Ha forse ragione Marcello Carlotti che in questo numero scrive di fallimento dell’antropologia, di sconfitta della scienza dell’uomo, di fronte alla inquietante deriva del nostro tempo, di fronte a quanto accade attorno a noi: «omofobia, razzismo, chiusure dei confini, decadenza culturale e morale, acriticismo e slogan precotti dominano il cosiddetto senso comune». Se tutto questo è potuto accadere è anche perché nelle scuole non si sono mai insegnati gli elementi della disciplina, nei luoghi della comunicazione mediatica la voce degli antropologi è debole e quasi del tutto assente, nel mercato editoriale e nelle librerie le loro opere trovano spazio con difficoltà, nella vita politica e nel dibattito pubblico il ruolo intellettuale degli antropologi italiani è del tutto marginale.
La scienza che insegna il valore dell’esperienza sensibile, che spiega e riconosce le diversità culturali nel progetto dell’universalità umana, che rende intelligibili i diversi modi di pensare e di agire nella critica di ogni forma di etnocentrismo e di fondamentalismo identitario, sembra oggi essere nuda, muta e disarmata di fronte alle cronache del genocidio che si consuma nel Mediterraneo, del razzismo che imperversa impunito, dello schiavismo che inquina in modo devastante i rapporti di lavoro, delle conflittualità interetniche che minano quotidianamente la convivenza democratica. A che serve l’antropologia se non ha nulla da dire sull’uso pubblico distorto del suo lessico di fondazione, sul neocolonialismo dei saperi nelle degenerate dinamiche della globalizzazione, sulle violenze contro le minoranze e sulle guerre contro gli immigrati e le ONG, sull’etnonazionalismo e sui minacciosi proclami delle presunte autoctonie? Non è forse quanto mai cogente e urgente una netta presa di posizione sulla china dell’antropopoiesi su cui stiamo lentamente scivolando, sul rovinoso impoverimento dell’umano nell’etica civile, nel linguaggio, nella politica e nel senso comune? All’antropologia non è forse legittimo chiedere quella “indiscrezione” di cui ha scritto Maurizio Bettini, quella postura non solo intellettuale che vale a indicare e tracciare i percorsi conoscitivi necessari ad attraversare i confini e a costruire modelli possibili di relazioni sociali, di connessioni ideali, di coesistenze culturali? E non va interpretata in questo senso l’affermazione di Talal Asad, citato da Stefano Montes nel suo suggestivo vagabondaggio meta-antropologico, secondo il quale «l’antropologo non solo può, ma deve agire come traduttore e insieme come critico»? E non coglie il senso profondo di questo discorso Dario Inglese, quando a conclusione della sua bella introduzione all’antropologia di Tom Ingold, s’interroga: «Il mondo non è un museo in cui ordinare dati trasformandoli in reperti, ma uno spazio che possiamo esperire e immaginare solo vivendolo e sporcandoci le mani con gli altri che lo abitano con noi. L’inquietudine dell’antropologia, in fondo, non nasce proprio da questa consapevolezza? E la sua forza non riposa in quest’inquietudine?».
La letteratura nella finzione della narrazione dà un nome e un’identità a quell’umanità, sia essa quella che arriva sfinita alle nostre frontiere, sia quella che accoglie o che respinge, oppure semplicemente osserva impotente, intimidita, impaurita, indifferente. Spesso gli scrittori ci aiutano a capire chi sono davvero quelli che chiamiamo migranti e chi siamo noi che ci diciamo italiani o europei, anche al di là e a dispetto di ciò che diciamo di essere. «Le nostre parole – ha scritto Davide Enia nel suo Appunti per un naufragio (Sellerio 2017) – possono raccontare di mani che curano e di mani che innalzano fili spinati. Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono approdati in questi lidi. Ci vorranno anni. È solo una questione di tempo, ma saranno loro a spiegarci gli itinerari e i desideri, a dirci i nomi delle persone trucidate nel deserto dai trafficanti d’uomini e la quantità di stupri che può subire una ragazza in ventiquatto ore. Saranno loro a spiegarci l’esatto prezzo di una vita in quelle latitudini del mondo (…). Saranno loro a usare le parole esatte per descrivere cosa significa approdare nella terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria, inseguendo il sogno di una vita migliore, e saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi».
