Se c’è un’immagine, un luogo, un evento che può ricapitolare l’anno appena concluso, il senso del nonsenso, il sentimento della barbarie incomprensibile che ha fatto irruzione nell’orizzonte della nostre giornate, se c’è un angolo della terra che, come l’Aleph di Borges, raccoglie e racconta tutte le regioni del mondo, metonimia e metafora del disordine geo- politico globale, teatro dell’abominio e del male assoluto, enorme cratere di rovine e di morte, se c’è un città che possiede la potenza simbolica di compendiare l’abisso in cui è precipitata la coscienza degli uomini, essa ha senza dubbio un nome: Aleppo. Qui, nel centro millenario più popoloso della Siria, sembra essersi dispiegata e concentrata la violenza cieca della Storia, la forza acefala e mai addomesticata della guerra: fosse comuni, cadaveri mutilati, torture e massacri di civili, tregue sistematicamente violate, bombe su ospedali e campi profughi, uso di armi chimiche, traffico di esseri umani, lo strazio senza fine di crimini ed eccidi. Una mattanza costata decine di migliaia di morti al cospetto della sconcertante inerzia e debolezza politica delle istituzioni e delle comunità internazionali. Ad Aleppo il confuso groviglio di milizie armate – regolari, irregolari, minoranze curde, sunniti, sciiti, laici, hezbollah, lealisti, ribelli e tagliagola – rende indeterminati e indistinguibili non solo i fronti militari ma anche le frontiere e le categorie mentali con le quali tentiamo di capire e di interpretare ciò che accade.
Nel caos in cui è stata gettata la città distrutta, la cui “liberazione” coincide paradossalmente con la fuga e la deportazione dei suoi abitanti, si possono leggere, come in uno specchio frantumato e ridotto in schegge, la condizione e le contraddizioni della crisi profonda in cui versa tutto l’Occidente, attraversato da molteplici linee di frattura, piegato e ripiegato su se stesso da insicurezze e paure, due formidabili motori politici che producono e riproducono sfiducia, egoismi, rancori sociali, muri, fortezze e trincee. Dalla deflagrazione mesopotamica, dalle mille Aleppo dove la vita non vale più niente e la morte insegue e incalza i sopravvissuti, scaturiscono esodi e migrazioni, la diaspora dei bambini e dei minorenni non accompagnati, l’esercito degli sfollati, la via crucis dei profughi. Ma negli anfratti dello stesso contesto prende forma anche il verminaio del terrorismo, muove quella guerra asimmetrica condotta da cellule impazzite di una mostruosa metastasi islamista. Di questa guerra è tra l’altro rimasta di recente vittima un’altra giovane italiana, Fabrizia Di Lorenzo, uccisa nell’ultima strage di Berlino. In questo cupo scenario due generazioni di coetanei finiscono inconsapevolmente per consumare la tragedia di un destino comune: da un lato i carnefici, gli affiliati all’esercito dell’Isis, sedotti e intossicati dalle lugubri dottrine della Jihad; dall’altro quanti casualmente si trovano senza volerlo ad essere nudi bersagli degli attentati.
L’annus horribilis che ci lasciamo alle spalle prepara un cielo carico di nuvole, minacciato dal vento xenofobo del lepenismo e dal furore populista del trumpismo. In Europa e oltreoceano sono messi a dura prova i gangli vitali delle nostre democrazie, nelle cui dinamiche hanno un peso crescente i fattori emozionali piuttosto che quelli razionali, l’incapacità di distinguere nella comunicazione dei social e nella valutazione dei fatti la verità dalle finzioni, la realtà dalla sua invenzione. Nel regime mediatico della psicopolitica non è escluso che qualcuno interpreti il voto con lo stesso approccio con cui si pone su Facebock in rapporto alle sbrigative opzioni Mi piace/non mi piace. Le scorciatoie della banalizzazione e della semplificazione liberano dalle fatiche del pensare, dall’esercizio del dubitare, dai rischi dell’interrogarsi sulla complessità del mondo contemporaneo.
