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Economia e Poesia

denarodi Fabio Sebastiani 

Questo articolo vuole essere una piccola provocazione, o grande, a seconda di quanto si voglia andare oltre le semplici basi del ragionamento che qui viene posto nella sua generalità. L’oggetto è il profilo dei nessi tra poesia ed economia. Si cercherà di rispondere a questa domanda: la poesia può rappresentare un luogo di riflessione utile alla società in un momento in cui l’economia non sembra poter assicurare orizzonti di benessere collettivo e nemmeno grandi possibilità alle giovani generazioni? Sinteticamente, l’economia ha bisogno della poesia? E ancora, perché proprio la poesia dovrebbe svolgere questo ruolo? 

La “scienza triste”, come definì l’economia Thomas Carlyle, saggista e filosofo in un saggio del 1849, mostra sempre più chiari limiti nel riuscire a indicare soluzioni valide non tanto per uscire dalla crisi ma per essere quella “regola della casa comune” utile a promuovere l’armonia nella società offrendo almeno alla maggioranza dei cittadini e delle cittadine la possibilità di un percorso concreto e di una collocazione nel consorzio sociale. L’economia è sempre più l’applicazione rigida di regole del più forte contro i più deboli, quindi di una parte minoritaria contro la maggioranza. È una scienza, se così la vogliamo definire, che più normativa di così davvero è difficile immaginarla e assolutamente non in grado di interrogarsi sul suo futuro e, di conseguenza, su quello della società intera. È una “normatività” retroflessa, quindi, molto più somigliante a una tecnica, al funzionamento di un apparato, che a una sfida di natura epistemologica di fronte agli interrogativi epocali che si stanno sollevando nel mondo.

Il quadro epistemologico che viene utilizzato è piuttosto confuso. Spesso ci si interroga sul fatto che un vero e proprio campo di applicazione l’economia non ce l’ha. O meglio, non è così definito come nelle altre scienze. Non sono stati così frequenti, infatti, i momenti storici in cui una teoria economica, non avendo raggiunto gli obiettivi dichiarati, abbia “tolto il disturbo” ammettendo palesemente il suo fallimento. Di solito l’uscita di scena è lenta, perché dietro a ogni teoria ci sono solidi interessi di parte. È sempre stata la storia a doversene occupare. E sempre in grande ritardo rispetto ai danni effettivamente procurati. La procedura di validazione dell’economia sembra, quindi, essere molto debole. E quando i problemi superano le domande ecco intervenire una bella guerra in cui i soggetti economici ci si ficcano dentro fino al collo. 

2560907015951_0_0_536_0_75Come sappiamo, l’economia, soprattutto nella sua versione ortodossa, si è sempre voluta mantenere distante dai sistemi complessi, quelli con troppe variabili, che risultano dagli inevitabili nessi tra società e attività produttive, sfera psicologica degli individui, dinamica sociale dei gruppi, etc. Si è sempre preferito lasciare queste “sciocchezzuole” ad altri. Quale importanza possono avere queste “cose” di fronte alla sovranità del dio denaro, alla solidità degli interessi in campo? Oggi che l’economia riesce al massimo solo a stratificare crisi su crisi e che la sua funzione fondamentale sembra essersi ridotta al solo calcolo dell’esternalizzazione dei costi nel tentativo, nemmeno troppo malcelato, di assicurare, sempre e comunque, il profitto al capitale finanziario, i nodi arrivano al pettine.

Il “dio denaro” sembra essersi allontanato dal mondo grazie al salvacondotto che gli uomini stessi gli hanno fornito. Si è allontanato da quelle cose concrete che prima incarnava pur in modo in perfettibile. Ora la “perfezione” è a suo esclusivo uso e consumo costringendo il mondo a “sacrifici a prescindere”. Ma quanto potrà durare? In breve, non solo la “scienza triste” sembra qui dover fare i conti con una radicale quanto preoccupante mancanza di “fantasia” ma, avendo ridotto di fatto il suo campo di applicazione, sta ritagliandosi un ruolo oggettivamente corporativo.

