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EDITORIALE

Vittoria (ph. Leone)

Vittoria (ph. Leone)

Mentre il cuore dell’Italia continua a tremare e i sussulti della terra stravolgono le vite e i pensieri quotidiani di famiglie e di intere comunità, mentre nel Mediterraneo un popolo disarmato di uomini, donne e bambini continua ad affondare nel buio e nel silenzio dei naufragi, sentiamo il peso stanco e retorico di ogni nostra parola, che pure vorremmo ancora levare contro la rassegnazione alla paura dell’interminabile sisma e allo scandalo delle ripetute stragi per mare dei migranti. Il nostro Paese sembra stretto e attanagliato nella morsa greve delle paure, come paralizzato o smarrito nella crisi collettiva dell’abitare e del convivere. Anche di questo Dialoghi Mediterranei ha inteso scrivere in questo numero, che tuttavia ha ritagliato uno spazio monografico su un tema dibattuto e controverso, una questione di grande attualità che chiama in causa le ragioni costitutive e fondanti della nostra stessa rivista, mettendo al centro il senso radicale e profondo del dialogo in rapporto alle verità e ai dogmi dei monoteismi.

Muovendo dall’ipotesi, prospettata in un articolo di Marco Ventura (La lettura, Corriere della Sera, 10 luglio 2016), di costruire un luogo comune ai fedeli delle tre religioni monoteiste, ci si interroga sulla possibilità, sull’opportunità, sull’utilità di realizzare questa ipotesi. Si ragiona sul piano filosofico, antropologico e teologico intorno agli spazi possibili di compatibilità e di interazione tra monoteismi che hanno radici storiche e culturali comuni ma si sono evoluti e sviluppati in forme distinte e distanti sulla base di sistemi normativi ontologicamente differenti e indipendenti. Abbiamo invitato alcuni studiosi a dibattere sulle potenzialità e sui limiti di un dialogo tra fedi e tra fedeli, tra le diverse sacre scritture e tra le pratiche in uso nella quotidianità dei culti, tra le proposizioni teologiche delle tre religioni. La riflessione non poteva non considerare i diversi aspetti relativi all’attualità: i rapporti tra religioni e violenza, le prospettive e le insufficienze storiche del dialogo interreligioso, le retoriche e le ambiguità dei discorsi politically correct, i fondamentalismi impliciti nei testi canonici, le dinamiche culturali, i problemi e i modelli fin qui sperimentati intorno alla convivenza interetnica e all’integrazione degli immigrati anche attraverso i matrimoni misti.

Abbiamo raccolto diverse adesioni al nostro invito e pubblichiamo in questo numero i primi contributi, che il lettore trova riuniti e ordinati nella seconda parte del sommario; altri interventi saranno messi in rete nel prossimo numero. Le voci diverse, per approcci e competenze, la pluralità dei punti di vista e di stili comunicativi offrono una rappresentazione frastagliata e variegata delle questioni che, in tutta evidenza, sono nella loro complessità dense di molteplici implicazioni e di opzioni interpretative. C’è chi prende le mosse dalla cronaca (Armano), chi dalla storia (Branca, Pellitteri), chi s’intrattiene sulle sacre scritture (Di Simone, Rindone), chi privilegia il ragionamento sugli aspetti culturali connessi al sacro (Armano, Montes). C’è chi ha inteso dare un’esplicita risposta (per lo più negativa) all’ipotesi progettuale di un comune edificio destinato ad accogliere e a rappresentare le tre religioni, c’è chi ne ha tratto lo spunto per proporre una più ampia riflessione sull’organizzazione degli spazi in relazione alle emergenze architettoniche e simboliche dei luoghi di fede, «ombelichi del paesaggio urbano» (Schiavo). Tutti – in maniera e misura diverse – si sono posti laicamente davanti alle questioni connesse al dialogo interreligioso, «evitando il bigottismo che induce a manipolare avvocatescamente i passaggi scomodi» (Cavadi), ammonendo sui rischi dell’anomia «in linea con la dominanza culturale della globalizzazione» (Parisoli), riconoscendo che «non è anzitutto la differenza dogmatica o dottrinale delle varie religioni a costituire un ostacolo per la reciproca comprensione» (Branca), individuando nell’abbraccio mortifero col potere le cause della sclerotizzazione della religione che «perde la propria vitalità, smette di essere apertura verso l’ignoto, si riveste di certezze, condanna il relativismo della verità, non capendo che è la realtà a essere una sola, e le verità che ne conseguono sono tante quanti sono i punti di vista di chi cerca di comprenderla» (Meale).

