuni icastici edifici: il Woolworth, la Singer Tower, City Hall, l’Equitable.
Il medesimo testo segna il passaggio tra un “capitolo” e un altro del documentario; caratterizzato da una cadenza poetica, il testo di Whitman dà un senso che funge da contraltare alle immagini che, tutt’altro che romantiche, sono dirette ed esplicite, a tratti dure.
Il contrassegno poetico e l’afferenza tra le immagini, soprattutto quelle di Strand e la poetica di Whitman, si ritrova in alcuni lavori giovanili del fotografo, come The Blindman (1917) e si riflettono nell’incontro con un altro poeta, William Carlos Williams, di cui entrambi gli autori (Strand e Sheeler), dopo il 1925, diverranno amici, condividendo con lo scrittore nativo del New Jersey una specifica distanza dall’estetica e dal linguaggio mutuati dalla cultura europea: il frammento vs la continuità, il rapsodico vs l’epico.
In tal senso il film del ‘21, che manifesta una matrice innovativa, si pone quale intermediazione tra la nuova estetica urbana e la concezione dell’intero cityscape. Punta, infatti, idealmente a integrare le innovazioni tecnologiche con l’ambiente e con le atmosfere naturali, mostrando chiaramente l’ambigua condizione newyorchese, ma ancor di più celebrando tale ambiguità, esibita come fattualmente risolta, anche attraverso il palese dissidio tra la presunta integrazione tra la poesia di Whitman e la nuova visione modernista del XX secolo. Il cui esito – il paesaggio urbano e i suoi oggetti e soggetti reali in azione – hanno valore concreto e metaforico: le persone, i workers e i commuters; i getti onnipresenti di vapore (che conferiscono movimento alle immagini e rimandano alla vitalità della produzione); l’acqua; l’Elevated e i treni (oggetti onnipresenti di quella contemporaneità); i Ponti, uno per tutti l’iconico Brooklyn Bridge; il Porto, massima icona di seduzione di Whitman; le grandi Navi a vapore, come la Mauritania o l’Aquitania che solcavano l’Atlantico, trasportando migranti; e, soprattutto, gli skyscrapers e gli spazi interclusi, stretti e irregolari, in essi: i nuovi “soggetti” urbani, antimonumenti del danaro, che inaugurano un paesaggio fortemente difforme da quello europeo. Esiti pregnanti del Capitale, inseriti in tre ambiti distinti della pellicola, scandiscono la struttura narrativa, oggetti che sembrano vivere per sé, quasi a prescindere dell’umano controllo: l’uomo, con la Rivoluzione Industriale, è infatti subalterno rispetto alle dinamiche di produzione, la macchina lo sostituisce, mentre il grattacielo manifesta l’opulenza economica e l’ardimento tecnico, occupando lo spazio della città, deridendo l’ordine del microcosmo del Vecchio Mondo, fatto di distacchi, allineamenti, cannocchiali ottici, altezze preordinate, geometrie gerarchiche.
Manhatta, considerato nella sua interezza, risente della diversa formazione degli autori (che si incontrarono nel 1917 a Philadelphia): Strand [3] dalla fotografia, Sheeler dalla pittura e dalla fotografia. I due divennero amici a NYC dal 1919, quando il pittore si trasferì a New York. Entrambi, che coltivavano l’amore per l’astrattismo e per i geometrici pattern urbani contemporanei, lavorarono al film su NYC dagli inizi del 1920 fino al settembre dello stesso anno, a partire da una serie di scatti tutti fortemente disassati, presi dall’alto e dal basso (i due punti di vista che originavano dal nuovo paesaggio newyorchese), cioè dai tetti di alcuni edifici alti e dalle strette strade in Lower Manhattan, includendo grosso modo gli isolati compresi tra l’area di Battery Park, lo Staten Island Ferry Docks, Wall Street, Trinity Church con il suo cimitero e il tessuto immediatamente circostante che comprendeva neonati edifici, come l’Equitable, altissimo e descritto visivamente nel film con grande cura.
L’arrivo del Ferry da Staten Island, sequenza posta all’inizio, è una delle scene più intense del film, mostrando la moltitudine dei commuters – di cui sembra di sentire il fragore, l’onda, il frastuono – che sbarca dal Ferry, pronta a essere inghiottita dalla città. Un “archetipo” urbano, delicato e sensibile, che diventerà ricorrente nell’iconografia newyorchese: la Folla, un agglomerato umano che scende dal Ferry, dopo la sequenza che incornicia lo skyline, muove nello spettatore un potente senso di identificazione e di sgomento, acuito dalle successive immagini che, inquadrando le strade, trascinano lo spettatore nel gorgo urbano.
Il titolo originale del film, New York the Magnificent, di natura più commerciale e che enfatizzava gli aspetti estetici e scenici della città, fu prima cambiato in Fumée de New York (durante una presentazione del film a Parigi, nel 1922); nel 1927, quando il film fu proiettato alla London Film Society, acquisì il suo titolo definitivo Manhatta, che parafrasava il whitmanianoMannahatta (1860) [4].
La prima proiezione si tenne a NYC, il 24 luglio 1921 nel Rialto Theater a Broadway, per una settimana. Dalla critica del periodo il documentario fu riconosciuto come l’applicazione di un’indiscussa abilità interpretativa, integrata alla tecnica fotografica e ai complessi problemi del “neonato” cinema: il risultato produsse l’inizio dell’avventura della nuova arte che, in questo caso, eludendo ogni storia umana specifica, non presentava eroi o antieroi riconoscibili (come in The Crowd) [5], né plot, distinguendosi, inoltre, dai tipi di narrativa commerciale prevalente in quella fase e da quella pictorial photography sino a quel momento dominante, fortemente associata all’opera di Alfred Stieglitz che presentava alcune analogie con la cifra di Atget. L’obiettivo dei due autori del film era, viceversa, registrare la condizione “reale“ di New York.
