L’estate che avanza si arroventa e si incanaglisce intorno alle parole vecchie e nuove del razzismo, declinato nelle sue molteplici varianti e mille sfumature: odiose e rancorose, tattiche e felpate, becere e belluine, allusive e pudiche, muscolari e rudimentali, ambigue e oblique. Che in Europa deteniamo il triste primato del Paese più razzista nei confronti di rom e musulmani, è purtroppo certificato dai risultati di una ricerca internazionale recentemente condotta dal Pew Research Center. Si ha timore ad ammetterlo, si ama associare agli italiani l’indulgente e autoassolutoria formula di “brava gente”. Siamo pronti a giustificare ogni forma di intolleranza, a scambiare il cinismo per realismo, il disprezzo verso l’altro per orgoglio identitario, il rispetto delle persone diverse da noi per ingenuo buonismo. Siamo soliti fare ricorso ad ogni ameno e fantasioso eufemismo lessicale, pur di non chiamare le cose col loro nome. La verità è che la storia e la cronaca del nostro Paese sono attraversate da una costante e oscura cicatrice: una mozione di insicurezza collettiva che genera una sistematica rimozione delle nostre responsabilità su discriminazioni e ingiustizie consumate nei confronti di minoranze stigmatizzate nel segno della diversità tout court. Chi è razzista nega di esserlo e alle sue affermazioni di palese xenofobia si accompagnano spesso complici e pavidi silenzi, quando non compiaciuti e pubblici consensi.
Il neorazzismo detabuizzato in politica, avendo convertito il naturale nell’etnico, rischia di diventare senso comune, retorica popolare, socializzazione dei rancori più oscuri e dei risentimenti più inconfessati. I maestri imprenditori delle paure entrano nelle nostre case e disseminano l’odio in piccole dosi quotidiane. Che vestano felpe inneggianti alle ruspe contro i rom, che confondano topi, clandestini e spazzatura in una unica apocalittica invettiva, che mobilitino e militarizzino scientificamente le legittime fobie per trasformarle in falangi di livore e repulsione per i migranti fino al punto da promuovere respingimenti di massa e istituire frontiere interne che impediscano il loro accesso sui territori delle regioni governate, il mosaico che si articola e si compone alla fine è quello di una perfetta saldatura tra i diversi razzismi: istituzionali o popolari, intellettuali o istintuali, strutturali o inconsci che siano. Tutti unanimamente schierati a teorizzare l’inferiorità degli altri per esorcizzare e rimuovere la propria.
La violenza del linguaggio verbale è la spia della degenerazione etica e civile, dell’omologazione di un sentire comune che associa ieri l’ebola oggi la scabbia all’eterna psicosi dello straniero, alla minaccia ricorrente della dilagante pandemia, alla strenua difesa di una presunta purezza. Le parole – come è noto – sono pietre, non sono entità volatili, sono atti, producono gesti, hanno il potere di plagiare le menti e di manipolare le verità. Disvelano ciò che siamo e non solo ciò che pensiamo o sentiamo. Ecco perché la vera e unica peste che ci assedia è quella del linguaggio che ci ha abituato giorno dopo giorno alla consumata e oscena arte del dileggio e della denigrazione, alle volgari ingiurie al posto del confronto dialettico, alle banali semplificazioni piuttosto che alle rigorose e faticose argomentazioni.
L’acuirsi della crisi economica e l’indebolimento del sistema del welfare, la precarizzazione dei diritti civili e lo sfaldarsi dei sentimenti di coesione nazionale e di solidale socialità, concorrono certamente a rendere particolarmente sensibili e vulnerabili quanti si illudono di trovare nella individuazione del capro espiatorio la soluzione più immediata ai problemi. Resta vero che l’immigrazione costituisce un test formidabile per valutare la tenuta e la qualità della nostra stessa democrazia, del nostro sistema di convivenza. Non c’è fenomeno più totalizzante e pervasivo che investa in profondità ogni aspetto della vita quotidiana e sociale delle comunità e, per la sua implicita complessità, non provochi contraddizioni, conflittualità, attriti e tensioni. Su questo tema da ogni punto di vista centrale del nostro tempo, su questa questione nevralgica del mondo contemporaneo, la politica, se non fosse mediocremente conformata e svilita negli squallidi giochi del marketing, dovrebbe rendere chiara la distinzione tra la destra e la sinistra, dovrebbe segnalare la presenza di due diverse visioni della società e soprattutto del futuro possibile, che resta l’unico luogo di orientamento ideale e costruzione progettuale. Accade invece che, a livello nazionale ma anche sciaguratamente in contesto europeo, finiscono col prevalere, senza sostanziali distinguo tra gli schieramenti dei partiti e dei governi, un’esasperata e demagogica ansia securitaria, un arroccarsi sulle categorie populiste della propaganda nazionalista, un attardarsi a presidiare le ottocentesche trincee dei confini.
