di Ugo Iannazzi
Sfogliando l’Edizione Nazionale delle opere di Giosuè Carducci (vol. VIII, Ceneri e Faville, serie terza, Nicola Zanichelli Editore, Officine Grafiche A. Cacciari, Bologna 1938), ho trovato a p. 308 la seguente breve richiesta, che il poeta delle Odi barbare indirizzava al Comitato degli studenti dell’Università di Bologna:
«Non conferenze, francesismo.
Fatemi il piacere di dire agli amici del Carlino che non vogliano più chiamar Conferenza ciò che dirò il 12 prossimo. Conferenze io le lascio fare agli abati e ai professori francesi. Io italiano faccio discorsi; come facevano e dicevano i miei padri, Nicolò Machiavelli e Francesco Guicciardini»[1].
La frase è detta con il sussiego e con la gravità un po’ altezzosa dell’insigne cattedratico dell’Università bolognese. E al poeta andrebbe fatto anche un rilievo letterario per l’eccessivo zelo: il vocabolo conferenza era sì un termine molto usato dai francesi, ma non è un vero e proprio forestierismo, perché proviene etimologicamente dal comune vocabolo tardolatino, conferentia, derivante da conferre (cum e ferre) = portare insieme, vedi conferire.
Ma il concetto è significativo: a) già all’epoca i redattori di un giornale, il Resto del Carlino, tendevano a usare un ampio ventaglio terminologico; b) un importante letterato dell’Ottocento, la cui cultura trovava radici nei grandi autori rinascimentali Machiavelli e Guicciardini, decideva con energia di astenersi dall’usare un vocabolo di cui si riempivano la bocca soprattutto i francesi. L’italiano aveva il legittimo vocabolo “discorsi” che assolveva la sua regolare funzione e Carducci volle sempre chiamare così le sue prolusioni all’avvio degli anni accademici dell’Università.
Come si vede, i letterati di 150 anni fa avevano ben chiaro il concetto di mantenere puro l’italiano dall’invasione di lemmi stranieri e di battersi per la difesa della lingua italiana, idioma nobilitato dai contributi culturali di grandissimi ingegni, ma pur sempre una lingua fragile, ancora poco diffusa tra la gran parte delle classi sociali italiane, e meritevole di sostegno.
Oggi la lingua italiana di base è sufficientemente diffusa, ma la stiamo inavvertitamente perdendo, perché moltissimi intellettuali (o presunti tali), comunicatori, pubblicitari e politici italiani non mostrano più l’antica intransigenza carducciana, anzi si cimentano, forse per innato esibizionismo, nel riempire i loro discorsi, i loro romanzi, loro articoli di stampa, i loro interventi televisivi di molte frasi “itanglesi”, spesso inutili, fuori luogo e non di rado linguisticamente imperfette. Il periodo della pandemia ha mostrato incontrovertibilmente questa realtà.
Mi è, poi, capitato di leggere il libro di Filippo Tommaso Marinetti, Collaudi futuristi, a cura di Glauco Viazzi, Guida Editori, Napoli, [1977]. Premetto che il fondatore del Futurismo fu, insieme con Gabriele D’Annunzio, un prolifico e fantasioso creatore di parole nuove e già, quando doveva curare con un suo testo la presentazione-lancio di opere “futuriste” di scrittori, di poeti, di pittori, di musicisti, di teatranti, i suoi contributi critici amava chiamarli con un curioso neologismo: “collaudi”.
Alle pagg. 201-202 del citato volume, presentando il saggio di Adelmo Cicogna [2], Autarchia della lingua, contributo ideale e pratico alla santa battaglia e prontuario delle parole straniere da sostituire con le corrispondenti italiane esistenti, prefazione-collaudo di F.T. Marinetti, Roma, Edizione dell’autore, 1940 (Roma, Scuola tip. Don Luigi Guanella), Marinetti così titola e sviluppa:
«Autarchia della lingua» di Adelmo Cicogna.