Come molti lavori dell’avanguardia americana Manhatta è insieme modernista, romantico e innocente e presenta la città mostrando con un lungo piano sequenza lo skyline di Lower Manhattan, l’Hudson e l’East River, includendo: City Hall, il Woolworth, la Singer Tower, l’Equitable, il Brooklyn Bridge e il Bankers Trust Company Building (oggi noto come 14 Wall Street), la cui “testa” fu ed è tra le più rappresentate e che nel film acquisisce una sostanziale forza: una sorta di sineddoche visiva in primo piano che rimanda all’edificio intero.
La lunga ripresa iniziale dei grattacieli, dal deck dello Staten Island Ferry, mette in evidenza l’ambito unificante dello skyline, entro cui i singoli edifici intrattengono una relazione spaziale, subordinata all’insieme. È infatti la totalità ripresa da un punto di vista centrale in scorrimento, su tre scatti successivi, che recupera – prendendo a prestito il distanziamento della prospettiva rinascimentale e la Veduta urbana – l’interezza della riva che si offre all’occhio.
Il film, nel suo complesso, rende conto della discontinuità, della porosità e dell’eterogeneità dello spazio newyorchese e, pur distaccandosi dalla visione di Stieglitz, Manhatta riprende alcune tra le immagini del fotografo, stravolgendo però l’aura di malinconia onirica che le innervava; tra esse The Ferry Boat o City of Ambition. L’opera cinematografica è, difatti, decisamente autonoma e la sua importanza risiede anche nell’avere registrato, nonché istituito, secondo un metodo innovativo, il landscape urbano newyorkese del Novecento: l’Icona celebrativa fondata all’intersezione tra la bellezza poetica dell’energia naturale dei Trascendentalisti e la nuova bellezza della macchina, propria dell’avanguardia novecentesca, concepita in forte distacco con l’estetica urbana europea.
Il passo ritmico della Metropoli è scandito dal testo di Whitman, niente affatto antiurbano o nostalgico che, con una qualità fermamente visiva, materializza la città con la quale egli intratteneva un rapporto di profonda ambivalenza: un paradiso dotato di potenziale democratico e una trappola. Emozione ambigua fortissima, questa, che si riflette nella critica verso il Capitalismo, la fascinazione e l’orgoglio nei confronti del Progresso, la cieca fiducia nei confronti dei workers, la celebrazione della città e dei suoi abitanti aggregati, abbracciando quel modernismo che nel tempo il poeta avrebbe più fortemente aborrito [6].
Il testo incluso in Manhatta, tratto essenzialmente dai primi scritti di Whitman (1856; 1860) riflette il primo amore del poeta per il porto, i fiumi, le differenti «razze», per la poderosa energia urbana e per gli oggetti evocativi: le banchine, le barche, le merci, le navi che erano per Walt Whitman segni di un progresso di cui essere orgogliosi, anche se sintomo del peggiore e antidemocratico Capitalismo che il poeta criticherà più avanti, e aspramente [7].
È nel testo poetico utilizzato da Strand e Sheeler, prima ancora che nelle immagini cinematografiche, che compare il tentativo di integrare la Natura prima della città, con la sua Natura seconda: il mare, il sole e le nuvole interconnesse con gli elementi antropici, raccontano la città come uno spazio metaforico che ambisce a tenere insieme le contraddizioni, osservate da Whitman nella duplice veste di cittadino e spettatore sociale, riscattando attraverso l’energia “sacralizzata” dei workers il sordido dell’era delle macchine. Entrambe le componenti, la naturale e l’antropica, sono potenti e integrate, secondo l’occhio dei due fotografi e del poeta: i due fiumi, la bocca del Porto protetta da Staten Island, le discontinuità dell’arcipelago che generano luoghi dai quali guardare Manhattan.
Le fotografie di Strand, forse più delle opere pittoriche di Sheeler, diedero un’impronta vivida al film: alcune più indicative, come Fifth Avenue at 42nd Street del 1916, che punta lo sguardo sulle persone, sebbene depotenziate rispetto alla celebrazione di Whitman (da soggetti “romantici” a oggetti organici, sagome strumentali all’accrescimento del Capitale), altre, successive, orientate a costruire un ritratto urbano dotato della stessa lucida visione che si ritrova nel film. Tra esse: The Court, del 1924 (dove Strand riprende una delle immagini di Manhatta), fotografia che racconta, con un solo frammento, la struttura urbana ponderosa, la città materica e nitida che si staglia, confutando la visione estetizzante esibita dalle immagini di Stieglitz, attraverso il disassamento dei punti di vista non dettati da una concezione estetica sovraordinale (come accadeva a Parigi), ma dalla natura evolutiva della città [8]. Il titolo, The Court, che rimanda a un luogo storico della città europea, una porzione intima, nascosta e abitata, corrisponde invece a NYC con l’angusto e profondo spazio scuro, interstiziale, in cui non penetrava la luce, tra le massicce, alte e incombenti masse dei grattacieli, nello spazio conteso della città addensata.