Pur nella rivendicazione delle specifiche identità confessionali, le posizioni di tutti gli autori intervenuti nel dibattito sembrano pressoché attestarsi nel segno del rispetto della pluralità e della reciprocità, quale dato costitutivo e oggettivo del dialogo interreligioso. Di «storia di aree comunicanti» scrive Antonino Pellitteri, richiamando le esperienze di convivenza delle comunità cristiane in terra d’Islam, e precisamente in ambito siro-mesopotamico e nord-arabico. Sulla «compatibilità e interazione tra monoteismi» s’interroga Marcello Vigli, consapevole della necessità di «sviluppare l’analisi della funzione che [le religioni] hanno nelle società in cui sono radicate, come premessa al confronto dialogico, e di praticare l’impegno a dissociarsi, denunciare e ripudiare ciascuna i propri estremismi». Se è vero che «le religioni si dichiarano portatrici di verità assolute che non possono essere messe in discussione, l’unico rapporto possibile tra i fedeli di diverse religioni – sostiene Adelkarim Hannachi – è quello dell’accettazione, del rispetto reciproco ed eventualmente della condivisione ecumenica. E la prima regola del rispetto è quella di non arrogarsi il diritto di interpretare i testi sacri degli altri».

Sulla presenza interreligiosa ai funerali della giovane ricercatrice Valeria Soresin, vittima degli attentati a Parigi, Linda Armano sviluppa il suo ragionamento intorno ad un ethos del trascendimento della morte e del male «capace di fare fronte alla vulnerabilità umana in Occidente». L’unione di Ebraismo, Cristianesimo e Islam, dunque, come argine del sacro contro la violenza e la barbarie degli atti terroristici, come logos ritrovato sul piano metastorico che sfida il caos inintelligibile della postmodernità. Stefano Montes infine, nel suo stile di antropologo narratore, «prendendo spunto da alcuni frammenti di vita personale», dall’incontro casualmente intrattenuto in tempi e luoghi diversi con un gruppo di mormoni e con un ragazzo marocchino, ci ricorda, in fondo, che il dialogo è la prima forma del linguaggio, che «la vita stessa può essere vista come – non è altro che – una lunga ricerca di dialogismo nel suo complesso», che «la religione non è mai soltanto la religione poiché essa è – diviene – molteplice appartenenza al sistema della cultura. E, per quanto strano possa sembrare, ciò vale anche per quelli che possono essere visti come impermeabili monoteismi e per alcune figure che li sostanziano».

Mettersi nella pelle dell’altro, provare a tradurre l’altro non è soltanto un paradigma metodologico dell’antropologia ma è anche un certo stile di vita, habitus di ogni autentico percorso conoscitivo, di ogni possibile convivenza, di ogni esperienza dialogica. Mi viene in mente un noto apologo, che forse non è inutile richiamare. Si tratta della parabola dei tre anelli, che si trova nel Decamerone, la terza novella della prima giornata, che è stata in vario modo narrata da autori medioevali e ripresa nel 700 dal drammaturgo tedesco Lessing nell’opera Nathan il saggio. A chi chiedeva quale fosse la religione più vera, «la giudaica o la saracina o la cristiana», il saggio raccontò questa storia. Un anello magico, «un opale dai cento riflessi colorati che ha il potere segreto di rendere grato a Dio e agli uomini chiunque lo porti con fiducia», veniva tramandato come prezioso pegno di famiglia dal padre al figlio da lui più amato e perciò destinato a diventare il capo del casato. Quando l’anello giunse in possesso di un uomo che aveva tre figli e tutti amati in egual misura, egli lo promise in eredità a tutti e tre. Mantenne la sua promessa, avendo nel frattempo fatto realizzare altre due copie indistinguibili dall’originale, così che «venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascuno de’ figlioli». Convinti di essere in possesso del vero anello, i fratelli litigarono per il primato e finirono con l’interpellare un giudice che consigliò loro di comportarsi come se ognuno avesse quello originale: «ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello».

Al di là delle innumeri letture filosofiche, filologiche e teologiche che si sono misurate nell’esegesi della parabola e delle sue varianti, la lezione che oggi se ne ricava resta limpida e quanto mai attuale: nessuno dei tre figli può rivendicare la certezza di possedere il vero anello, nessuno dunque coltivi l’illusione o la presunzione che solo il proprio Dio sia il vero Dio. Nell’onesto e quotidiano esercizio del dubbio si risolve paradossalmente la “vera” fede quando è gestita e vissuta con il senso e il sentimento “veramente” religiosi. Alla indistinzione degli anelli, ricevuti per eredità dal padre comune, corrisponde il superamento della “distinzione mosaica” fondata sulla separazione del vero dal falso così che sembra riaffermarsi simbolicamente la consanguinità morale e spirituale che lega i tre monoteismi, la sostanziale declinazione plurale delle verità professate, l’arcaica memoria delle appartenenze storico-culturali condivise. Allo stesso modo, l’immagine del padre che ama “parimente” tutti e tre i figli è metafora della natura intimamente inclusiva a cui era riconducibile  la legge del Dio di Abramo.