Il Primo problema autarchico è l’italianità della lingua.
È santa perciò la campagna diretta all’integrità assoluta della lingua italiana.
Intransigenza senza la minima concessione: questo ci vuole.
La questione dell’italianità della lingua nostra è di grande importanza per noi tutti.
Deve smettersi l’uso di parole straniere.
Le ragioni che ci portano a questa affermazione sono le stesse che ci fanno combattere ogni forma di esterofilia, ogni introduzione presso di noi di modi di fare e di dire esotici.
Questo è il concetto.
Non basta arginare l’introduzione di parole straniere nella nostra lingua.
Bisogna espellere quelle che già sono entrate nell’uso: sostituirle e applicare con energia questa sostituzione.
Senza il minimo disprezzo per le altre lingue, vogliamo togliere dalla lingua italiana tutte le parole straniere.
Bisogna senza dubbio italianizzare là dove ciò è particolarmente opportuno, ma più ancora bisogna creare la parola nuova, o l’espressione di più parole, inventarla, traendola dalle infinite possibilità della nostra lingua: seguire di questa nostra lingua bellissima i suoi naturali sviluppi, farla sempre più completa e moderna.
Credo indiscutibile ormai si debba usare la parola ‘volantista’ invece della parola ‘chauffeur’; e così la parola ‘pieghettato’ invece della parola ‘plissé’ e la parola ‘veste e giacca’ invece della parola ‘tailleur’… Quanto alla parola ‘bar’ deve essere sostituita dall’espressione ‘qui si beve’ o (perché no) più brevemente dalla semplice parola ‘ber’.
Per esempio, la parola ‘capannone’ deve essere usata invece della parola ‘hangar’, dato che questo vocabolo francese significa tettoia su pilastri, ed è quindi inadatta ad esprimere il bisogno di riparare e chiudere l’aeroplano. E poi ‘marrone candito’ deve sostituire ‘marronglacé’ e ‘parabrezza’ va ormai usato invece di ‘parebrise’ come l’espressione ‘far soffitto’ invece di quella francese ‘plafond’ ecc. ecc.
Innanzi tutto dunque come anche il Cicogna giustamente pretende, imponiamo squadristicamente la abolizione immediata dei molti vocaboli che vengono usati ancora ostinatamente nella forma straniera, mentre vi è in italiano una parola equivalente che spesso rende con maggiore esattezza il significato.
L’opera del Cicogna mentre da un lato illustra con una accurata sintesi storica l’evoluzione della lingua nostra, dal suo nascere ai giorni nostri, dall’altra con franco stile polemico convince alla sostituzione degli esotismi, elencandone a parte anche un rilevante numero: termini vari di uso comune, termini della moda, marinareschi, termini automobilistici, aeronautici, sportivi.
Per la maniera con la quale il problema è stato impostato e svolto, la pubblicazione del Cicogna costituisce davvero un efficace contributo ideale e pratico alla santa battaglia dell’autarchia della Lingua ed è pertanto che gli auguriamo la più comprensiva e vasta diffusione».
Senza attardarci sulla complessa figura di Filippo Tommaso Marinetti, creatore della più importante corrente artistica moderna italiana, insieme e al pari di D’Annunzio, “interventista”, “antipacifista”, “guerrafondaio”, “intemperante”, “sobillatore”, si può dire che oggi un qualsiasi Stato moderno li considererebbe facilmente dei terroristi, ma sono stati sicuramente amanti della lingua italiana.
Marinetti è una figura da tutti ben conosciuta. Fondò, tra l’altro, a Milano l’Associazione per la guardia al Brennero e nel relativo decalogo inserì i seguenti punti:
5. La lingua italiana è la più bella del mondo.
7. I paesaggi italiani sono i più belli del mondo. Per comprendere la bellezza di un paesaggio italiano, occorrono occhi italiani, cioè occhi geniali.