Anche tra le opere di Sheeler, fotografo oltre che pittore, e il film esiste una continuità, nei disegni e soprattutto nelle foto: New York, un’immagine del 1920 (da cui trasse un olio del 1922), ritrae il paesaggio urbano preso dal Woolworth verso il Park Row Building, mettendo in relazione due degli edifici più alti appena costruiti, e puntando lo sguardo verso la recente cortina sorta durante l’esplosione dei Giornali in città. Church Street El, del 1920, è un altro olio di Sheeler che anticipa il linguaggio del paesaggio urbano, colto nel film. A dimostrare la continuità e l’autenticità della loro opera, uno dei fotogrammi conclusivi di Manhatta viene ripreso da Sheeler, nel 1935, in un olio, Totem in Steel, che trasferisce, come una citazione visiva su tela, lo scatto che riprendeva lo scheletro di acciaio di un edificio in costruzione. Il termine “totem” mostra sia come fossero considerate le nuove costruzioni in rapporto all’articolazione urbana, sia quanto l’attenzione di Sheeler, che aveva peraltro lavorato per la Ford Motor Company [9], venisse sollecitata dall’estetica della produzione.
Di tale estetica Strand e Sheeler furono inventori e interpreti, mostrando quanto essa potesse non solo competere ma rivendicare una precisa autonomia, in rapporto a un’altra estetica di matrice europea che celebrava la Permanenza, la Stabilità, il Monumento e la Storia, declinando il cambiamento sempre in opposizione con tali capisaldi. Nel paesaggio urbano, fatto di solidi, linee spezzate, piani non contigui, Strand soprattutto inserisce le persone, rompendo, attraverso il movimento vitale, le astratte composizioni e mostrando quanto la geometria ideale diventasse reale solo se abitata. Un aspetto interessante del film è dato non solo dall’articolazione complessiva, ma dal cogliere – con un’azione che decompone e ricompone – la struttura del paesaggio urbano, reso come un dinamico assemblaggio di forze e di oggetti che sollecitano, quasi impongono, sguardi orientati secondo visuali inconsuete, angoli sghembi, scorci, grandi altezze che spingono a guardare giù e, se in strada, a guardare verso l’alto, dove differenti piani si frappongono tra l’occhio e la strada e tra l’occhio e il cielo, oggetti materici, come i coronamenti dei grattacieli, magneti, oggetti trasparenti, come i binari dell’Elevated, oggetti consistenti come alcune facciate, oggetti mobili e multipli come i treni in corsa, o le persone in movimento.
Un paesaggio urbano che oscilla tra oscure relazioni spaziali e una fascinosa chiarezza data dalla frammentazione che nega la prospettiva classica che gli stessi autori decostruiscono intenzionalmente nel film. Manhatta interpreta, allora, la tensione trasformativa insita nell’Isola, mentre i suoi autori – due autentici insider – si lasciano guidare, permeabili, dallo stesso paesaggio che in quegli anni si stava organizzando.
Non esiste, nel film, un giudizio morale, nessun atteggiamento riformista, nemmeno quando si intuisca una demolizione di un edificio esistente, o quando si mostri un cantiere aperto e gli operai al lavoro in rischioso equilibrio su una trave di acciaio, o quando si percepisca il ritmo ipnotico del danaro in azione; esiste uno stile complessivo, semmai, teso a rendere vivida e osservabile la sconcertante e ineluttabile bellezza degli esiti di quelle azioni, futuro e American dream ante litteram sono capisaldi del documentario.
La sequenza finale del film mostra gli elementi naturali, il fiume, la luce radente del sole, le nuvole trasparenti. L’inclusione dei fenomeni naturali tanto cari a Whitman punta verso una riunificazione iscrivendo la tecnologia e l’urbanizzazione nell’immagine naturalistica, quasi a negare che il Capitalismo rampante puntasse su individualismo e soggettività, su erosione delle risorse e delle persone e su una feroce antropizzazione, corrodendo ogni immagine pastorale o idilliaca, peraltro connessa a un paesaggio classico di matrice europea, assente in America. Tale perfetta sintesi, semmai presente nelle fotografie di Stieglitz che idealizzavano la società, la tecnologia e la natura in una sorta di unità cosmica, è negata dal film che, viceversa, mira a rappresentare le spietate azioni indotte dal Capitale e lo stupore e l’emozione umana di fronte alla città che cresce.
La Parigi di Atget:“ the realism unadorned”
Eugéne Atget, nato nel 1857 e morto nel 1927, divenne fotografo a circa quaranta anni, quando Parigi aveva già vissuto la scossa d’inizio della rivoluzione haussmanniana e stava trasformandosi nettamente sia riguardo alla morfologia urbana sia riguardo all’estensione. I dintorni, infatti, – spazi noti ad Atget che era un uomo colto – erano stati già annessi configurando l’incipit di quella che poi diventerà l’estesa metropoli parigina.
Atget per trenta anni circa ritrasse la città, producendo più di 10 mila grandi negativi, 18 x 24 cm. In parte tali scatti furono frutto di una spontanea esigenza, altri furono invece commissionati da artisti, capitani di industria, urbanisti, architetti, topografi, biblioteche o nostalgici cultori di un passato messo così bene in evidenza dalle sue fotografie. Egli aveva lo studio in Rue de Montparnasse, asse del quartiere omonimo, ombelico culturale frequentato da artisti come Picasso, Soutine, Modigliani, Pascin, Léger, Apollinaire, Rousseau il doganiere, Chagall, Duchamp, Suzanne Duchamp-Crotti, Brâncuși, Rivera, e ancora Giacometti, Breton, Dalí, o da scrittori come Sartre o musicisti come Reinhardt.