L’economia è, per dirla con un ossimoro, “in crisi di valori”. Non da oggi, certo. È da oggi però che l’esito di questa crisi sembra sempre più tornare ad alludere alla guerra, alla rottura traumatica, alla catastrofe. Con la guerra, infatti, ogni sistema economico perde qualsiasi presa sulla realtà. Il riazzeramento della complessità nel binomio guerra-economia ha lo stesso sapore del reset nei sistemi digitali: l’insolubilità del problema viene superata non attraverso una salutare, per quanto drammatica, crisi ma attraverso la fine drastica di ogni operatività e funzionalità. Il punto è che l’inizio successivo, lo start, avviene in realtà esattamente con gli stessi programmi della “vita precedente” e quindi la prospettiva di un nuovo shutdown torna ad essere di nuovo reale esattamente come nel ciclo precedente.

Tutti questi ragionamenti furono mirabilmente messi in evidenza, seppur con un taglio diverso, da Luciano Gallino, che guarda caso si era occupato anche di sociologia e di cibernetica. Con una impressionante lucidità Gallino in Finanzcapitalismo aveva individuato nel “vicolo chiuso” dell’autovalorizzazione del denaro, tanto più che nella sua forma elettronica, la fine di ogni “senso” umano dell’economia, di ogni finalizzazione al bene comune. Previsione del tutto azzeccata. Il sistema non può che andare verso la guerra perché non riesce a trovare una soluzione possibile entro le regole attraverso le quali è stato costruito. Cosa ne possiamo ricavare?

9788806250102_0_424_0_75Primo, ridurre l’esperienza umana alla “narrazione” assolutistica del denaro non è né raccomandabile né utile; secondo, praticare un utilizzo fortemente parzializzato alla valorizzazione del capitale finanziario dell’immenso sviluppo tecnologico raggiunto dall’umanità è di fatto una nuova forma di schiavitù perché viene perseguita la “via breve” dell’utile monetario tralasciando tutte le altre possibilità che potrebbero risultare utili e funzionali. Non è tanto una sorta di buonismo a dettare questa osservazione quanto il fatto che la sfida posta dalla natura attraverso il cambiamento climatico o l’affrontiamo con creatività, democrazia, partecipazione e coinvolgimento oppure diventerà il sacrificio di molti a vantaggio di pochi.

Ma il denaro, si sa, è incapace di praticare quei “valori” se non nella misura in cui possono essere misurati entro un sistema di poche regole “economiche” e non come propri della condizione umana oggi. Detto in altri termini, la storia evolutiva della terra, contesto in cui volenti o nolenti siamo inseriti, ci pone una scelta precisa inserendo una nuova variabile “fine delle risorse” che prima non veniva assolutamente considerata: o diamo una risposta che sia concretamente all’altezza oppure non ci sarà una “nicchia” tecnologica in grado di salvarci. E la scelta sarà tra un disastro e l’altro e non tra sistemi economici. E se ci sarà una scelta potrà privilegiare, proprio perché tecnologica e non nell’ordine naturale delle cose, solo qualche milione di individui.

Questo ragionamento è decisivo perché ci porta direttamente nel cuore della “tristezza” dell’economia oggi, che non è più in grado di tracciare la procedura per una scelta razionale a proposito dell’allocazione delle risorse al fine di preservare l’integrità di una comunità o di un sistema di comunità ma è un meccanismo puro in grado solo di esternalizzare i costi, ovvero progettare la finalizzazione di tutti i fattori di produzione alla sola generazione immediata del profitto. Se non è tristezza questa? In questo modo non si creano valori, né mercato. In questo modo si creano altre tipologie di schiavitù. Non si mettono cioè le persone nelle condizioni di affidarsi alle proprie risorse per individuare nuove strade nella produzione della ricchezza. Le persone, ed è quello che cercherò di dimostrare introducendo il discorso sull’importanza della poesia, non sono più in grado di comunicare realmente tra loro, di scambiarsi un senso del loro fare o anche, più semplicemente, di avere a disposizione un “senso” da poter scambiare. L’uniformità, l’arretratezza, la precarietà della loro condizione non concede vie di sorta.

Il ricatto del capitalismo finanziario verso la società è fin troppo chiaro: “too big to fail”. Ora però, quello che sfugge è che trattandosi di un dio che si è “allontanato dal mondo”, ci ritroviamo a dover fare i conti con un monito più che di con un fatto reale. Siamo tornati alle tavole, e ai dieci comandamenti. Siamo in piena epoca del dominio del simbolico. Molto quindi, si gioca sull’economia del senso, linguisticamente parlando. Il capitale non muove più nulla di concreto e di utile perché la “storia della concretezza” è oggettivamente a un punto di svolta in relazione alla disponibilità delle risorse. E il finanzcapitalismo sta dimostrando di non poterla affrontare in modo proficuo e utile all’intera società.