Come D’Annunzio, anche lui nel “collaudo” riferito al Cicogna, ammanta di sacralità gli obiettivi, che gli stanno a cuore e definisce due volte «santa, la battaglia per l’autarchia della lingua».
Da ciò viene spontanea la domanda: Se allora protestava, turbato dall’ingresso di una piccola quantità di vocaboli francesi nella nostra lingua, chissà come avrebbe reagito davanti all’attuale straripante invasione di termini inglesi?
Tralasciando di considerare tutte le parole in puro stile fascista (autarchia, autarchico, esterofilia, squadristicamente), si nota in lui, comunque, la forte volontà di essere fabbri, cioè costruttori della propria lingua, con «inventarla, traendola dalle infinite possibilità» che offre e «seguire di questa nostra lingua bellissima i suoi naturali sviluppi, farla sempre più completa e moderna».
Il concetto chiarissimo dell’«integrità assoluta della lingua italiana», tenuta lontana da “esotismi” spuri, non deve poi meravigliare, se pensiamo all’integrità della lingua francese, o spagnola, o rumena, che altri idiomi neolatini cercano di conservare con maggior vigore e successo di noi italiani.
E pensiamo anche all’orgoglio smisurato della gran parte degli inglesi per la loro lingua, alla quale spesso rifiutano di accompagnare, in tema di bilinguismo, qualunque altro idioma, pur oggi sufficientemente diffuso nel mondo. Quindi, può essere consentito in tempi globalizzati l’uso dell’inglese come mezzo espressivo di necessità, ma mai come lingua usata per decretare la lenta sparizione dell’italiano.
La cosa, poi, che oggi maggiormente meraviglia e disturba è la passione degli italiani a essere creativamente attivi nell’inventare neologismi, non più con i nostri vocaboli, ma usando, e talora a sproposito, sempre più termini albionici.
La terza spigolatura si riferisce ad un editoriale apparso poche settimane fa sulla stampa. Nel supplemento “D” del quotidiano la Repubblica del 22 maggio 2021 a p. 9 è comparso un editoriale della brava e moderna direttrice, la giornalista Valeria Palermi, intitolato “L’italiano? Lost in translation!” in cui scrive:
«Succede anche a voi di sicuro. A me, sempre più spesso. Incontro persone con cui faccio quelle che dovrebbero essere normali conversazioni di lavoro e a un certo punto vengo ipnotizzata da un flusso di parole inglesi. Pseudo. [...]
Però non ne posso più di gente che infarcisce l’italiano con parole inglesi rimasticate (re-chewed?). Un signore perbene ieri è venuto a parlarmi della sua azienda e mi ha rovesciato addosso top down rate, safety visual, ovviamente diversity, talent development, tools, step e skills. Io intanto pensavo, “Ma tu davvero stasera torni a casa e dici a tua moglie che hai sviluppato nuove skills che ti avvicinano al tuo career goal?”. E lei non ti lascia? Doesn’t she dump you? Una collega, pure lei molto perbene, mi parla di come cambiano i femminili. Ogni due per tre spara “advocacy”, ma le piace tanto anche “awareness”. Per quello non ci legge più nessuno, concludo.
Question is: perché non riuscite a dire le cose in italiano? Non è che i concetti siano poi così complessi, dai. Si è tanto criticato la messa in latino, ma lì l’uso di una lingua non compresa dai più quantomeno poteva voler creare il senso del sacro. Nei discorsi di tutti i giorni, questo inglese, mai parlato dagli inglesi, serve forse a camuffare l’inconsistenza del tutto?
Rovescia gli occhi al cielo, il mio prof. di francese. Gli ho chiesto “Come si dice in francese lockdown?”, lui sibila “confinement”, poi sbotta, “Perché voi italiani non dite chiusura?”. Pourquoi chissà. Ma voi provate a dire a un francese “compiutèr”, e vedete che succede: finché non vi viene in mente “ordinateur”, restano lì con la faccia malmosteuse.