A questo elenco potrebbe aggiungersi un’ulteriore schiera di uomini e donne attivi sul piano culturale, francesi e non che, come Mirò, cercavano un luogo, qual era ancora Parigi, Capitale del XIX secolo, dove sperimentare la fase dell’Avanguardie, dell’incontro con altri autori, tra conflitti e condivisione, e dove fosse possibile vivere concretamente quell’esperienza culturale della modernità, propria del Novecento. Tra essi, alcuni americani, non solo appartenenti al mondo della letteratura, come Hemingway, Fitzgerald, Pound, Miller, ma anche dell’arte. Tra essi Berenice Abbott che, giunta a Parigi nel 1921 come scultrice, fu assunta da Man Ray, Emmanuel Radnitzky il suo nome all’anagrafe, il grande fotografo nativo di Philadelphia, che aveva completato gli studi a New York. Egli, con Duchamp, formò il ramo statunitense del movimento Dada, esploso in Europa quale confutazione dell’arte tradizionale. Dopo alcuni insuccessi in America, il movimento infatti non attecchì (lo stesso Man Ray sostenne che «il Dada non può vivere a New York»), e post pubblicazione dell’unico numero New York Dada, nel 1921 (lo stesso anno in cui uscì Manhatta), entrambi, pur con alcune ritrosie, si trasferirono a Parigi.
Oltre alla sua produzione artistica Man Ray divenne famoso come fotografo, come ritrattista di soggetti come: James Joyce, Gertrude Stein, Jean Cocteau. Man Ray fu un tramite tra la Abbott, che si ritrovò fotografa (la sua prima mostra fu tenuta nel 1926), grazie all’attività condotta in studio da Ray, e Atget, scoperto dallo stesso Man Ray nel 1923. Questi mostrò i lavori del francese all’americana, colpita dalla cifra stilistica di Atget, da quel disadorno concreto modo di raccontare Parigi, in quelle immagini cristallizzata tramite la rievocazione di un tempo dissolto. L’aura urbana sottile, le strade sovente disabitate, gli scatti esterni al tempo cronologico, i dintorni, i soggetti isolati e spesso centrali, quasi iconici, come fossero tipi o “monumenti” umani, non solo furono per la Abbott elementi di seduzione ma influirono sul lavoro di questa, una volta ritornata a New York e impegnata nel proprio progetto fotografico, Changing New York, oggi alla NYPL, un insieme di migliaia di scatti, un atipico ed estesissimo ritratto di NYC elaborato durante gli anni ’30 e pubblicato nel ‘39.
Affascinata dalle foto di Atget, la Abbott ne acquistò numerose, mentre viveva a Parigi, alcune erano di proprietà dello Stato francese, altre di Les Monument Historiques. E fotografò Atget nel 1927, poco prima che egli morisse, restituendo l’intenso ritratto di un uomo anziano, spigoloso e quasi calvo, con gli occhiali tra le dita, quasi a indicare che lo sguardo fosse l’essenziale tra i suoi sensi. La Abbott intorno a quella fase iniziò a promuovere il lavoro del fotografo, definendo con una frase sintetica ed efficacissima i paesaggi parigini ripresi per un trentennio, e nella sua interpretazione dotati di “realismunadorned”.
Tra il 1929 e il ’38, oramai a NYC, Abbott documentò, decisamente influenzata dallo stile di Atget, la sua città, pur tanto dissimile da Parigi, registrando la old New York prima che alcune costruzioni fossero demolite per far posto ai nascenti colossi, post Great Depression. Dal ’34 al ’58 Berenice insegnò fotografia e dal 1935 al ’39 fu supervisor per il Federal Art Project del già citato Changing New York. Nel 1968 la fotografa americana vendette l’Archivio Atget al MoMA di NYC, prima del suo definitivo trasferimento nel Maine.
La prima pubblicazione in un cofanetto rosso delle opere di Atget apparve, dunque, a NYC nel 1930, contemporaneamente all’allestimento di una mostra di sue foto nella Weyhe Gallery, in Lexington Avenue. Il piano terra era una libreria, mentre al secondo si trovava uno spazio espositivo che ospitò moltissimi autori, americani e non, come Hopper, Stieglitz e Rivera.
L’interesse per le fotografie di Atget era iniziato intorno agli anni ’20, soprattutto dopo la morte del fotografo: le opere erano spesso diffuse su riviste culturali di avanguardia. Quattro immagini in particolare furono pubblicate su La Rèvolution Surrealiste, una divenne famosa, era la copertina del n.7 della rivista, e fu intitolata da Man Ray, The Eclipse, del 1912 (poi Les Derniérs Conversion). Atget chiese che l’immagine – un gruppo di persone con gli occhi al cielo intente a guardare una eclissi – non riportasse il suo nome, sfuggendo in un certo senso alla rivendicazione autoriale della propria opera che, per lo stesso fotografo, era soprattutto documentaria.
La fortuna del repertorio fotografico di Atget proseguì quando nel 1929 il mensile Le Crapouillot editò un numero monografico su Parigi, la cui copertina, proprio di Atget, riproduceva Notre Dame, tra i rami di un albero, in una cristallizzata silenziosa atmosfera, in cui il tempo non pareva incidesse, priva di quel clangore che erompeva da Manhatta. In quegli anni NYC stava vivendo uno tra i crash più tragici della sua economia. E nel contempo stava preparando una clamorosa revanche che vide sorgere tra i più imponenti grattacieli, quei motori dell’economia, quei mastodonti urbani che, pre e soprattutto post Great Depression, cambiarono il volto della città denotandone il ruolo e l’ascesa economica.
