Nella convinzione generale, ebraismo e cristianesimo sono due religioni radicalmente opposte (o, per lo meno, irriducibili). Questo viene insegnato ai giovani ebrei, questo viene insegnato ai giovani cristiani, questo è ciò che apprendono dai libri di scuola più diffusi i giovani agnostici di famiglie a-confessionali. Ma è davvero così?
Gli specialisti di storia delle religioni e di teologia inter-religiosa sanno che le cose stanno diversamente. Ma, come avviene in tanti campi, queste acquisizioni della ricerca scientifica rimangono per anni – talora per sempre – ignote alla maggioranza della popolazione e dei politici. Con conseguenze, anche pratiche, a dir poco nocive.
Ogni tanto, sul muro compatto dell’ignoranza e dei pregiudizi, si aprono delle brecce. Come alcuni passaggi dell’autoritratto che Amy-Jill Levine (in quanto membro del nuovo comitato di direzione di “Donne Chiesa Mondo”) ha pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 5 maggio 2019: «Sono un’ebrea che ha trascorso più di mezzo secolo a studiare il Nuovo Testamento. La mia situazione è diversa da quella dei cristiani che insegnano l’Antico Testamento: l’Antico Testamento è parte della Bibbia della Chiesa; il Nuovo Testamento non è una Scrittura della Sinagoga. […] Non solo studio la Scrittura altrui, ma scrivo anche del Signore altrui. Questo è sia un immenso privilegio, sia un’immensa responsabilità. Anche se non rendo culto a Gesù, i suoi insegnamenti mi affascinano come studiosa e mi ispirano personalmente, come ebrea fedele alla mia tradizione. Per spiegare come faccio e che cosa faccio, devo spiegare perché lo faccio, ovvero perché io, come ebrea, sin dall’infanzia lavoro nella vigna del Nuovo Testamento. Mentre crescevo in un quartiere portoghese-cattolico agli inizi degli anni Sessanta, in Massachusetts, i miei amici mi portavano in chiesa. Assistere alla messa per me era come assistere alle funzioni in sinagoga: le persone erano sedute sui banchi mentre uomini in vesti lunghe parlavano una lingua – i sacerdoti in latino, i rabbini e i cantori in ebraico – che io non capivo del tutto. […] I miei genitori mi dicevano che il cristianesimo – che significava la religione cattolica romana – era come l’ebraismo: adoravamo lo stesso Dio, Colui che ha creato i cieli e la terra; ci erano cari gli stessi libri, come la Genesi e Isaia; recitavamo i Salmi. Mi dissero anche che i cristiani seguivano Gesù, un ebreo. […] Finalmente, da adolescente lessi il Nuovo Testamento. Lì […] compresi due fatti che hanno caratterizzato la mia vita accademica: primo, siamo noi a scegliere come leggere; secondo, il Nuovo Testamento è storia ebraica. […] A guidare i miei studi sono dunque l’ermeneutica e la storia. […] Questo significa correggere gli stereotipi falsi e negativi degli ebrei che hanno alcuni cristiani. Se caratterizziamo male l’ebraismo giudeo, galileo e della diaspora, fraintendiamo anche Gesù e Paolo. La cattiva storia porta a cattiva teologia, e la cattiva teologia fa male a tutti. Dobbiamo anche sradicare gli stereotipi falsi e negativi del cristianesimo che hanno alcuni ebrei. Occorre lavorare da entrambe le parti. Come studiosa ebrea del Nuovo Testamento, sono interessata a come i Vangeli descrivono la tradizione ebraica e a come quella tradizione finisce per essere rappresentata dagli interpreti cristiani. Questo studio mi rende un’ebrea migliore: meglio informata sulla storia ebraica e più capace di correggere interpretazioni storicamente inaccurate e pastoralmente poco fedeli”.
È a questo punto del suo racconto che Amy-Jill Levine elenca le ragioni di interesse intellettuale ed esistenziale nei confronti dei vangeli da parte di una persona che non crede in Gesù secondo i canoni delle diverse Chiese cristiane (a cominciare dalla Chiesa cattolica). La Levine parla da ebrea, ma molte sue considerazioni valgono per altri studiosi non-cristiani di matrice diversa che non si rassegnano a quella sorta di bigottismo rovesciato per cui confrontarsi col messaggio evangelico, magari anche condividendone e adottandone alcuni passaggi, sarebbe un cedimento della propria laicità: «In primo luogo, i Vangeli sono una fonte straordinaria per la storia delle donne ebree. […] L’insegnamento comune secondo il quale Gesù respingeva un ebraismo misogino che opprimeva le donne è sbagliato. Le donne seguivano Gesù non perché erano oppresse dall’ebraismo; lo facevano per il suo messaggio del regno del cielo, le sue guarigioni e gli insegnamenti, la sua nuova famiglia dove tutti sono madre o fratello o sorella.
In secondo luogo, i Vangeli ci ricordano la diversità delle visioni ebraiche del I secolo, diversità confermata da fonti esterne come lo storico ebreo Giuseppe e il filosofo ebreo Filone, i rotoli del Mar Morto, gli pseudoepigrafi, perfino l’archeologia. In tali fonti troviamo punti di vista differenti su matrimonio e celibato, fato e libero arbitrio, cielo e inferi, risurrezione del corpo e immortalità dell’anima, adeguamento all’impero romano e resistenza contro lo stesso.