Fuori di metafora, il “too big to fail” è l’unica carta che il “finanzcapitalismo” ha in mano per prolungare la sua agonia. In questo senso però possiamo dire che scopre il suo tallone d’Achille ma anche la via diretta al caos. È proprio la scala “too big” a mettere in dubbio la sua capacità di reazione rispetto ai disastri, tutti in fila, davanti all’umanità. È proprio il gigantismo della dimensione a rivelarsi inadeguato. Non è un caso che tra i due gigantismi presenti attualmente nel mondo, quello Usa e quello della Cina, è proprio il secondo ad avere qualche prospettiva in più di cavarsela. E questo semplicemente perché cerca di tenere a freno e governare – l’istinto del profitto a prescindere – l’aridità e l’idiozia di una economia che ha perso ogni legame con la “casa comune”. Nel capitalismo socialista, insomma, c’è ancora una relazione tra mezzi e fini.

71thj4o1hnl-_ac_uf10001000_ql80_Il profilo del “too big to fail” è oggettivamente impressionante perché può sperare di mantenersi solo se è in grado di “creare senso”, cioè convincere l’umanità che non essendoci alternative al disastro va comunque pagato un alto prezzo. Tutta la partita si vince su quale “senso” l’umanità può accettare e in quali misure. Ma chi può davvero stabilirlo questo prezzo vista la dimensione delle forze in campo? Si noti anche l’impressionante correlazione con un modello molto simile, quasi gemello, a quello generato dall’impiego della bomba atomica. È sotto gli occhi di tutti ciò che ci ha portato, quasi ottanta anni di guerra strisciante: ben lontani da quel periodo di pace e prosperità in cui l’umanità sperava, e lavorava duramente per raggiungerlo, dopo aver toccato il pericoloso punto di non ritorno dell’Olocausto e della guerra nucleare.

Ma c’è un elemento decisivo che completa, coerentemente, il profilo del “too big to fail”, la digitalizzazione che non è solo un semplice strumento in mano al finanzcapitalismo, utile a rendere sempre più veloci le transazioni aumentando il ruolo pervasivo e totalizzante del denaro. Questo è piuttosto ciò che vediamo in superficie, ma non per questo meno pericoloso. Va sottolineato, infatti, che la digitalizzazione nasce all’interno della cova capitalistica degli scambi e del commercio e sta diventando sempre di più un preciso programma di potere. Anche se di questi tempi con la parola “potere” si tende a spiegare un po’ tutto, il programma di digitalizzazione dell’economia e della società mutua di fatto una struttura che prevede nell’esercizio effettivo del potere un passaggio funzionale decisivo.

Si badi, un potere costituente che prende origine dalla necessità di eliminare innanzitutto l’alea attraverso l’imposizione del meccanismo, la vecchia reminiscenza del capitalismo commerciale e industrialista che torna sotto mentite spoglie. È una macchina sì, ma del tutto particolare. È, innanzitutto, una macchina che avendo ridotto al minimo la sua dipendenza dal mondo concreto e storico (se non in un modo che spiegheremo più avanti), e ponendo la sua possibile evoluzione in direzione del calculus e del simbolico non ha davanti a sé una “senescenza” prossima ventura. Ha un solo punto debole, che è poi quello che di fatto costituisce la sua attuale forza, e la qualifica come una macchina al servizio del potere: per funzionare ha bisogno di ridurre l’universo simbolico ad una struttura in cui il significante sia in stretta corrispondenza biunivoca con il significato. Questo la caratterizza sia nella fase di programmazione che in quelle a seguire. Non possono più esistere sfumature di senso, quindi. Se il computer mostra capacità disambiguazione delle stringhe in entrata è solo perché ha una grande potenza di calcolo e una massa sterminata di dati a disposizione. L’istruzione, che è alla base del suo funzionamento, non prevede ambiguità di sorta nella fase di acquisizione dei dati e meno che mai negli effetti della performance, nella presa sulla realtà.