Per una rivista che guarda all’antropologia, come fin dal primo numero si sforza di fare Dialoghi Mediterranei, pur con tutti i limiti di mezzi e di risorse tecnologiche, l’obiettivo è quello di testimoniare l’impegno a proporre ricerche e riflessioni sui diversi aspetti della complessità e delle contraddizioni del nostro tempo, sulla geografia e sulla morfologia dei poteri, sull’attualità delle esperienze che incrociano mondi, uomini e culture. Da qui l’attenzione per la natura e le cause profonde delle xenofobie sempre più diffuse a livello collettivo, per le memorie delle eredità antropologiche e delle rotte storicamente descritte nel Mediterraneo, per le migrazioni di popoli e le ibridazioni di miti, segni, simboli e saperi, per le emergenze architettoniche e monumentali e per le acute criticità delle periferie e degli spazi urbani, per i patrimoni letterari, artistici e musicali che inedite ricerche di prima mano portano alla luce ad attestare la mobilità, la permeabilità e la plasticità delle identità.
Segnatamente sul tema dei migranti in questo numero si approfondiscono i problemi dei minori stranieri non accompagnati (Argento-Di Rosa, Siddiolo) e quelli connessi alla formazione professionale e di orientamento al lavoro (Fogli), si chiarisce con limpidezza analitica la fenomenologia della tratta delle donne nigeriane (Regina), si decostruiscono le oscure ambiguità del discorso pubblico (Palidda), si illustra la condizione dei rifugiati palestinesi nei campi libanesi (Kortam) e si racconta infine la lunga storia di una importante rivista di carattere internazionale che ha accompagnato per quarant’anni le vicende dell’emigrazione italiana (Benedetti-Pittau).
Del Mediterraneo si recupera il gioco di sponda e di punti di vista tra le due rive, nella circolazione di miti e narrazioni tra Sicilia e Tunisia (Candiani) e tra Spagna e Marocco (Scopelliti), nell’osmosi dei processi linguistici (D’Accardio) e nelle pagine dell’antropologia mediterraneista «in cui si suole radunare l’insieme di significati, di valori e di rappresentazioni socialmente condivisi che si riferiscono e danno senso alle pratiche di mobilità di uno o di più gruppi sociali» (Armano). Che le migrazioni contribuiscono a decentrare lo sguardo e a rovesciare la prospettiva si intuisce nelle parole dei giovani gambiani che davanti al mare mai conosciuto prima, visto dalle spiagge della Libia “grande e pericoloso”, parlano di altre voci, di altre geografie, di altre mappe, «saperi, esperienze, immaginari che una parte dell’Europa vuole respingere al di là del mare» (D’Agostino). Mentre in un’altra parte della stessa Europa, nella Palermo ospitale e multietnica, cammina la storia degli uomini per le strade del centro storico «dove si mescolano tatuaggi, piercing, chador e abaya, pantaloni alla turca, bermuda e short, giocolieri, musicisti da strada, biciclette scampanellanti e anche interpreti di mestieri dimenticati, come il fotografo di strada. Una rinascita nella quale i bambini immigrati vengono portati a spasso dentro “passeggini” italiani». Così Angelo Battaglia ha documentato con i suoi scatti su via Maqueda, la via più spagnolesca della città, tra palazzi nobiliari e piccole botteghe bazar.