Due mesi prima, nel marzo del ‘29 in Le Crapouillot, Mac Orlan aveva pubblicato un saggio breve di grande interesse, Elements of a Social Fantastic. In un linguaggio poetico il critico esplorava il ruolo della fotografia quasi fosse una variazione del mezzo letterario, una testimonianza esemplare, l’“essenza” dello spirito di un luogo; riflettendo sulle profonde connessioni tra fotografia e morte e utilizzando le foto di Atget, una litografia di Daumier, una foto della polizia di una camera da letto macchiata di sangue, costruendo un discorso che intendeva mettere in luce il ruolo della fotografia contemporanea: un potente documento. Tale qualità delle foto di Atget, discussa poi da autori imponenti, come Benjamin, fece dello stesso fotografo un precursore della fotografia documentaria contemporanea.
Nel 1929 la Abbott selezionò undici fotografie di Atget per Film und Foto, una grande mostra itinerante del cinema moderno e della fotografia che si inaugurò a Stoccarda. Il catalogo si apriva con un’opera di Atget, Corsets, Boulevard de Strasbourg (del 1911): la contem- poraneità sospesa, il ritratto enciclopedico e idiosincratico di Parigi e dei suoi dintorni, oltre a essere un acuto documento, trascendeva la stessa intenzione dell’autore.
Lungi dall’essere l’esito meccanico di uno scatto, la fotografia ai tempi della sua nascita richiedeva, così come l’opera artistica, una serie di scelte espressive implicite ed esplicite, compiute dallo stesso fotografo. Chi osservi le immagini di Atget, pur rilevando tale intelligenza artistica sottesa, è chiamato a una attiva contemplazione delle immagini prive di tempo cronologico. Una avventura sensoriale totalmente diversa da quella sollecitata dal corto del 1921 di Strand e Sheeler, che egualmente ma con esiti diversi mostra come alcuni documenti trascendano il proprio contrassegno primario suggerendo allo spettatore molto più di quanto essi stessi non volessero dire. Superando la funzione iniziale – come disse Benjamin, e possedendo un inconscio ottico, luogo segreto dove il documento si scardina – aprono ad altre sollecitazioni che trasportano l’immagine nel mondo dell’arte.
Walker Evans in in un suo articolo del ’31 esplicitò tale eccedenza e il portato non del tutto chiaro delle foto di Atget, fortemente evocative. Nel ’31 Benjamin nella Piccola storia della fotografia rifletteva sulla pregnanza del mezzo fotografico, prima che esso iniziasse la deriva populista, ragionando su quanto la fotografia inaugurasse una “terza fase” in cui i documenti potessero costituire “archivi” non convenzionali di ridotte dimensioni, in forma di libro per spettatori attenti alla storia sociale, manifestando così una affinità tra la propria produzione e quella riconosciuta alle immagini. In grado di mostrare una ulteriore contro-storia della modernità fatta di appunti, impressioni, attraversamenti, dettagli minori e frammenti effimeri.
Atget in tal senso era rappresentativo per il suo essere interprete di un tempo intermedio tra passato e contemporaneità. Ma le sue immagini, anche se Parigi non si trasformava con la velocità newyorchese, erano anacronistiche e rifiutavano la distruzione della Vieux Paris, la capitale nella sua forma pre-rivoluzionaria del XVIII secolo. L’affezione di Atget per la vecchia Parigi era stata linfa della sua pratica: sul suo biglietto da visita era scritto “E. Atget, Creatore di una Collezione di vedute fotografiche della vecchia Parigi”.
Da esse trapelava una città quasi esterna al progresso piuttosto che quella emergente proiettata nel futuro. Una visione contraddittoria: la modernità veniva eclissata, nascosta in una costruzione estetica in antitesi con la Capitale della modernità, NYC, e con la sua rappresentazione filmica del 1921. Il tema della memoria e della amnesia strumentale in Atget era fondamentale, tanto quanto tali nodi erano sussidiari a NYC e in America, dove la elisione della storia era stato un atto deliberato. La Rivoluzione Industriale anche in Europa aveva eroso la Storia e il Capitale l’aveva trasformata in un oggetto utilitaristico, selezionando il passato solo se fosse utile a mantenere un dominio socio-economico.
Ma il “frammento” di Benjamin come quello visivo di Atget cercavano, anche facendosi “sistema”, una frantumazione del continuum borghese: Parigi, quindi, era raffigurata dal fotografo non com’era negli anni in cui fu ritratta, ma come era stata, prima dello shock haussmanniano: alcuni oggetti urbani figli di quel progetto non furono mai fotografati da Atget che in un certo senso selezionava e percepiva in rimozione eludendo lo straniamento della modernità novecentesca.
La “pelle” urbana: segni e graffiti sui muri
La comparazione tra il corto del 1921 e le foto di Atget apre uno spazio di riflessione sull’immagine cinematografica e fotografica; “testo” visivo che, con efficacia, agisce con una precisa retorica, istituendo un duplice canale: il rapporto dell’immagine con il fruitore e un diverso rapporto del fruitore con lo spazio. Le immagini traducono un pensiero creativo sulle due città, ponendo lo spazio al centro. “Spazio” non solo inteso in senso fisico, ma rappresentato, pensato e “sentito” quale luogo della concreta esperienza umana della modernità. In tal senso l’immagine non va guardata solo per la sua vis esornativa, ma come dispositivo strategico e artistico che, tra esplicito e implicito, esprime l’umana esperienza e la condizione evolutiva di essa nel tempo.