L’altro giorno sono capitata su una trasmissione in cui una ragazza per motivi misteriosi si mette nell’imbarazzante situazione di dover scegliere tra 4 o 5 ragazzotti il compagno della sua vita, o forse di qualche settimana. Sono tutti a disagio, credo si sentano un po’ scemi. Comunque lei fa loro un test, in sostanza gli dice: “Ma secondo te io perché dovrei scegliere te?”. E uno le ha risposto, “Perché io sono unconventional”. E lei lo ha scelto. E io ho spento»..
Non si può non essere d’accordo con lei, sul fatto che gli italiani, e più precisamente la parte più stupida di essi, per non essere “convenzionali” stanno sempre più sperperando la lingua nativa, infarcendola di forestierismi inglesi inutili, superflui, infestanti. Lei addirittura chiama tali termini parole “pseudo” inglesi.
Però viene da pensare: Perché nel periodico “D”, che ha raggiunto con successo i 25 anni di età, che viene letto dalle donne e dagli uomini e si onora della prestigiosa firma del filosofo, psicologo e psicanalista Umberto Galimberti, compaiano così tante inserzioni pubblicitarie con “strilli” in inglese, e i tanti titoli delle rubriche in inglese, e articoli in qualche caso abbondantemente infarciti di forestierismi albionici?
Se lo spirito della direttrice Palermi è rivolto a difendere la nostra preziosa lingua italiana, deve cortesemente dimostrarlo, e noi ne saremmo lieti, bonificando la sua rivista dall’esondazione di termini inglesi superflui. Altrimenti la sua indignazione è solo un puro atto di forma e non di sostanza.
Dialoghi Mediterranei, n. 50 luglio 2021
Note
[1] cfr. VIII Centenario dell’Università di Bologna: Album ricordo, [a cura del] Comitato degli studenti, Bologna, premiato Stab. tip. succ. Monti, 1888, 21 pp.
[2] Questo volume è stato anche, successivamente, ripubblicato con il titolo: Adelmo Cicogna, In difesa del patrimonio più caro di un popolo, la propria lingua: sintesi storica dal volgare ai giorni nostri… [Roma], Virtus, 1968, 48 pp.
“Contro l’invasione dell’inglese superfluo”
Strilli, grida, motti di resistenza
Seconda parte
41. Chi studia etologia conosce i comportamenti ingannevoli e sleali del cuculo: depone un solo uovo nel nido di circa 40 specie diverse di passeracei. Quando schiude, il nidiaceo clandestino ha comportamenti fortemente opportunisti. Appena nato, con gli occhi ancora chiusi, fa cadere dal nido le uova o i pulcini dei legittimi abitanti e si fa nutrire a sbafo. L’inglese si comporta come il cuculo. Depone nel nido altrui in un momento di disattenzione e ne diventa, a poco, a poco, signore e unico sfruttatore!
42. Il bilinguismo può essere praticato bene, solo se la lingua madre e una lingua acquisita viaggiano in parallelo e svolgono il loro ruolo in un vicendevole rispetto. Se per mano improvvida il convoglio ferroviario B (la lingua inglese) viene immesso sul binario a senso unico, dove viaggia il convoglio A (lingua italiana), B diventerà locomotiva ed A scadrà a vagone!
43. Il presidente Draghi negli anni passati ha usato l’inglese esclusivamente per comunicare e ha usato l’italiano come baluardo mentale per difendere gli interessi della Nazione e della nostra cultura.
44. L’italiano è prezioso. L’inglese, purtroppo, è “potente” e sta diventando “prepotente”, non per impresa albionica, ma solo per colpa di alcuni italiani, che facilmente si lasciano sedurre.
45. L’idioma italiano, nato nel Mediterraneo, è storicamente una lingua concava, che accoglie. Attenzione: l’inglese è, invece, una lingua non imposta, convessa, che occupa, colonizza e possiede.
