Questo giovane profugo che si fa fotografare giocando con la maglietta a nascondere parzialmente se stesso, il suo volto e il suo corpo, nel voler schermare e travisare la propria identità, guardandoci senza essere guardato, velandosi senza del tutto sottrarsi allo sguardo, sembra dissimulare la propria imbarazzata presenza, la ricerca di una qualche fragile difesa dal mondo che non conosce e che si accinge a scoprire. È uno dei partecipanti al workshop di fotografia organizzato presso il Centro d’accoglienza di Torretta nel territorio palermitano, un’esperienza culturale di formazione basata sull’uso dello smartphone come strumento di auto- narrazione attraverso le immagini. Ne scrive in questo numero di Dialoghi Mediterranei Nuccia Cammara, coordinatrice e responsabile del progetto destinato ai minori stranieri non accompagnati sbarcati in Sicilia.
Di giovanissimi profughi senza famiglia l’Isola conta tra le regioni la percentuale più alta, e le comunità che li ospitano non sempre sono adeguatamente attrezzate sul piano dei mezzi e delle competenze. Il popolo dei bambini e degli adolescenti migranti, in continua crescita nel nostro Paese, resta quasi invisibile, sommerso o sospeso nel limbo di strutture burocratiche dove l’estenuante attesa finisce col produrre nuove fughe e drammatiche scomparse di minori inghiottiti dalle sabbie mobili del lavoro nero o nelle terribili spirali della criminalità organizzata e della tratta della prostituzione. Nulla sappiamo di loro, cosa pensino, cosa abbiano visto i loro occhi, quali vicissitudini abbiano attraversato, quali muri, pericoli e rischi abbiano scavalcato e quali memorie di affetti, di dolore e di traumi custodiscano nel corpo della loro disperata diaspora. Nulla sappiamo del futuro che immaginano e quale immagine dell’Occidente portino con sé dal cuore remoto dell’Africa, quali sentimenti e quali desideri muovano i sogni e i progetti maturati nelle angustie delle loro giovani vite.
Da qui la necessità della presenza di antropologi, di psicologi e di esperti di scienze sociali all’interno dei centri di accoglienza, dentro il complesso sistema di protezione ancora troppo spesso piegato a logiche e gestioni di affari privati e di interessi economici e poco attento ai percorsi di cura e recupero della persona, di inclusione e valorizzazione dei soggetti più vulnerabili del fenomeno migratorio. Non c’è nulla di più critico e problematico del loro processo di formazione e socializzazione, in quanto alla variabile dell’età di conflittuale transizione si somma quella connessa alla condizione etnica, allo statuto dello straniero, ancor più senza famiglia e senza patria di riferimento. Più in generale l’ambivalenza adolescenziale che oscilla tra la ricerca dell’indipendenza e dell’autonomia da un lato, e il bisogno di riconoscimento e posizionamento identitario dall’altro, assume nei minori richiedenti asilo una tensione strutturale di comportamenti, tra libertà e sicurezza, tra mobilità e radicamento, tra apertura e mimetismo. Non ha forse questo segno l’atteggiamento ambivalente del giovane profugo fotografato che vela e svela quella parte di sé dimidiata da spinte opposte e da contraddizioni insolubili? In fondo, nel gioco della rappresentazione con l’ausilio dello smartphone si mette in scena nello spazio pubblico la propria storia di vita, una narrazione costruita su strategie di volontà relazionali condizionate da fragilità emotive e incertezze difensive.
Costituiscono utili contributi alla riflessione su questi temi alcuni degli articoli pubblicati su questo numero di Dialoghi Mediterranei. Così Paolo Grande racconta la sua prima giornata di mediatore culturale all’interno di un centro di prima accoglienza di Augusta, dove ha imparato ad «ascoltare con le orecchie e con gli occhi, a ricordare i loro volti e le loro storie», poiché «il disagio psicofisico che ha accompagnato il migrante fino all’Italia è una precondizione che un mediatore ha ben chiara nella sua mente». Giovanni Cordova e Mariangela Zema ragionano, invece, sull’attivazione dei tirocini formativi per richiedenti asilo, individuando criticità e potenzialità relative all’impiego professionale dell’antropologo nei contesti istituzionali dell’accoglienza. Lella Di Marco ha raccolto alcune testimonianze di donne immigrate a Bologna le cui storie private denunciano il prezzo pagato dalla loro doppia subordinazione pubblica, quella associata alla condizione di straniera che deve periodicamente rinnovare i permessi di soggiorno e quella dipendente dal ruolo femminile tradizionalmente assegnato nel costume e nelle società del mondo arabo. Donne migranti dall’Africa sono pure protagoniste dell’articolo di Valeria Dell’Orzo, giovani che però sono riuscite a riscattare la loro condizione di minorità, inventandosi imprenditrici e investendo le loro energie creative e progettuali nell’attività di confezione di capi di abbigliamento eseguiti nello stile di una sorta di metissage della cultura figurativa popolare del continente africano con quella della Sicilia di adozione.