In terzo luogo, rispetto profondamente le istruzioni di Gesù su come intendere gli insegnamenti ricevuti da Mosè sul monte Sinai. Gesù non solo segue la Torah, ma ne intensifica gli insegnamenti. In aggiunta al comandamento contro l’assassinio, egli vieta l’ira; in aggiunta al comandamento contro l’adulterio, egli vieta la lussuria. Questi insegnamenti sono ciò che la tradizione rabbinica definisce “costruire una recinzione intorno alla Torah”, ovvero proteggerla dalle violazioni. […] Anche quando Gesù pronuncia invettive contro altri ebrei, come in Matteo 23 con il suo ritornello “guai a voi, scribi e farisei”, a me suona molto ebraico. Sembra di sentire Amos e Geremia; sembra anche di sentire mia madre, che di tanto in tanto si lamentava delle decisioni prese dai capi della nostra sinagoga. Gli ebrei hanno avuto una lunga storia di tochecha, di rimprovero, basata su Levitico 19, 17: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui”. Il verso successivo è il famoso “amerai il tuo prossimo come te stesso”. Tuttavia, mi sono anche resa conto che quando le parole di Gesù agli altri ebrei vengono estrapolate dal loro contesto storico e poste nel canone della Chiesa dei gentili, le parole agli ebrei diventano parole sugli ebrei, e il discorso profetico può sembrare antisemitismo. Per questo il contesto storico è importante.
In quarto luogo, amo le parabole. […] Le parabole di Gesù accusano e divertono, provocano e intrattengono: questa è la miglior forma di insegnamento, è una forma ebraica e Gesù la applica brillantemente. E per di più, le parabole mi aiutano a trovare nuove intuizioni riguardo alle mie Scritture. Il buon Samaritano attinge al Secondo libro delle Cronache 28; il figliol prodigo mi fa riconsiderare Caino, Ismaele ed Esaù.
In quinto luogo, i racconti di concepimenti miracolosi, della voce di Dio che discende dai cieli e della resurrezione sono di casa nell’ebraismo del primo secolo. In quel contesto, anche il magnifico prologo di Giovanni – “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” – è molto ebraico. Piuttosto che considerare gli insegnamenti cristologici come delle intrusioni pagane, noi ebrei dobbiamo riconoscere come questi insegnamenti avevano un senso per alcuni ebrei del I secolo.
Ma quello che aveva un senso per alcuni ebrei del I secolo, non lo ebbe più per gli ebrei di quattro secoli dopo. Le nostre tradizioni si sono allontanate man mano che gli ebrei e i cristiani hanno sviluppato le proprie pratiche e credenze. […] Va bene. Non raggiungeremo un accordo su tutto fino a quando non verrà – o, se preferite, ritornerà – il Messia. Ma fino ad allora, faremo bene ad ascoltare con le orecchie gli uni degli altri. Con l’apprendimento giunge la comprensione, e con la comprensione il rispetto.
Quando i cristiani leggono la Genesi o Isaia o i Salmi, vedono in quei testi cose che io come ebrea non vedo. Quando io leggo attraverso le lenti rabbiniche, negli stessi testi vedo cose che non vedono i miei amici cristiani».
In queste dichiarazioni della Levine ci sono passaggi a prima vista sconcertanti. Che significa, ad esempio, affermare che «i racconti di concepimenti miracolosi, della voce di Dio che discende dai cieli e della resurrezione sono di casa nell’ebraismo del primo secolo»? Non ci hanno forse insegnato al catechismo – almeno sessant’anni fa, quando il catechismo era (purtroppo) una trattazione teologica in miniatura – che Maria era l’unica donna nella storia umana ad aver concepito verginalmente un bambino? Che suo figlio, Gesù di Nazareth, era l’unico uomo al mondo ad essere tornato in vita dopo il decesso? Ora una studiosa indipendente, e competente, ci spiega – quasi en passant – che i racconti evangelici vanno inquadrati nella cultura ebraica del I secolo: in un universo simbolico in cui era evidente, sia a chi scriveva che a chi leggeva o più spesso ascoltava, che, quando si tentava di dire il divino, non si usavano descrizioni oggettive di fatti empirici ma metafore poetiche, miti tradizionali, immagini convenzionali. Il dilemma se “credere” o meno resta inalterato nella sua sostanza: solo che “credere” non significa accettare ciecamente che alcuni eventi si siano letteralmente svolti bensì accettare liberamente il significato spirituale, esistenziale, etico per la nostra vita di quelle narrazioni simboliche.
È quanto, timidamente e pionieristicamente, spiegava a proposito dei vangeli dell’infanzia il grande Ortensio de Spinetoli in un saggio (Introduzione ai vangeli dell’infanzia) meritoriamente ristampato nel 2018 dalle edizioni Il pozzo di Giacobbe di Trapani; ed è quanto ha successivamente spiegato, a proposito di tutto il Nuovo Testamento, il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, nel volume molto istruttivo Letteralismo biblico: eresia dei Gentili. Viaggio in un cristianesimo nuovo per la porta del Vangelo di Matteo, pubblicato sempre nel 2018 a cura di don Ferdinando Sudati per i tipi dell’editore Massari di Bolsena (Vt).
Insomma: posso trovare nella Baghavad Gita o nella Divina Commedia o ne Il Signore degli anelli delle intuizioni sul mondo, e delle indicazioni per vivere nel mondo, che mi illuminano e mi sostengono oppure che mi lasciano indifferente; in nessuna delle due ipotesi, però, sarebbe serio accettare o rifiutare questi testi sulla base di ciò che si ritiene della loro veridicità storica in senso letterale. Così dovrebbe essere per la Bibbia (e per il Corano). Ma così purtroppo non avviene né per molti dei (sedicenti) credenti né per molti dei (sedicenti) non-credenti. Con quali conseguenze anche socio-politiche disastrose è sotto gli occhi di tutti: il letteralismo è l’anticamera del fondamentalismo e il fondamentalismo (ebraico, cristiano, islamico o laicista) è la legittimazione delle chiusure a riccio e delle intolleranze.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è fondatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018).
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