46. L’italiano, prima di diventare lingua nazionale, ha faticato molti secoli per affermarsi e tanti connazionali si sono battuti e sacrificati per realizzare l’unificazione linguistica.
47. L’umanità ha bisogno della cultura italiana, che va valorizzata e non svalutata e fatta estinguere.
48. La cultura italiana non deve essere soffocata dall’inglese, ritenuto da alcuni sciocchi “sempre indispensabile”, mentre nella realtà si constata che è, sempre più spesso, superfluo.
49. La lingua imparata dai familiari in tenera età è un valore affettivo primario, che dura tutta la vita e un valore collettivo per tutti gli italiani. Basterebbe ricordare il dolore di nostri emigrati all’estero, quando non trovavano connazionali con cui parlare. Tradire, senza necessità, la lingua e il dialetto domestico, imparati nell’infanzia, è un atto contro natura, simile al matricidio o al parricidio. Solo i provinciali, gli snob, i presuntuosi prediligono l’uso dell’inglese, anche quando non serve.
50. La lingua italiana è poesia, teatro, letteratura, scienza, storia e tradizione di popolo. Queste attività perdono valore, se slegate dalla lingua; l’inglese deve solo essere uno strumento conoscitivo d’uso.
51. La lingua italiana va difesa come fine. L’inglese va usato con parsimonia e solo come mezzo.
52. Lingua italiana, Bandiera e Fiamme tricolori sono i grandi simboli dell’italianità. Due di essi sono considerati “sacri”. Perché la lingua è, invece, considerata un accessorio, un fronzolo, un gingillo, un orpello, una cianfrusaglia inessenziale, che si può tranquillamente umiliare e mandare in malora?
53. L’uso strumentale nella pubblicità, anche di una sola parola di inglese, superflua, mi convince che con ammiccamenti, atteggiamenti ambigui, sotterfugi opportunisti, si tenta di ammaliare il cliente ingenuo con una falsa seduzione… La penetrazione dell’inglese è partita nelle pubblicità con piccoli passi, poche parole, che nel tempo sono diventate frasi a caratteri cubitali.
54. Meglio utilizzare l’italiano, di cui conosciamo un’infinità di sfumature, etimologie, sinonimie.
55. Mi sono caduti gli occhi sulle pubblicità del marchio BMW di alcuni modelli di auto, i cui nomi sono stati volutamente inglesizzati: The 1, The x1 e The ix3. C’è anche la pubblicità di un orologio di Cartier, il cui nome è francesizzato col piccolissimo inserimento di una preposizione semplice: Pasha de Cartier. Attenzione, i forestierismi penetrano anche con l’ingresso di semplici e innocui articoli, o preposizioni.
56. Molte sono le Nazioni che usano l’inglese come mezzo espressivo di scambio: mai lo elevano a succedaneo e rimangono sempre gelose della propria lingua, che viene attivamente difesa.
57. Molti sono sostenitori del bilinguismo. Questo può essere accettato se la seconda lingua rimanga nella cassetta degli attrezzi, da portare con noi, e non diventi, invece, un abito da passeggio o da cerimonia.
58. Nel campo del gusto, sappiamo che prodotti locali e territorialità stanno avendo sempre più successo. Lo dimostrano anche alcune pubblicità di Mc Donald, che, fatte talora in perfetta lingua italiana, lodano materie prime e tecniche lavorative italiane. Come volpi del commercio, hanno capito che è cosa buona parlare chiaro e, quanto più possibile, rispettare la nostra lingua.
59. Nella mente di alcuni nostri connazionali (pubblicitari, politici ecc.) alberga un concetto impossibile da sradicare, quello di essere profondamente afflitti da un grave complesso di inferiorità. Forse per sfuggirlo, sono costretti a mimetizzarsi sotto le rassicuranti spoglie linguistiche di cittadini extraeuropei (inglesi) o extracontinentali (statunitensi)?