Non diversamente ma non casualmente a Napoli, la visibilità e il riconoscimento sociale passano anche attraverso l’intreccio tra percorsi migratori e ritualità religiose, tra conversioni e inclusioni. «Napoli – scrive Annalisa Di Nuzzo nel suo interessante contributo – integra e dà vita a nuove identità glocali. I napoletani, pur così legati ai loro culti soprattutto in zone marginali e periferiche della città, sembrano ritrovare attraverso la religione musulmana i propri valori di appartenenza appannati dal degrado socio-economico e una nuova possibilità di convivenza pacifica». Da qui il fenomeno degli iman nati a Napoli che guidano i centri di culto, «nuove creolizzazioni frutto dell’incontro tra chi accoglie le diversità e chi ne è portatore», l’emersione nel cuore del Mediterraneo di «nuove soggettività protagoniste della nuova Europa».
Delle periferie di Roma, che un tempo si chiamavano borgate, delle sue radicali metamorfosi, delle sue rarefazioni sociali, delle sue mutazioni antropologiche scrive in questo numero Maria Immacolata Macioti, che negli anni 60 e 70 insieme a Franco Ferrarotti ha condotto e guidato ricerche puntuali sul campo. La sua testimonianza, a distanza di quasi mezzo secolo, ribadisce il carattere policentrico della città, pur nel consumo di suolo e nel depauperamento del centro storico. «Gli immigrati – scrive – i richiedenti asilo, i rifugiati che vivono nel centro, dove compaiono poco, demandati come sono alla cura degli anziani e delle case; quelli, molto più visibili, che popolano le periferie, che si muovono per vie e piazze, che partecipano in vario modo alla vita della città, sono oggi presenze importanti, consentono il funzionamento quotidiano di famiglie e imprese. Eppure, ieri come oggi, o meglio oggi più di ieri sono oggetto sempre di fraintendimenti, di misconoscimenti, di rigetto. Di regola, da parte di italiani che vedono chiamato duramente in causa il loro fragile, recente benessere». Eppure la studiosa intravede in alcune periferie come quella di Corviale interessanti esperienze di progettazione dal basso (come l’Hortus urbis) perché – aggiunge – «vi sono speranze se ci si muove a partire da chi il posto lo vive, lo abita, lo conosce dall’interno, e tende reti di rapporti costruttivi con realtà che vivono problematiche affini». Dall’altra parte dell’Atlantico Flavia Schiavo, continuando la sua sistematica e capillare ricognizione su New York, sembra condividere e rafforzare la medesima tesi nella sua analisi sulla saturazione degli spazi urbani e sulle molteplici azioni collettive, significative dal punto di vista non solo ecologico ma anche e soprattutto sociale, che tendono a promuovere l’agricoltura urbana, «con interventi di riqualificazione e riuso e una specifica innovazione sperimentata in prima persona dalla “base”».
Ancora di architettura si possono leggere in questo stesso fascicolo i contributi di Olimpia Niglio e Cesare Ajroldi. La prima si interroga sulla crisi del profilo professionale tradizionale dell’architetto e sul suo ruolo culturale nell’ambito progettuale di un nuovo umanesimo. Ajroldi recupera alla memoria una pagina rilevante di storia dell’architettura siciliana tra la fine degli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento, quando nel tentativo di coniugare tradizione e modernità si diede vita ad un’originale edilizia rurale fortemente legata al contesto paesaggistico e territoriale. Niente di più lontano dall’aulicità dei modelli urbanistici perseguiti dal regime, i borghi progettati e costruiti nelle campagne siciliane gravitavano attorno ad una piazza disegnata secondo “l’idea del paese” tutta mediterranea.