Quindi la macchina digitale ha possibilità di affermarsi solo se le si offre la possibilità di ridurre l’ambiguità dei sistemi simbolici, fino all’azzeramento, tra cui il linguaggio, a sterili “portatori” di significato. Solo così si spiega il famelico bisogno di dati e informazione che hanno tutte le macchine digitali. Perché è evidente che solo studiando in corpore vili l’utilizzo dei simboli può trarre indicazioni utili alla riduzione dell’ambiguità. Ma essendo quello delle macchine digitali un programma di potere, semplicemente perché sono state create dal potere e hanno bisogno del potere come fattore di normalizzazione delle condizioni in cui riesce a lavorare e crescere, la riduzione dell’ambiguità è di fatto finalizzata al controllo e alla riduzione in schiavitù dell’intera società. Schiavitù come finalizzazione di tutti i fattori di produzione verso l’ottenimento del massimo profitto. Una schiavitù che non ha bisogno di catene e di leggi speciali ma solo della distruzione del linguaggio e di tutti i sistemi simbolici nella loro essenza di sistemi ambigui.

9788834611111_0_536_0_75Vale la pena qui di specificare che per ambiguità non si intende mettere in luce del linguaggio una qualità negativa. Anzi, attraverso questo concetto, così comune in linguistica, altrimenti detto “polisemia”, si coglie un punto che ci porta dritti al “significato” profondo delle lingue e della loro presenza nella storia dell’uomo. L’ambiguità del linguaggio è ciò che ci ha donato alcune proprietà decisive ed essenziali del linguaggio: l’evocazione e la connotazione, per esempio. Sono queste qualità che rendono il linguaggio, e le lingue, meccanismi non assimilabili totalmente alla ricorsività, cosi come ci aveva illustrato Chomsky. Il linguaggio va visto quindi come un oggetto “multistrato” composto certo da meccanismi ricorsivi come le grammatiche, ma anche di grandi potenzialità di evocazione e connotazione tali da aprirci mondi dai confini illimitati quali la psicanalisi, ma soprattutto la poesia.

Qualcuno potrebbe obiettare che quando la prosa non si mischia troppo con lo stile e con la letterarietà può anch’essa vantare queste potenzialità. È vero, ma solo in parte: primo, perché la “pratica” moderna della prosa è qualcosa di eccessivamente sovrapponibile ai meccanismi ricorsivi di generazione dei testi. Secondo, perché bisogna tener conto di una differenza caratteristica che risiede, tra l’altro, in un fatto decisamente empirico, e pienamente interno alla poesia come processo fondamentalmente ermeneutico: a differenza della prosa la poesia può permettersi di dichiarare di volta in volta le regole interne interpretative. È come se la poesia inventasse passo passo la possibilità di farsi capire portando il lettore in territori del tutto sconosciuti e mostrandogli lì le regole interpretative. Siamo qui nella sfera dell’accadere della poesia, del suo farsi nuovo testo a ogni nuovo incontro, non solo sfidando l’usura del tempo ma producendo di fatto altro “senso”.

Questa autonoma capacità generativa di senso è riconosciuta universalmente alla poesia. Esiste, pertanto, un limite spazio-temporale impenetrabile, che separa l’approccio digitalista al mondo e la poesia: la poesia accade, la macchina digitale no, perché se per accadere deve essere dotata di una adeguata informazione in entrata rimane da chiedersi da dove questa informazione verrà tratta se deve ancora accadere. Il digitale rimane quindi incastrato in questa sorta di paradosso dell’accadere.

È dentro questo orizzonte che va cercato questo spazio irriducibile e, nello stesso tempo, vitale per la riaffermazione di un futuro umano per l’uomo stesso. E la poesia può dare un grande contributo. Può diventare, nel contesto attuale caratterizzato da una lotta senza quartiere al senso e alla polisemia, una grande risorsa sia nella direzione del riscatto che della “correzione” della storia umana.

Questo ancora non lo vediamo perché la poesia non è più una pratica sociale, come lo è stato anticamente, ma un’arte, per di più elitaria nella sua fruizione. L’economia si trova in panne non solo perché non riesce a trovare un senso a se stessa nella concretezza che il suo stesso sviluppo ha provocato, ma perché non dà più modo alle persone di produrre oggetti e relazioni con un senso né li mette nelle condizioni di senso affinché questi possano dare un contributo al loro gruppo di riferimento verso il quale intrattengono rapporti economici minimi ovvero alla stessa collettività sociale. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.

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