Francesco Della Puppa torna a ricostruire le rotte della diaspora bangladese, il cui baricentro si è negli ultimi anni decisamente spostato dal Medio Oriente all’Europa meridionale (Spagna e Italia soprattutto), fino a fare di Roma uno degli Adam Bepari, centro di smistamento e irradiazione dei flussi nel mondo, nonché crocevia di transito per generazioni di nuovi migranti. Di migrazioni di parole scrive Giovanni Ruffino che si occupa delle dinamiche linguistiche di Lampedusa, particolarmente singolari per sincretismo e ibridismo, per effetto della sua storia: «un groviglio di voci che si intrecciano e si sovrappongono», in quanto in passato «terra di insediamenti più o meno effimeri, di approdo e rifugio di cristiani in fuga dalle persecuzioni musulmane, per navi pirata, vascelli corsari, flotte crociate. Terra di eremiti di fedi diverse», oggi «laboratorio di cooperazione, di una visione mediterranea dell’Europa».
Non meno ibrida era la lingua che gli italiani parlavano nella Tunisia multietnica della prima metà del secolo scorso in cui convivevano insieme a turchi, arabi, francesi e maltesi − una sorta di neolingua franca impastata di italiano/siciliano, arabo dialettale e francese italianizzato − attestata anche nelle cronache del periodico satirico Simpaticuni, come documenta nel suo articolato contributo Ahmed Somai. Lo studioso spiega l’influenza della lingua italiana nella parlata tunisina di oggi che, pur legata al mondo francofono, si presenta essa stessa «in qualche modo come il risultato di questo brassage di lingue e di culture». Somai è, tra l’altro, attivo divulgatore della letteratura italiana in Tunisia attraverso un’intensa opera di traduzione di autori contemporanei, da Italo Calvino a Umberto Eco. Un impegno culturale destinato a consolidare il dialogo tra l’Italia e il mondo arabo.
Ad altri ibridismi culturali, risalenti all’anno Mille, quando «in pieno feudalesimo l’uomo oscillava tra il terrore apocalittico e la speranza di un rinnovamento», ci conduce la suggestiva lettura dell’immaginazione onirica proposta da Valerio Cappozzo che, alla maniera di Camporesi, si cimenta nell’attento scrutinio di antichi manoscritti per rintracciare nell’incontro tra cultura araba e latina tecniche e saperi dell’interpretazione dei sogni, «quel particolare evento a cui tutte le società hanno posto attenzione al di là delle barriere religiose, culturali e ideologiche».
Alla celebrazione non retorica della memoria storica e culturale Dialoghi Mediterranei dedica in questo numero diversi interventi. In prossimità del cinquantesimo anniversario del terremoto nel Belice ne scrivono Vincenzo Corseri e Nino Giaramidaro. Il primo, nel recensire la ristampa di un volume di Lorenzo Barbera (I ministri dal cielo), ricorda il ruolo da protagonista che l’autore ebbe insieme ad altri nelle lotte per la ricostruzione e la emancipazione delle popolazioni locali; Giaramidaro, invece, incrocia in un dolente epicedio le vicende del sisma con quelle del quotidiano L’Ora, per cui ha lavorato da acuto e infaticabile cronista fino alla sua definitiva chiusura.
A distanza di quasi un anno dalla scomparsa di Antonino Buttitta pubblichiamo in anteprima un suo saggio contenuto in un volume in corso di stampa da Sellerio, un’opera postuma che documenta la sua particolare sensibilità di antropologo attento alle suggestioni e alle escursioni letterarie. Tra le altre memorie rievocate: la figura della coraggiosa scrittrice albanese Musine Kokalari, la tragica pagina di storia della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema del ‘44, le singolari esperienze di vita di un popolare poeta di strada di Mezzojuso, le vicende dell’ascesa e della decadenza dei Florio nella storia economica della Sicilia, la lezione di Don Milani e della sua Scuola di Barbiana.
Molto altro, come sempre, si offre ai lettori. Tra le recensioni si segnalano quelle relative a due importanti riscoperte editoriali per la prima volta in traduzione italiana: Il Libro di Kahlid di Rihani e Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani di Dwairy, opere che lungo percorsi diversi mettono in dialogo Oriente e Occidente, offrendo inedite e profetiche prospettive interculturali. Il fascicolo contiene inoltre una bella intervista su pluralismo religioso e spazi urbani, una penetrante ricognizione sulla metropolitana di New York e sui suoi utenti, nonché non meno interessanti scritti che riguardano questioni teoriche di antropologia, ricerche etnografiche e folkloriche, riflessioni su beni architettonici e su attualità culturali e istituzioni religiose.