Sia il corto di Strand & Sheeler, sia le immagini di Aget (che in un certo senso l’influenza di esse sul “ritratto” fotografico di Abbott di New York), sia un’ulteriore forma d’arte in bilico tra azione e rappresentazione: i muri graffiati e la Street Art nelle due capitali in epoca contemporanea, sono un insieme che determina un discorso interrelato, interconnesso, di forte energia comunicativa; una struttura argomentativa osservata in un periodo medio-lungo che accoglie e rappresenta, usando tecnica e intuito, attivando logos e pathos insieme. Tale intreccio agisce non unicamente nel tempo diacronico della produzione, ma libera potenza trasformativa, come un vettore esploso, influenzando le azioni delle persone, dagli abitanti ai commutersai cityuser occasionali, agli “artisti”, agli “spettatori”, anch’essi attori urbani.
Planando, quindi, sul presente la Street Art, sia a Parigi che a New York, ha un valore rilevante nel mostrare come il passato – dai Piani ottocenteschi, all’azione comunitaria, alle rappresentazioni – contraddistingua e impianti nuovi percorsi di azione urbana, molto diversi nelle due città. Parigi e New York, difatti, mostrano come, nella eterogenea distribuzione e presenza della Street Art e del differente ruolo di essa, l’icona ottocentesca del landscape in entrambe le città, più formale nella capitale francese e “diversamente” formale nella metropoli americana, generi una differente reazione e azione degli abitanti.
Le scelte urbanistiche del Piano Haussmann condotte a partire dal 1853, scelte che si innestano su un tessuto urbano caratterizzato da una morfologia medievale, ma già segnata dagli interventi organizzativi dei secoli XVII e XVIII, forniscono e potenziano l’assetto monumentale in nuce della capitale francese: diradamenti, sventramenti, evidenza di edifici monumentali esistenti ed edificazione di nuovi, cannocchiali ottici, allineamenti, piazze disegnate e geometriche, uso di materiali tendenzialmente omogenei, colori e altezze altrettanto controllate, boulevard. La città francese viene riorganizzata attraverso un progetto complessivo in un assetto che potrebbe definirsi “hard”. Più solido, materico, invariabile, anche se trasformato nel tempo, spesso con la logica del projeturbain, lo spazio parigino appare e viene percepito come più stabile, più imponente e maestoso. L’intervento comunitario pur presente nella pratica urbanistica francese, e specie in epoca contemporanea, mostra comunque caratteri differenti rispetto a quelli messo in atto a NYC. Se in quest’ultima città la popolazione si aggrega spontaneamente, convergendo intorno alla realizzazione e gestione di “obiettivi”, a Parigi le pratiche partecipative mostrano un’organizzazione più formalizzata che con fatica muove realmente dal basso.
New York, la cui trasformazione è caratterizzata da dinamiche più fluide e più apertamente conflittuali, ci invita a riflettere sul concetto di “struttura urbana” emergente secondo un’altra modalità di formazione rispetto a quella delle città europee del periodo. Tutt’altro che soft la modificazione urbana newyorchese, decollata circa dalla metà del XIX secolo, e non certamente diretta dal Plan del 1811, presenta altri caratteri: saturazione e sostituzione, apparente disorganicità, espansione in aree non contigue, cancellazione di alcuni elementi monumentali di matrice europea edificati alle soglie del XIX secolo e rifiuto quasi totale del modello del City Beautiful, difforme concezione del “monumento”, differente gestione urbana, sia a livello dell’interazione tra Istituzione e popolazione, sia per quanto riguarda il “disegno” degli spazi, proliferazione degli “interstizi”, porosità dello spazio, eterogeneità degli interventi, dei materiali, dei colori, degli elementi decorativi, assenza di una inequivoca gestione piramidale delle decisioni (molte delle scelte furono, infatti, prese e proposte dalla “base”, es. il Central Park), differenziazione morfologica delle parti non programmata da un Piano, assenza di vincolo (se volessimo esprimere in sintesi un processo complesso) delle altezze, e presenza di altri monumenti, tra essi i Grattacieli quali motori urbani di trasformazione ed esito della presenza di un Capitale rampante, finanziario, immateriale ante litteram, non fondato sulla produzione industriale e sulla fabbrica.
Oltre o forse in virtù di tale differente retorica comunicativa, risultato di tali processi, espressi qui in estrema sintesi, i “segni”, i graffiti sui muri, decisamente più diffusi a NYC, e distribuiti in quasi tutta la città, sono a Parigi meno presenti e localizzati in specifiche aree (es. il quartiere di Belleville o, in centro, dietro gli angoli dei boulevard, in quartieri meno segnati da una presenza monumentale, o negli interstizi del centro) e sono più frequentemente opera di artisti accreditati. Questa notazione apparentemente innocente, evidenzia piuttosto un “esito” che, sul tempo medio di circa due secoli, può essere connesso a quanto già esplicitato, quale espressione dalla “filiera” costituita dai due distinti “corpora” visuali (reputati fortemente rappresentativi: Strand/Sheeler; Atget), dai progetti urbanistici, e dal concreto fare umano. In altri termini da una “organizzazione” culturale delle città e dalla loro natura comunicativa.