60. Non bisogna permettere che connazionali (politici, pubblicitari, personaggi della comunicazione) insensibili, o superficiali, spesso anche privi di vera cultura, o attratti da miraggi modaioli e di vantaggio economico, distruggano nel corso di un breve lasso di anni la concretezza di una lingua che è patrimonio basilare e secolare della nostra comunità nazionale e del mondo intero.
61. Non c’è peggior masochista di chi, senza motivo, depone la propria lingua e ne abbraccia una spuria. Costui è anche sadico, perché, quando usa, senza necessità, vocaboli estranei, uccide i vocaboli della lingua natia.
62. Non è una scusa valida, il fatto che l’inglese abbia vocaboli brevi. Non sempre è così e, comunque, la brevità non costituisce un requisito di primaria importanza.
63. Non riesco a condividere la notazione della brevità dell’inglese. Traslando il discorso, non è per la sua frugalità che il popolo pigmeo abbia più diritti di altri popoli.
64. Non sono un esibizionista: uso qualche vocabolo inglese, solo in caso di vera necessità.
65. Oggi molti italiani desiderano essere considerati figli adottivi dei grandi marchi internazionali di beni e servizi, che non veri nipoti e pronipoti dei nostri grandi italici geni.66. Parlare inglese, dicono, favorisce gli affari; distrugge, però, la nostra cultura, danneggia l’aria che respiriamo e, nel lungo termine, deprimerà e affosserà la nostra economia.
67. Per scelta personale, evito di acquistare prodotti in Italia reclamizzati in lingua inglese. Preferisco prodotti italiani, o stranieri, presentati in un italiano, che rispetti l’identità della nostra comunità.
68. Perché i Francesi difendono con forza la loro lingua e respingono, come possono, le indesiderate intrusioni linguistiche esterofile? Forse, perché hanno più amor proprio e sono meno masochisti!
69. Politici, pubblicitari e giornalisti, che pretendono sempre più di parlare in inglese alla grande massa di italiani, che tale lingua ignorano, sono sciocchi, perché, mettendosi in evidenza come “evoluti”, dicono cose comprese spesso solo da pochi, o sono ingannatori, che prediligono la cripticità alla chiarezza.
70. Preferisco, da italiano, la mia lingua all’inglese, perché è preziosa e merita di essere custodita.
71. Questo comportamento nasce dalla convinzione che, in anni non di conquista militare e di relativa stabilità internazionale, è giusto che in ogni Paese prevalga il rispetto aperto, convinto, sincero per la propria lingua nazionale.
72. Ricordiamoci inoltre che, per usi non professionali, tutti i telefonini di ultima generazione hanno incorporato dispositivi per tradurre vocaboli, testi scritti, discorsi parlati di oltre cento lingue diverse: questo ci libera abbastanza dall’oppressione di dover obbligatoriamente dipendere dall’inglese o da altri idiomi, e di conservare e valorizzare l’italiano.
73. Simboli collettivi e soggettivi. Se un giorno qualcuno sostituisse il tricolore italiano, simbolo collettivo, con un’altra bandiera, io non ne soffrirei:
a) perché sono già abituato al suo cambiamento: nacqui, infatti, quando sventolava il tricolore con lo stemma sabaudo e, poi, con la caduta della monarchia, fu adottato un tricolore indenne; gli stessi tifosi accettano i cambiamenti decisi dalle squadre del cuore, (gagliardetto, maglia, logo) se da simboli “sacri”, vengono “sacrificati” a vantaggi economici;
b) la sostituzione/distruzione, invece, di una lingua (simbolo collettivo) è un fatto ben più importante e grave: oltraggiando una lingua, si oltraggiano gli affetti e le forme più elevate di cultura letteraria, poetica, teatrale, cinematografica, tecnico-scientifica ecc. della nostra nazione; modificare e manomettere, pur con lenta progressione, una lingua, equivale a perderla e con essa tutto il patrimonio comunicativo, cui fa riferimento;
c) essere derubati della lingua (simbolo soggettivo) è, tra l’altro, un fatto luttuoso, come se con superficialità (che poi diventa prepotenza) venisse fatta scomparire violentemente una persona cara! Molti sottovalutano, che questo sia una grave perdita e quando se ne accorgeranno, sarà troppo tardi e l’elaborazione del dolore sarà molto difficile; lo descrive il poeta Ignazio Buttitta riguardo al suo dialetto nella poesia Lingua e dialettu.