L’immagine dei migranti che – aggrappati agli scogli alla frontiera tra Mentone e Ventimiglia, sospesi in una sottile striscia di nessuno, in bilico tra terra e mare, fantasmi di corpi avvolti in surreali e fosforescenti coperte isotermiche – invocano libertà di movimento, per non essere più ostaggi di guerre, carestie e dittature, è la rappresentazione emblematica di quel che è in gioco: l’elementarmente umano, il radicale diritto all’esistenza della persona, il dovere fondamentale di rispettarne la dignità. A fronte di questi principi nati nel cuore del vecchio continente e negati dagli attuali governi dei Paesi della Unione Europea si dispiega il fallimento di tutta una classe politica, la inadeguatezza di leader senza coraggio né lungimiranza che, a trent’anni esatti dal trattato di Schengen pensato per abbattere i muri e favorire la circolazione dei popoli, hanno innalzato nuove cortine e chiuso le porte, dimenticando che, come ha scritto Enzensberger, «quanto più tenacemente una civiltà si difende da una minaccia esterna, quanto più si chiude in se stessa, tanto meno alla fine ha da difendere. Quanto ai barbari, non è necessario aspettarli davanti alle porte della città. Sono qui da sempre».
Nessuna invasione barbarica, dunque. I barbari sono tra di noi, non dobbiamo cercarli altrove, si riconoscono perché le loro parole distillano disprezzo per gli altri, sono gli accaniti faccendieri della xenofobia, i corruttori delle nostre coscienze, gli speculatori delle nostre debolezze, delle nostre fragilità emotive, sono in una parola i razzisti di sempre, quelli che per lucrare qualche vantaggio elettorale seminano, coltivano e alimentano le paure nascoste nel profondo delle collettività umane in tempi di grandi mutamenti sociali ed economici. Proliferano e strepitano nei talk show, si agitano e si eccitano negli sfogatoi dei social network, ma affollano e animano anche i bar e le piazze delle nostre città. Parlano la lingua tanto semplice quanto infida dell’imbroglio etnico, della irriducibile purezza identitaria, del primato del Noi sugli altri, sugli stranieri, sui clandestini, su quanti minacciano il nostro ordine, i nostri interessi, i nostri spazi.
A guardar bene, dallo stesso inquietante grumo di violenze e intolleranze, dalla stessa carica di radicale minaccia, dalla pervicace volontà di sobillare odio e paure muove l’orrore islamista di chi oggi prepara stragi e ordisce attentati in nome di un rinascente e anacronistico Califfato. Terrorismo, in fondo, l’uno e l’altro, un cortocircuito di fondamentalismi, un coacervo di atti rovinosi e parole d’ordine che si autoalimentano reciprocamente, dentro il progetto di una comune guerra santa fatta di strategie paranoiche e di utopie apocalittiche. Non c’è forse un eguale oscuro fondo razzista sia nei disegni politici di chi sgozza e uccide per affermare la supremazia di una religione incorrotta, sia nella canea verbale di chi non taglia le gole ma ottunde le menti, dissemina l’islamofobia, invoca con furore la difesa della civiltà contro le orde dei selvaggi che vengono dal mare?
Le pagine di questa nostra rivista continuano a rivolgersi a chi voglia “restare umano” – per mutuare l’espressione cara allo sfortunato e generoso scrittore Vittorio Arrigoni, vittima della violenza razzista dei salafiti – a chi voglia cioè impegnarsi nel faticoso esercizio di capire le ragioni degli altri, di orientarsi nella interpretazione dei fatti, nella analisi dei fenomeni e nella ricerca ragionata di cause e possibili soluzioni, oltre le nebbie della regressione culturale in cui siamo sprofondati. In questo sforzo ci aiutano i diversi autori che collaborano con Dialoghi Mediterranei, giovani laureati e più maturi studiosi di formazione prevalentemente antropologica, della Scuola di Palermo ma non solo. Questo numero accoglie con grato orgoglio il prezioso contributo di Giulio Angioni, il noto antropologo sardo impegnato in una rilettura delle questioni estetiche contestualizzate in relazione ai nuovi orientamenti teorici e ai tumultuosi sviluppi della globalizzazione. Di grande interesse è anche l’articolo di Matteo Meschiari, che torna a scavare e a ragionare sulle categorie tipologiche dell’alterità, sui processi di costruzione delle figure plasmate sul sottile crinale tra natura e cultura.