A fronte di queste prospettive Dialoghi Mediterranei, pur nella dimensione artigianale del suo vascello destinato a navigare nell’ampio oceano della rete, si conferma spazio critico di confronti e riflessioni, luogo di ricerche e dibattiti, di puntuale attenzione per le dinamiche culturali che attraversano il nostro tempo. Chi vi collabora adotta per lo più gli strumenti interdisciplinari dell’antropologia che meglio si prestano ad interpretare e rappresentare il dialogo tra le differenti visioni della vita, la polifonia delle immagini e delle storie offerte dalla globalizzazione e dalla ibridazione delle identità e delle molteplici forme di umanità. E questo dialogo, queste immagini e queste storie si sforza di restituire «come esperienze possibili, come utopie ancora desiderabili a generazioni ulteriori, bussole ancora non del tutto arrugginite, o mongolfiere per cieli ancora da venire». Le parole con le quali Pietro Clemente conclude il suo contributo in questo numero ci pare che colgano a pieno lo spirito dialogico, inclusivo e ospitale che appartiene alla linea editoriale, alla idea stessa sottesa alla genesi della nostra rivista.
Il dialogo come mezzo e come fine, come metodo conoscitivo e come paradigma antropologico. Contro ogni tendenza all’assertività e contro ogni “a priori”. Così, nel dibattito sui monoteismi, a cui partecipano con accenti e approcci diversi Rosolino Buccheri, Pietro Clemente, Cinzia Costa, Sara Raimondi e Brunetto Salvarani, il dialogo è posto al centro non dei massimi sistemi teologici ma più concretamente nelle opportunità d’incontro tra i soggetti che praticano le diverse religioni di appartenenza. Lungi dall’essere «un talismano capace di risolvere ogni problema», esso s’impone come necessario e perfino inevitabile per effetto della «continua interazione fra genti originarie di culture e di fedi diverse», una assiduità e una pluralità di contatti che nella vita quotidiana permetteranno di «superare le ortodossie imperanti per avanzare verso una maggiore uniformità di giudizi e di costumi». Non sfugge tuttavia il dato storico e antropologico che segna le differenze e le distanze tra le culture religiose: esse «racchiudono esperienze del mondo e del tempo diverse, irriducibili». Ma è proprio «con questa consapevolezza relativistica che occorre guardare con speranza e insieme con prudenza alle possibilità di incontro delle grandi religioni, di per sé, e contro la violenza, contro la lunga esperienza storica delle religioni che si fanno guerre».
A guardar bene dentro questo denso numero – che conta più di 40 contributi, una strenna di fine anno – le diverse voci degli autori sembrano tessere un loro segreto dialogo, non solo una esplicita consonanza di temi ma anche un’involontaria corrispondenza di suggestioni simboliche, di rimandi interni. Non sappiamo quale sia la chiave di questa sottile e invisibile trama, che tiene insieme gli scritti sui diversi aspetti delle migrazioni e le riletture critiche di Pitrè, le rigorose analisi del controverso sistema dei centri di accoglienza e lo spoglio attento di documenti ed eventi folklorici, le ricerche inedite sull’Islam politico e religioso e gli studi approfonditi su teorie e metodologie disciplinari, lo scavo sull’attualità e le puntuali ricognizioni storiche e linguistiche, il ricordo di Dario Fo e il ritratto di Mircea Eliade, le parole dei cantastorie siciliani e quelle dell’utopista belga George Lutte, le pagine dello scrittore francese di origini armene, Pascal Manoukian e quelle dello studioso messicano immigrato negli Usa, Renato Rosaldo: tutto forse si tiene nella speciale declinazione antropologica della letteratura ovvero nello sguardo eminentemente letterario di un’antropologia che ama gli sconfinamenti, i vagabondaggi e le contaminazioni.