La riflessione, infatti, sottolinea l’interrelazione e il feedback esistente tra rappresentazione, progetto urbanistico, azione umana su e per la città, mostrando quanto retoriche solo apparentemente distinte si “montino”, si fondano, generando non solo città diverse, ma modi diversi di agire sulla città: su un corpo urbano è più difficile “scrivere”, sull’altro si incide con maggiore frequenza, potenza e facilità.
La Street Art, infatti, genera una frattura e una inversione visiva e sociale: l’arte elitaria, quella dei musei nati nell’Ottocento e delle gallerie è più celata e possiede una sorta di “invisibilità” (di cui discute anche W. Benjamin), un linguaggio per pochi, un linguaggio più estraneo alla “gente”. Di contro l’urban art, più dichiaratamente comunitaria, popolare, omni-comunicativa, soggetta ad azioni e reazioni non troppo irreggimentate e impreviste, non è necessariamente connessa al mercato o a un accreditamento ortodosso e per esistere “deve” trovare, a volte forzando, spazi idonei. Essa, quindi, sfuggendo a un insieme di strettoie manifesta un contro potere: è l’urlo degli uomini e delle donne che conquistano spazio per dire ciò che a parole è impossibile dire, è l’urlo che invade lo spazio liberato nella città, reso ancora più libero dall’azione artistica che diviene, così, un atto “rivoluzionario”. Innescando, dunque, una negoziazione attiva, che sperimenta un diverso equilibrio del conflitto, tra arte, potere istituzionale e città. La Street Art è, intesa in tal senso, tra i sistemi per segnare territorialmente lo spazio urbano con landmarks antimonumentali, spesso interconnessi a specifici eventi e, in alcuni casi, localizzati in luoghi “periferici” o marginali.
Per quanto riguarda le città della fascia atlantica negli States, il fenomeno dei graffiti iniziò a manifestarsi a Philadelphia intorno agli anni ’60 dopo la morte di Charlie Parker (12 marzo 1955), chiamato “Bird” o “Yardbird”, anche se già dalla metà degli anni ’50 iniziarono a comparire a NYC scritte come “Bird lives”, con un “linguaggio” di rappresentazione controculturale, estremamente espressivo e originale. Tale linguaggio divenne via via più articolato, configurando un palinsesto che aveva e ha un enorme valore di protesta quale parte della “voce” di alcuni abitanti che, in modo poetico, efficace, “duro” e intenso, “disordinato”, caotico e insieme organizzato, dicevano quanto fosse impossibile esprimere altrimenti. La metropolitana di New York divenne ombelico di tale eloquente rivolta, possibile anche per l’accessibilità e l’interconnessione interna della rete. I graffiti persistettero, malgrado la guerra condotta da alcuni sindaci come John Lindsay, anche per problemi di bilancio della Municipalità che, a causa della limitata capacità di rimozione, non eseguiva le opere di manutenzione dei bracci di transito dove gli stessi graffiti comparivano [x].
Parafrasando Barthes potrebbe dirsi che non solo la città parla ai suoi abitanti, ma che gli abitanti “parlano” della e alla città rappresentandola e segnandola con i graffiti sui muri. Si tratta di un’appropriazione potenzialmente costruttiva e vitale dello spazio, che si fa in tal modo esperienza, quando le persone, anche quelle comuni, siano “co-autori” della città stessa. I graffiti, infatti, non sono unicamente prodotto di artisti accreditati, ma sono spesso l’emergere di un “testo” non autoriale. Le città si descrivono e si scrivono non unicamente con la rappresentazione formalizzata ma con l’uso attivo dello spazio, uso che va dalle pratiche di osservazione e di attraversamento che potrebbero definirsi “passive” (vd. Benjamin o De Certeau) alle pratiche “attive” di trasformazione e di azione dei e sui luoghi compiute dagli abitanti, come la Street Art. La città con la sua storia, con le scelte politiche, e con lo spazio stesso (lo spazio materico e il rimando di senso del medesimo), istituisce delle censure e apre delle possibilità di espressione e azione comunitaria, tra il collettivo e l’individuale e nell’esplicitazione delle conflittualità la Street Art, come altre pratiche nascenti dalla base sono sia epifenomeni denotativi, sia strumenti per manifestare i gradi di libertà o i livelli di reazione e di rivolta della “base”.
Per quanto attiene la Street Art (così come per i giardini comunitari, a NYC, spazi spesso sottoutilizzati presi in carico da gruppi di abitanti e da questa trasformati), intesa come instaurarsi di profonde relazioni tra la città e le persone, va sottolineato che un’azione in prevalenza individuale si trasmuti in collettiva non solo riguardo alla fruizione, ma anche per lo sdoganamento della censura istituzionale che, con le scelte politiche e urbanistiche, protegge e cristallizza lo spazio “sacro” della Città-Monumento. Intoccabile, a volte “fredda”, perché accoglie lo “sguardo” e rifiuta l’azione. Una città che, con una retorica comunicativa più formale, suggerisce l’azione passiva del guardare. In altre parole: un’osservazione priva dell’atto carnale e passionale del toccare trasformando.