Di migrazioni, di forme estreme di ritualità, di dinamiche sociali dello spazio urbano, di semiotica e di retoriche della scrittura e delle narrazioni nonché di relazioni tra sistemi cognitivi e apparati sensoriali scrivono e discutono altri autori secondo le diverse sensibilità antropologiche di ciascuno. Su memorie storiografiche e mitologiche come su fatti e fenomeni dell’attualità politica e culturale, non meno che su eventi letterari, teatrali, artistici e musicali, si misurano i numerosi studiosi che ci introducono alla ricognizione critica dei molteplici aspetti della complessità contemporanea. La eterogeneità dei temi e degli ambiti proposti non aspira certo a trasformare la rivista in una “rassegna di varia umanità”, ma corrisponde piuttosto all’obiettivo di intrecciare e ibridare esperienze di ricerca e saperi disciplinari diversi nel segno di una riconoscibile prospettiva di ricerca, orientata a evitare le aride secche dello specialismo e le angustie dell’autoreferenzialità scientifica.
Resta e si conferma la nostra speciale attenzione per le espressioni più significative della cultura figurativa e della fotografia in particolare. La sezione Immagini ospita in questo numero i magici scatti in bianco e nero di Martino Zummo, con le atmosfere rarefatte di un Mediterraneo sospeso tra isole e penisole, lungo un itinerario tra Sicilia, Grecia e Tunisia percorso nel solco tracciato dalle parole di Camus, virgilio che conduce il fotografo palermitano alla iniziazione e alla scoperta dei miti studiati a scuola e ritrovati nei paesaggi umani. Ritornano infine i versi di Nino De Vita, in una suggestiva poesia inedita che, nel mistero del contenuto di una lettera e del destino di un uomo, sembra voler richiamare le inquiete e surreali trame care a Buzzati, interpretando il senso di una attesa, di un’angoscia e di una solitudine che sono compagne nella vita quotidiana di tanti giovani del nostro tempo avaro. La poesia e i poeti – come sempre accade – nel guardare oltre l’effimera apparenza del visibile possiedono il privilegio di attingere alla sostanza inesplicabile dell’invisibile.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
SOMMARIOGiulio Angioni Arte versus non arte
Giacomo Bianco Pontelandolfo 1861, memoria di un eccidio. Intorno al brigantaggio e all’annessione
Eleonora Bommarito Soggettività migranti e spazio a Ballarò. Quattro metafore spaziali
Annamaria Clemente Per una pietas delle storie di vita
Federico Costanza Il fardello dell’uomo bianco Barbara Crescimanno Kore e le Ninfe nel Mediterraneo, tra api e miele
Alessandro Curatolo Twin beds with bathtub please!
Antonino Cusumano Immaginare nuove vite possibili. La variabile generazionale nei processi migratori
Valeria Dell’Orzo Appunti per un’antropologia del Cinema: la costruzione condivisa di un’idea
Nino De Vita ‘A littra Piero Di Giorgi Le riforme di Renzi, la corruzione politica e gli egoismi dell’Ue
Federico Furco L’INDA a Segesta, secondo polo del teatro classico in Sicilia Concetta Garofalo Il pensare come narrazione di percorsi
Marta Gentilucci La memoria di una casa editrice e di una città
Nino Giaramidaro Il Mistero in una stanza
Eugenio Giorgianni Bacchanal, il Carnevale degli schiavi. Dai Caraibi a Manchester
Tommaso Guariento Matteo Salvini e il nicodemismo
Virginia Lima Corpo e narrazione: eroi, santi e politici, modelli culturali a confronto
Luigi Lombardo Sulle rotte del vino
Matteo Meschiari Sugli “enfants sauvages”. La foresta senza la foresta Antonella M. G. Modica Cannibalismo e identità. Spunti di riflessione
Stefano Montes In sordina a Auschwitz. Tra sensibilità e razionalità, ordinario e straordinario Francesca Morando Introduzione all’astronomia culturale arabo-islamica
Stefania Morreale La migrazione albanese come rituale di passaggio alla vita adulta Valentina Rametta
Marcello Saija Il Museo dell’Emigrazione di Santa Ninfa Marco Sanfilippo Scuola del fumetto di Palermo: dove il disegno diventa lavoro
Orietta Sorgi La memoria raccontata. Quando la storia di vita è quella di un antropologo
Marcello Vigli Un’enciclica per il futuro
Martino Zummo Il Mediterraneo. Frammenti di memoria di un viaggio di iniziazione ****