Quanto l’insegnamento della parabola sia patrimonio di civiltà da salvaguardare e riproporre appare più che mai evidente in tempi di ferro come quelli in cui oggi viviamo. Laddove le memorie evaporano o si torcono, le appartenenze si militarizzano e le verità si inaspriscono, ogni forma di sincretismo è reso equivalente al “nefasto” relativismo, né c’è più spazio per negoziare o per ospitare sfumature e differenze. Torna l’ombra cupa dell’antisemitismo, cresce sulla spinta delle isterie politiche la malapianta dell’islamofobia, non cessano le stragi di cristiani martirizzati in terre di missione. Da qui i manicheismi, i fondamentalismi, gli integralismi che  trasformano le religioni in ideologie, i miti e le utopie in apocalittiche distopie. Da qui la dittatura delle paure che oggi ci opprime, la guerra contro chi fugge dalle guerre, gli egoismi sociali che forse non sono razzismi ma certo sono il frutto avvelenato di un generale impoverimento morale e di un clima culturale incanaglito.

L’assertività dei paradigmi di valutazione e di interpretazione, incagliati nella irriducibile opposizione noi/loro, domina il discorso politico, il senso comune e l’opinione pubblica, «a tal punto – scrive Annamaria Rivera – da gettare nello stesso calderone hijâb, burkini, mutilazioni dei genitali femminili, punizioni corporali, lapidazione delle adultere: riproponendo così il fantasma di un Oriente essenzializzato, ridotto a stereotipi, rappresentato come ricettacolo di ogni barbarie e arretratezza». A tal punto – aggiungiamo noi  – che dodici donne e otto bambini in cerca di rifugio possono trasformarsi in pericolosi nemici e gli abitanti che hanno alzato le barricate per respingerli possono diventare “nuovi eroi della Resistenza contro la dittatura dell’accoglienza”.

Nel coltivare ostinatamente il confronto e il libero dibattito delle idee, oltre le grida concitate e le sfide muscolari, anche in questo numero Dialoghi Mediterranei offre ai lettori un mosaico di contributi che nella diversità dei contenuti ricompone un quadro coerente e riconoscibile di significati, di espressioni e di orientamenti culturali. Si scriva di migrazioni o di letteratura, di economia o di  satira, di tuareg o di Antonello da Messina, di Marocco o di Israele, non è difficile leggere in filigrana la cifra identitaria della rivista.  Alle parole si associano sempre le immagini  del Mediterraneo, baricentro e cosmo di tutti i nostri discorsi. Giuseppe Leone è il maestro di cui abbiamo il privilegio di presentare una selezione di fotografie sulla Sicilia, «fulgido centro del mondo». Ha scritto di lui Antonino Buttitta che «la realtà che ha colto e reinventato, la sua Sicilia, è la Sicilia di ognuno di noi». E – ad osservare queste immagini che raccontano il rapporto dei paesi con il mare –  non c’è chi non vi ritrovi l’Isola degli scrittori, dall’Acitrezza verghiana dei Malavoglia allo Stretto di Messina dell’Horcynus Orca di  D’Arrigo. Non è senza significato che i testi dei maggiori scrittori siciliani, da Sciascia a Consolo, da Bufalino a Camilleri, abbiano accompagnato gli splendidi libri illustrati delle sue istantanee. La bellezza che il fotografo ricerca nei luoghi non fa velo alla loro verità e gli scatti di Leone sono tanto veri quanto belli. Così è pure l’immagine non a caso posta in apertura a questo editoriale, che nella sua icastica e semplice immediatezza sembra involontariamente spiegare e ricapitolare il senso ultimo del dibattito su Monoteismi e dialogo, ricordandoci che a dialogare non sono chiamate le religioni ma sono invitati gli uomini in carne e ossa, con i loro sogni più o meno spirituali e i loro bisogni più o meno materiali. Gli uomini che non hanno paura degli incontri, degli scambi e delle contaminazioni.

 Dialoghi Mediterranei, n.22, novembre 2016

giulio regeni

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