74. Smart. Dopo i confinamenti dovuti alla pandemia, un vocabolo inglese, che ha trovato casa fissa in Italia, è smart. Anzi è stato accolto in una reggia. Già Smart circolava da un ventennio ed era il marchio di un modello urbano di auto, ma aveva un’origine diversa: era la crasi di Swacth Mercedes ART. Durante l’imperversare del Coronavirus, invece, si è radicata ex abrupto l’espressione smart working, da noi erroneamente tradotta con lavoro da casa. Essendo tanti i significati di smart (intelligente, furbo, brillante, elegante, alla moda, bello, buono, rapido, capace, attivo, sveglio…), il vocabolo immediatamente e in modo travolgente è stato adottato negli uffici, sulla stampa e nella pubblicità, perché dicono, è molto cool, cioè è fresco, funziona bene. Dire la frase: una cosa è intelligente, vale poco…, dirlo in inglese è, illusoriamente, espressione moderna, ma del tutto superflua.
75. Smart è uno dei lemmi all’apparenza innocui, che si stanno dimostrando molto pericolosi per la salute della lingua italiana, essendo formidabili attrattori di altre parole inglesi, e distruttori della lingua italiana, perché il parlante non si accontenta di dire: una città smart, ma dice smart city; un’esistenza smart, ma smart life; o una mobilità smart, ma smart mobility; o la gente smart, ma smart people; e poi: smart technologies, smart building, smart regulation (normativa), smart machines, smart women, smart Italy, smart Europe ecc. Queste espressioni sono una piccola parte di quelle riprese a valanga dai giornali. Quindi è all smart!
76. Smart, come altri, è purtroppo un piccolo e micidiale virus: se non bloccato in tempo, è capace di compiere una strage di vocaboli italiani!
77. Solo i provinciali, gli snob, i presuntuosi prediligono l’uso dell’inglese, anche quando non serve.
78. Uccidere la lingua dei nostri padri è un grave crimine. Contro la lingua, contro i padri, contro noi stessi.
79. Una comunità che pian piano abbandona la sua lingua, annienta la sua storia, dissipa la sua cultura e perde ogni dignità.
80. Vuoi essere onomaturgo? Fallo con l’italiano e non scimmiottare neologismi di stampo inglese. In giro di spazzatura ce n’è già tanta.
Ugo Iannazzi, architetto, museografo, studioso di tradizioni popolari, ha realizzato ad Arpino (FR) il Museo dell’Arte della Lana e redatto progetti per i Musei della Liuteria e delle Arti tipografiche. Con Eugenio Beranger ha creato ad Arce (FR) il Museo antropologico della “Gente di Ciociaria” nel 2004 e pubblicato nel 2007 il relativo saggio storico-critico, che raccoglie le vicende territoriali, gli usi e i costumi popolari del mondo rurale e artigiano locale. In collaborazione con Antonio Quaglieri ha pubblicato nel 2016 Chi parla i sparla nen perde ma’ tiempe. La civiltà contadina, una filastrocca, un pretesto e nel 2018, in collaborazione con Ercole Gabriele Gli apologhi di Fedro tradotti in dialetto arpinate. Ha in corso di stampa Il pensiero popolare, detti, proverbi, motti, raccolti da Luigi Venturini nel 1911 e da Antonio Quaglieri nel 2011; e in preparazione, un saggio sul poeta dialettale Giuseppe Zumpetta e uno sugli incontri a Firenze tra Gioacchino Rossini e il letterato Filippo Mordani.
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