Chiude questo fascicolo il prezioso contributo di Vito Teti che, nello spazio dedicato ai piccoli paesi, “Il centro in periferia” curato e introdotto da Pietro Clemente, nel descrivere i luoghi degli affetti e delle memorie autobiografiche, traccia un quadro preoccupante delle spinte neoborboniche scatenate in una terra, quella del profondo sud della Calabria, dove un antico vizio separatista si accompagna a delusioni recenti, a quella inquietante nostalgia regressiva a cui Bauman ha dato il nome di retrotopia.
A pensarci bene, mentre va in rete questo numero di Dialoghi Mediterranei, sul crinale tra il vecchio e il nuovo anno, nessun segno augurale si intravede all’orizzonte della vita pubblica e della società civile nel nostro Paese. I migranti restano stretti e intrappolati tra le inaudite violenze dei lager libici e i rischi incombenti dei naufragi nel terribile mare d’inverno, cresce il sovranismo e si indebolisce il fronte dell’ospitalità e dell’accoglienza, si è impegnati a fare la guerra ai poveri, di cui si rimuove la presenza fisica a difesa di un presunto decoro urbano, invece di condurre la faticosa lotta contro la povertà. Nel mondo capovolto che abitiamo si fa la guerra ai migranti che fuggono dalle guerre piuttosto che combattere le cause che generano guerre, povertà e migrazioni. In questo torbido clima politico e sociale che tollera la minacciosa recrudescenza dello squadrismo e del neofascismo, che tende ad assuefarsi ai ripetuti episodi di propaganda razzista, al ritorno di slogan, sigle e metodi di azione propri di aberranti regimi totalitari ad opera di personaggi rasati e tatuati militarmente schierati contro chi diffonde “il verbo immigrazionista”, non poteva esserci né spazio né tempo per l’approvazione in Parlamento della legge di riforma sulla cittadinanza.
Cinzia Costa s’interroga in questo numero su cosa voglia significare essere oggi cittadini di un Paese, si chiede se la cittadinanza sia qualcosa che si ha o che si è, e quale sia il senso da dare al concetto di “italianità”. «Fino a poco tempo fa – scrive – (e per buona parte dell’opinione pubblica e del panorama politico ancora oggi) il binomio italiano/musulmano, italiano/nero, italiano/francofono era percepito come un vero e proprio ossimoro. Pensare un italiano con la pelle nera, o che si chiama Abdul, è spesso ancora oggi una contraddizione in termini». Eppure nelle scuole italiane convivono Mohamed e Giuseppe, Fatima e Maria e, al di là dei calcoli politici e delle meschine ragioni elettorali dei partiti dei ghetti e delle ruspe, condividono abitudini, gusti, interessi, desideri, aspirazioni, sogni. E nelle scuole, dove tra mille contraddizioni si insegna, secondo la lezione di Calamandrei, a diventare attivi e consapevoli cittadini, sta crescendo la nuova società che non vediamo e non riconosciamo, laddove nessuna sostituzione etnica si prepara, nessun genocidio dell’italica genìa, poiché non esistono, non sono mai esistiti italiani purosangue. Nello scontro ideologico di cui siamo testimoni o partecipi, abbiamo trasformato, senza forse averne piena consapevolezza, questi figli di immigrati nati, scolarizzati e socializzati in Italia in nuovi solitari apolidi del millennio, sospesi nell’indefinita e incomprensibile attesa di essere identificati per quello che sentono di essere fin dalla nascita: italiani.
Sulla soglia dell’anno che si apre con l’antico e benefico rituale di auspici e di speranze, anche noi restiamo in attesa di qualcosa che non ci faccia vergognare di essere italiani, in attesa che le parole patria, civiltà, sovranità e cittadinanza, oggi invocate e proclamate a vanvera, tornino ad avere il loro autentico e originario significato. Del resto – come scrive Stefano Montes in questo numero con la solita grazia narrativa che dona levità alle sue dense riflessioni antropologiche – «l’attesa ha un valore in sé, il valore della sospensione che pregusta l’azione compiuta e in essa non tende a risolversi e svanire prematuramente. (…) in letteratura e nella vita concreta ha il potere di produrre nuove configurazioni del mondo e del soggetto, quête narrative insospettate e frontiere simboliche imprevedibili».
Vogliamo credere con Montes che in fondo – leopardiamente – il senso ultimo del vivere sia nell’attesa, essendo in essa la condizione umana universalmente ed eternamente sospesa, appesa, impigliata come in una ragnatela di esili e fragili trame. Confidando pertanto nell’attesa di un tempo più umano e più giusto, anche noi – e di cuore – auguriamo a tutti buon anno! Che sia davvero un anno gentile!