Il muro che in questo caso è un bordo, il contorno di un edificio, un confine inviolabile diviene, quando lo spazio sia violabile e tangibile, un supporto aggregante, un “foglio” visibile a tutti su cui tutti possono “scrivere” e riscrivere. E un medio attivo di una azione retorica e di una risposta retorica talvolta fortemente reattiva. In tal senso, come ogni altra pratica comunitaria, diviene mezzo di relazione e “lezione”: mostrando un testo che sovente viene dal “basso”, o da soggetti “non-istituzionali”, la Street Art comunica idee, bisogni, dissenso. Chiamando, obtorto collo, all’ascolto anche il potere istituzionale
Chi “scrive” e perché? Chi cancella e perché? Chi stabilisce dove sia possibile “scrivere” e dove no? Il “chi” non è un soggetto, ma può essere inteso come un “processo”, frutto di scelte, di eventi, di variabili, di “attori” sociali, nel tempo. Anche colui che osservi, infatti, viene rinviato a un discorso complesso fatto di aperture, di divieti, di interdizioni, di possibilità, esplorando come, a volte, gli scarti (vd. M. De Certeau e K. Lynch) divengano altro da sé, esplorando come un muro si trasformi in uno dei dispositivi di “azione” e di comunicazione urbana tra i più significativi della contemporaneità, anche perché le opere della Street Art vengono mediatizzate e diffuse on line. Tale diffusione è occasione di comunicazione non solo dell’opera ma dello spazio urbano entro cui l’opera stessa è nata.
Attribuendo ai termini “scarti”, “azione” e “comunicazione”, un’accezione che identifica l’ambito fisico e quello sociale, appare significativa la localizzazione delle opere di urban art, e la profonda relazione instaurata tra spazio urbano e opera: spesso la presenza delle opere attua un “ribaltamento”, trasformando gli scarti in luoghi pulsanti dotati di nuova “centralità”. La collocazione infatti va osservata per comprendere da cosa derivi e cosa induca, sia per quanto attenga le opere degli artisti più accreditati [11], sia per quanto attenga il molteplice esistente frutto di altri artisti. Il concetto di “centro”, tanto diverso ab origine nelle due città prese in esame, assume un senso più attuale: spazi marginali divengono parte di nuovi attraversamenti, vengono contrassegnati da immagini che catalizzano l’attenzione e che, assai spesso, esprimono questioni più strettamente connesse alla compagine umana e che appartengono a un discorso “sociale” della “base”. JR, ad esempio, inaugura il proprio lavoro nel 2006 fotografando i volti degli abitanti della banlieue parigina; tali grandi immagini, Portrait d’une Génération, furono affisse sui muri della città, in modo che lo spettatore guardasse i volti dei cittadini delle aree di margine, occhi negli occhi, face to face, uno shock a forte impatto comunicativo.
Jean-Michel Basquiat soprattutto Keith Haring che, in fase iniziale, possono essere definiti come crossover tra l’arte tradizionale e la Street Art, furono, a NYC, interpreti di temi e questioni sociali, insieme a una nutrita schiera di artisti anche recenti, tra cui Tatyana Fazlalizadeh, portando avanti un processo che negli States era iniziato intorno agli anni ’60, con le opere, spesso dipinte negli spazi pubblici, di Darryl McCray, noto come Cornbread, considerato tra i pionieri di tale forma espressiva. La street art di Cornbread fu fonte di ispirazione per altri artisti in tutto il Paese. Opere elaborate con la vernice spray, o dovute a un approccio più formale oltre a caratterizzare i luoghi agivano sulla consapevolezza sociale degli abitanti/spettatori, venivano “graffiate” sui muri denunciando, con un linguaggio assai poco convenzionale, emergenze e nodi di ordine sociale.
Keith Haring tra gli interpreti di tale nuovo linguaggio, operava concentrandosi sullo spazio pubblico e su problemi sociali cui attribuiva rilevanza critica. Se le installazioni di Haring sono diffuse in quasi l’intero pianeta, alcune davvero forti si trovano a New York City. Tra esse il murale “Crack is Wack” su un gigantesco campo da pallamano adiacente all’Harlem River Drive, in East Side. Completato nel 1986 il murales affronta la devastante diffusione di crack che dilagò tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 a NYC. Al momento della creazione l’artista non aveva ricevuto alcun permesso dalla città per realizzare il “murales”; esso, oggi protetto dal potere municipale, rappresenta il “graffito” nella sua forma più primaria, un’opera erompente in opposizione con il potere istituzionale.
Un’opera di street art, tanto quanto le orme urbane ottocentesche, attiva un livello comunicativo, cosi come emerge dal recente lavoro (2013) di Bansky, Better out than in, a NYC, che pone in evidenza le differenti fruizioni di un’opera in uno spazio urbano, e il dialogo tra persone e luoghi. L’happening prevedeva che Bansky realizzasse un’opera al giorno in un luogo a sorpresa di New York.
«Fuori è dove l’arte dovrebbe vivere: in mezzo a noi – afferma Bansky – la street art non è una moda passeggera. Forse le ultime migliaia di anni di storia dell’arte sono state un’interruzione, quando l’arte è stata messa al chiuso, al servizio della chiesa e delle istituzioni. Ma l’arte appartiene di diritto ai muri delle caverne delle nostre comunità, dove può essere un servizio pubblico, provocare discussioni, dare voce alle preoccupazioni, formare le identità».
Esiti possibili, riappropriazioni, segni dell’umana espressione, i murales – a Parigi e a NYC – configurano con la loro presenza, incidenza e distribuzione, un “terminale” che pone in luce l’intricato discorso sotteso che, in questa interpretazione, muove dalla “frattura” della modernità e dalle raffigurazioni della stessa. Coppie dicotomiche appaiono, rappresentazioni antinomiche si configurano generando scambi, antitesi, feedback, influenze reciproche tra le percezioni, tra le azioni possibili, potenziando e indebolendo quella “natura” che la città nel tempo costruisce.