La Sicilia è come sempre protagonista dei Dialoghi Mediterranei: l’Isola di Capuana e di Gerbino (Sales, Di Domenico), delle tradizioni popolari e musicali (D’Amato, Lombardo, Sarica), dell’arte figurativa sia vernacolare che cosmopolita (Todesco, Giaramidaro), del cinema (Isgrò) e dell’economia (Angelo, Lentini). Ma come sempre lo sguardo si allarga su altre realtà e altre storie: su Malta «alla ricerca di sorellanze» (Di Marco), sulla Libia «che non sarà mai un porto sicuro fintanto che non diventerà un Paese sicuro» (Mercuri), sull’Iraq e la crisi umanitaria assimilabile ad un genocidio in conseguenza delle sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a partire dal 1990 (Barbuzzi), sul Corno d’Africa e sulla genesi dei miti nazionali (Martellozzo) e infine sulla Turchia, con la minoranza armena che trova nella letteratura la sua identità fondata su lingua e religione (Vazzana).
Ampio e articolato è lo spazio in questo numero che va sotto il titolo di “Il centro in periferia”. Vi sono i contributi di un dibattito sui piccoli paesi e i musei etnografici. Si propongono le letture critiche intorno al libro Riabitare l’Italia e alle fotografie scattate da Luca Bertinotti sulla festa di san Domenico a Cocullo. Si riafferma l’importanza dell’esperienza culturale di Armungia e si ribadisce infine il ruolo della scuola nei piccoli paesi quale presidio dei «valori che connettono la dimensione locale con il mondo». Nell’intrecciare i fili di questi diversi temi Pietro Clemente non cessa di costruire e tessere l’ordito destinato a tenere insieme «azioni e progetti, proprietà e sogni in tutta la varietà della rete dei piccoli paesi: paesi e tessitura, cibo, scuola, viaggi, biodiversità, storia locale».
Mentre chiudiamo questo corposo numero che accompagnerà i lettori per tutta l’estate, la cronaca ha replicato per circa due settimane in uno stanco e insensato rituale un’eguale, ennesima immagine diffusa a reti unificate. Quella di una imbarcazione delle ONG, bloccata davanti a Lampedusa, sequestrata, impedita ad attraccare da uno schieramento armato di motovedette a difesa dei confini territoriali minacciati dai 42 migranti a bordo. Una sceneggiatura già ampiamente sperimentata e ipocritamente meditata al servizio di una politica ridotta all’esercizio di volgare propaganda, una spettacolare macchinazione che ha inoculato nel sentire comune massicce e quotidiane dosi di cinismo, di spregiudicatezza, di egoismo, e soprattutto di immoralità. Basterà avere la forza di ascoltare le voci isteriche e becere di quanti al porto di Lampedusa hanno inveito contro i profughi e la comandante che è stata arrestata con insulti sessisti di inaudita veemenza. Da quale orrido pozzo di mostruosità, da quale verminaio di marciume lessicale e degradazione etica salgono le voci di questo manipolo di facinorosi, che minacciano stupri, invocano manette, irridono e maledicono, con una oscenità e una ferocia che vanno oltre il disprezzo, oltre il razzismo?
Primo Levi, nelle pagine di I sommersi e i salvati, ha scritto che «la violenza attende solo un nuovo istrione che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo». Non credo ci sia fonte più autorevole di chi ha conosciuto da vicino le tecniche di sistematica distruzione psicologica dell’individuo. Certo, non c’è nessun universo concentrazionario all’orizzonte ma giorno dopo giorno tra gli applausi della maggioranza lo stillicidio di intolleranza e di odio sociale sta anestetizzando le sensibilità e le reattività di ciascuno, sta fiaccando le nostre coscienze, sta piegando ogni nostra resistenza.
Poi però vediamo sporgersi sulla prora il volto nitido e coraggioso della giovane Carola Rackete, si scorgono altri ammutinati dormire all’addiaccio sul molo di Lampedusa a testimoniare con il corpo ciò che resta del senso morale di questo nostro Paese. E allora continuiamo a sperare con Soumahoro che gli uomini non sono merci e non saranno mai più mezzi di nessuna utopia o ideologia ma semplicemente e irrevocabilmente fini di un progetto universale che ne riconosce e ne rispetta la dignità individuale, prima di – e perfino contro – ogni altra legge.
Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019