Ha in questo senso ragione Stefano Montes quando scrive nel suo contributo su Kundera che «la vita – ovviamente di volta in volta ripensata secondo le relative discretizzazioni culturali – debba divenire, essa stessa, campo di investimento antropologico nella sua ricca complessità. La vita è dunque un campo: un campo di continua osservazione e interazione. La letteratura, in questo, può giocare un ruolo importante perché, più che una diversione dalla realtà, può invece essere intesa come strumento di approssimazione e di deformazione rivelatore dei suoi diversi incastri e linguaggi». La vita nelle sue molteplici manifestazioni ed espressioni, dalla nascita alla morte, assunta a campo etnografico, non è solo una provocazione intellettuale ma è invece una estensione di quell’antropologia esistenziale che, sulla scia di Albert Piette, indaga le regioni private degli uomini, i dettagli apparentemente insignificanti che ne tradiscono le individualità ma ne connotano anche trasversalmente per vie semiotiche le abitudini mentali e comportamentali, vale a dire le appartenenze culturali. Non diversamente dalle storie di vita, che in quanto rappresentazioni e narrazioni dell’identità costituiscono un formidabile scandaglio di tutto il mondo umano che si riverbera nell’unicum di quella vita.
In questo numero, infine, dialogano non solo i testi ma perfino le immagini, attraverso le fotografie di Angelo Cirrincione che propone una lettura comparata di due città capitali del Mediterraneo, di Palermo e Istanbul. Nella metropoli turca l’autore ritrova le stesse suggestioni che suscita la decadente bellezza palermitana, «quella mescolanza della storia con le rovine, delle rovine con la vita, e della vita con la storia» di cui ha scritto Pamuk. Dagli scorci del porto ai mestieri per strada, al teatro dell’arte dell’arrangiarsi, dagli sventramenti del centro storico alla socialità urbana dei mercati, dalla religiosità popolare espressa nelle piazze alla monumentalità architettonica prodotta dall’illustre passato: le due città accostate nello sguardo del fotografo scoprono la loro mediterraneità, rivelano epifanicamente come in un palinsesto le memorie della loro comune storia culturale, quella impalpabile e irriducibile koinè che confonde Oriente e Occidente e ci conferma nel convincimento che il Mediterraneo non è affatto un luogo comune ma è piuttosto un luogo in comune.
Nell’esprimere gli auguri per il nuovo anno perché sia più giusto e generoso, Dialoghi Mediterranei e l’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo si associano alla petizione promossa dal “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani”, con la quale si chiede al Parlamento italiano che la nuova legge elettorale in preparazione riconosca il diritto di voto in tutte le elezioni a tutte le persone che in Italia vivono, non più soltanto ai nativi ma anche a chi non vi è nato ma realmente ci vive, vi lavora, manda a scuola i propri figli, produce ricchezza per tutti, sostenendo in misura decisiva il sistema pensionistico e arginando il declino demografico del Paese. Sono milioni di persone coraggiose e laboriose che con la loro umanità fanno del bene alla nostra comunità nazionale. È anche auspicabile, infine, in nome dello stesso principio di civiltà, che nel corso del prossimo anno sia definitivamente approvata la nuova legge che estende il diritto di cittadinanza ai figli degli immigrati stranieri che nati in Italia sono ancora italiani senza patria. Buon Anno a tutti!
un anno più sereno e più giusto per tutti e tutte e un grazie di cuore a Dialoghi Mediterranei per il fatto di esistere : elaborando idee diffondendo notizie informazioni documenti …in pratica essendo nella STORIA e producendo STORIA , alimentando una tessitura eccezionale con narrazioni e indagini che vanno a costituire quell’archivio della memoria collettiva , che serve nella continuazione per conoscere, capire e contrastare ogni dominio autoritario . A chi legge D.M. l’utilità è duplice : creare gruppi di riflessione / azione e togliere dall’isolamento i singoli e le singole persone .
Lacerata dai fatti di cronaca e dalle conseguenze di scelte politiche scellerate , nella giornata odierna , mi tornano alla mente i versi pieni di forza , vitalità e vita del poeta turco Nazim Ikmet e l’affettuosità e il sorriso di 3 bambine di Aleppo che, con la loro famiglia, nei giorni scorsi abbiamo accolto a Bologna .
Loro sono il senso della vita e la spinta ad andare avanti
Alla vita
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non é uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Nazim Hikmet